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SEDARIS: QUANDO SIETE INGHIOTTITI DALLA… TRISTEZZA

La mia amica Patsy mi stava raccontando una cosa. «Sono al cinema» mi dice, «e ho appoggiato la giacca per benino sullo schienale della poltrona, quando arriva questo tizio…»
E qui io la fermo, perché su questa faccenda della giacca mi interrogo da sempre.

Sono nel bel mezzo della Mondadori in centro – parliamo di dieci anni fa, quando quella Mondadori era “nuova”– e ho gli occhi gonfi di pianto perché non sono riuscita a dare un esame. Alterno fasi di apatia a periodi di ansia incontrollabile da mesi, ormai. Non so cosa fare, quindi mi rifugio in libreria prima di tornare a casa.

Vago alla cieca, in realtà, perché non ho ancora sviluppato l’abitudine di avere una lista di acquisti mirati. Sfioro i libri, leggo qualche trama, valuto qualche prezzo. Poi vedo Van Gogh su una copertina e sono combattuta fra il rigetto – non solo non amo particolarmente le opere di Van Gogh, ma il mio indirizzo di studi, il motivo della mia ansia, riguarda proprio l’arte – e la curiosità – è un’opera quasi sconosciuta, un piccolo quadretto del 1885 intitolato “Cranio con sigaretta” che ritrae, sorpresa, un cranio che fuma.

Il libro si intitola “Quando siete inghiottiti dalle fiamme” e lo trovo particolarmente adatto al mio stato d’animo.

Sbircio e scopro che si tratta di una raccolta di racconti dalla penna – che ora so essere una macchina da scrivere – di David Sedaris.

Sedaris nasce a New York nel 1956 da una numerosa famiglia greca, e nella sua vita viaggerà ovunque e farà di tutto. Se un lavoro si può immaginare, lui l’ha fatto, compreso scrivere racconti pseudo-erotici per una rivista a tema “donne giganti” (questo ve lo dico io, non la quarta di copertina). Fumatore incallito quanto la madre, conclude la raccolta di racconti con un esperimento particolare: un viaggio in Giappone con il compagno con l’obiettivo, fra gli altri, di smettere di fumare. Da questo, immagino, deriva il cranio di Van Gogh.

Non è tanto la quarta di copertina ad attirarmi, però, con le sue specifiche sul contenuto del libro o i suoi aneddoti sulla vita dell’autore, ma le prime due pagine che leggo lì, in piedi, nel bel mezzo della “nuova” Mondadori.

Il primo racconto si chiama “È contagioso” e ha già tutte le caratteristiche di un racconto di Sedaris, anche se al tempo non lo sapevo. Parte da un momento curioso della sua vita per esplorare il grottesco che c’è nella vita di tutti, quel surreale che a raccontarlo sembra incredibile ma che è poi così vero, terribile e divertente allo stesso tempo.“È contagioso” mi fa ridere, per farla breve. Tanto forte che devo trattenermi perché sono in pubblico. E mi sforzo al punto che inizio a lacrimare per ben altri motivi rispetto a qualche minuto prima.
Cos’è “È contagioso”? Ancora oggi non lo so bene. Dalla germofobia di Patsy si passa al verme che ha vissuto nella gamba della suocera di Sedaris per poi approdare sull’ipocondria di sua sorella Lisa e concludere con il numero di bambini che ogni anno muoiono di spavento.

«Poveri bambini» ha detto Ma’Hamrick.
«E poveri genitori!» ha aggiunto Lisa. «Ve lo immaginate?»
Entrambi i gruppi sono tragici, ma io ho pensato ai bambini che sopravvivono, o peggio ancora, a quelli che rimpiazzano, allevati in un’atmosfera di sobrietà preventiva.
«Allora Caitlin II, quando arriveremo a casa un sacco di persone salteranno fuori da dietro i mobili e grideranno “Tanti auguri!”. Te lo dico adesso perché non voglio che ti agiti.»

Un viaggio assurdo che mi convince a prendere il libro e che mi costringe a leggerlo per tutta la mezz’ora di viaggio sul tram.

Ridere è diventato, da quel giorno, il mio rimedio omeopatico alle difficoltà emotive e psicologiche. Non cura i miei mali, ma mi forza in direzione opposta per un po’: rido e mi dimentico di essere triste per qualche ora; rido e non sto meglio, no, ma mi scordo per un po’ di stare male. Se sono insonne, guardo uno spettacolo comico e ne rido fino a stancarmi. Guardo Bo Burnham o Daniel Sloss e non penso ad altro che a quello che stanno facendo sul palco, quello che stanno dicendo, come lo stanno facendo.

Ecco, tutto inizia da Sedaris e non finisce con “Quando siete inghiottiti dalle fiamme”.

Dopo quel primo acquisto, infatti, recupero tutti gli altri titoli– “Diario di un fumatore”, “Holidays on ice”, perfino “Naked” in lingua originale – e fra questi leggo il bellissimo “Me parlare bello un giorno” che è ad oggi, se proprio devo scegliere, il mio preferito.

Lì Sedaris racconta, fra le altre avventure personali e familiari, della casa in Normandia del suo compagno e di come restaurarla sia la scusa per imparare il francese (Sedaris è un appassionato di lingue). Da questa premessa si snodano incidenti che hanno il potere di farmi ridere ancora oggi e che non posso, per nessuna ragione al mondo, leggere ad alta voce. Lo dico perché ci ho provato, per far conoscere Sedaris al mio ragazzo, e ho rischiato di morire soffocata dalle mie stesse risate. E l’ironia della questione non mi sfugge.

Non sono mai stato uno di quegli americani che disseminano i loro discorsi di espressioni francesi e offrono agli invitati taglieri di brie. Per me la Francia non era una meta precisa, premeditata. Finii in Normandia nello stesso modo in cui mia madre finì nel North Carolina: conosci un ragazzo, abbassi un filo la guardia, e un attimo dopo ti ritrovi con il mondo capovolto.

Sedarsi impara parole in francese da cartoncini pazientemente creati con la sua fedele macchina da scrivere e intrattiene i nuovi vicini con una “patetica sfilza di nomi comuni”, indicando oggetti come un bambino.

«Posacenere!»
«Sì» annuivano loro. «Quello è proprio un posacenere.»
«Martello? Cacciavite?»
«No, grazie. A casa ce l’abbiamo.»

Il metodo funziona poco, così Sedaris inizia a imparare le parole che gli piacciono. Il problema principale è che, come me, Sedaris è morboso. Così impara “esorcismo”, “tumefazione facciale”, “pena di morte”. Parole leggermente difficili da inserire in un contesto quotidiano.

Quindi cambia ancora strategia e memorizza termini dai giornali scandalistici.

«Mangiauomini» dicevo. «Cacciatrice di dote, stallone, pezzente.»
«Ma di chi stai parlando?» mi chiedevano i vicini. «Quale arrampicatore sociale? Dove?»

Per non parlare dell’esilarante odio della sua professoressa quando si decide finalmente a seguire un corso o della sua passione per gli oggetti d’antiquariato più lugubri di cui i mercatini francesi sembrano pieni, come vecchi ferri da chirurgo e uno scheletro che, per un intero racconto, diventa un memento mori inquietante e divertentissimo.

Tutto questo per consigliarvi un autore di cui vorrei ardentemente comprare l’ultimo libro, non costasse quello che costa (se volete farmi un regalo, “Calypso” mi renderebbe felice).
Probabilmente qualcuno ha preso in mano un suo libro e non l’ha trovato così divertente, o gli darà una possibilità in futuro e non capirà cosa mi ha attratto dei suoi libri. La verità è che condivido lo stesso umorismo macabro e dissacrante, che non sono in grado di fare ma che è l’unico tipo di comicità in grado di divertirmi davvero.

O forse, in modo molto più banale, ho conosciuto Sedaris nel momento in cui ne avevo bisogno. Quando ero inghiottita… dalla tristezza.

“Mani di mandarino. La coscienza di un carusu” di Marco Antonio d’Aiutolo

Con un nuovo banner per le recensioni, vi parlo di un’interessante lettura estiva, ossia La coscienza di un carusu, primo romanzo della serie Mani di Mandarino scritta da Marco Antonio d’Aiutolo e pubblicata per Milena Edizioni (lo potete trovare sul sito della casa editrice, negli store online e, ovviamente, in libreria).

Trama: Nella Catania fascista degli anni ’30, Gabriele inizia a confrontarsi con gli altri ragazzi e a mettere in discussione quell’identità da maschio siciliano che il mondo vorrebbe imporgli. La sua lotta interiore ha origine dalla scoperta di una sessualità diversa, da una segreta attrazione per i “masculi” e da un amore taciuto, nato tra i banchi del liceo. Solo quando conoscerà Calogero, nella sua coscienza ci sarà una svolta reale. Sullo sfondo, intanto, scorre una molteplicità di storie: gli incontri clandestini degli arrusi, pederasta passivi, a piazza Alcalà, le amicizie e gli amori proibiti, gli scandali famigliari e la condizione delle “fimmine”. Quando la grande Storia irromperà nelle giornate di Gabriele, inasprendo le leggi contro gli arrusi, quei masculi che sembravano così forti si mostreranno impotenti. Sarà la forza delle “fimmine” sicule a determinare, nel bene e nel male, il destino di tutti.


Dura solo una manciata d’anni, l’adolescenza, ma è da quell’esperienza tormentata e difficile che usciamo noi adulti. Più o meno indenni. Ecco perché i romanzi di formazione hanno un fascino tutto loro, che permette di rivivere le scoperte della vita se siamo ormai grandi e di sentirci compresi se siamo adolescenti.

È il caso di questo romanzo ambientato fra l’autunno del 1933 e l’estate del 1934, in pieno periodo fascista. Gabriele Di Mauro, da buon esponente di una famiglia sicula per bene, dopo il ginnasio viene mandato a studiare a Catania per volere del padre. È proprio fra l’anno scolastico in città e l’estate nel piccolo paese di Giarre che viviamo la sua storia. Una storia che alterna i due grandi momenti – l’anno scolastico e le vacanze estive, appunto – in un susseguirsi frammentato di esplorazioni, delusioni e piccole vittorie che non hanno mancato di emozionarmi in più punti, tutte legate dai pensieri di Gabriele e dalle considerazioni su quanto gli accade.

Se c’è una nota formale che può essere fatta, riguarda il punto di vista: seguiamo Gabriele per la maggior parte del romanzo tranne in qualche paragrafo, in cui la prospettiva si sposta e il narratore si focalizza su altri personaggi. Troppo pochi, questi momenti, perché il narratore mi sia sembrato onnisciente, ma comunque abbastanza da essere notati e risultare un po’ strani dopo che il narratore si concentra su Gabriele per pagine e pagine. Questa scelta funziona molto bene in alcuni contesti, però (nel prologo, per esempio), e il romanzo è in generale così ben scritto da non infastidire con questi piccoli cambiamenti.
La scrittura, infatti, è maneggiata sapientemente: la forma si adatta al contenuto ed evita sia inutili abbellimenti sia uno stile esageratamente banale. Il linguaggio utilizzato è fortemente intriso di siciliano, ma veniamo aiutati dall’equilibrato uso delle note a piè di pagina, che accorrono in soccorso solo dove strettamente necessario, senza essere invadenti nelle parti in cui il significato di una parola è comprensibile dal contesto.

Niente sapeva degli arrusi, Gabriele Di Mauro, quando, nel settembre del 1933, si trasferì a Catania: nenti di nenti, se non lo sparuliari della gente.

Gabriele è il protagonista, quindi, ed è una creatura “altra” rispetto ai maschi che lo circondano. Non solo i “masculi” adulti, che incarnano l’ideale da cui lui è attratto e respinto allo stesso tempo – perché non lo sente come parte di sé ma come parte dei suoi desideri –, ma è anche diverso dai suoi stessi coetanei, che già vestono i pantaloni lunghi tipici della vita adulta. Lui infatti, pallido, creatura del mare, fatto di una bellezza innegabile ma delicata e così diversa da quella dei “veri uomini”, veste ancora i pantaloni corti. Questo è uno dei tanti simboli che mi ha colpita, una delle tante immagini del romanzo che rimandano alle sue grandi tematiche. Un’altra, per fare un esempio, è quella delle ciliegie usate come orecchini nei giochi d’infanzia che Gabriele condivide con Catena – la sua migliore amica – in cui i due mimano le gestualità delle donne del paese. E, ancora, le “mani di mandarino” che danno il nome alla saga, tratte dal ricordo del profumo che i mandarini lasciavano su Gabriele quando era piccolo.
Attraverso queste immagini, quindi, i temi: la crescita, la scoperta di se stessi e della propria identità, l’interiorità in contrasto con il mondo fuori dal sé, l’idea di un universo femminile e di uno maschile come due poli opposti, con niente nel mezzo, che non riguardano solo il genere ma anche la sessualità (un’idea che alcuni personaggi rinnegano anche solo esistendo).

Ma, in cuor suo, Gabriele aveva sempre saputo di non essere come gli altri coetanei. Sentiva di non essere, come dire, masculo masculo.

Gabriele sperimenta la vita circondato poi da una moltitudine di piccoli e grandi personaggi. Nessuno è immune a un ruolo, nel romanzo, che sia rendere l’idea del contesto o interagire con il protagonista per cambiarne la visione del mondo (e, di conseguenza, influire sull’andamento della trama). Nessuno è superfluo e nessuno è superficiale, soprattutto per quanto riguarda i personaggi femminili. Sono madri, amiche, zie, ma sono prima di tutto persone; aderiscono agli archetipi di riferimento solo nella misura in cui è necessario per l’ambientazione della storia, dopo di ché diventano complessi, fatti di sfumature, ribelli nelle possibilità che l’epoca concede. Un esempio è zia Gilda, la parente che ospita Gabriele durante l’anno scolastico, con le sue vedute più ampie rispetto alla comunità che la circonda.

Proprio grazie alla zia, Gabriele entrerà in contatto con un mondo che in qualche misura aveva già sperimentato, ma mai con la consapevolezza di questo momento della sua vita. Gli omosessuali che prima erano una creatura mitologica, distante, fatta di tentacoli e tentazioni, acquistano consistenza solo quando Gabriele incontra Calogero, l’assistente del sarto della zia. A Calogero basta uno sguardo più attento per scovare qualcosa nel ragazzo e per invitarlo agli Archi della Marina, di notte popolati da uomini alla ricerca di altri uomini, da uomini vestiti da donne, da tutte quelle creature “altre” rigettate dalla società.
Questo invito tormenta Gabriele fin dalle prime pagine del romanzo ma è solo alla fine che scopriamo quale sia la decisione di Gabriele in merito, segno di una storia che incuriosisce, che sprona a proseguire per svelarne i misteri.

Gabriele scorse in lui qualcosa di diverso (e simile), di estraneo (ma familiare), come se anche lui appartenesse a un mondo altro, al mondo degli abissi.

Le rivelazioni giocano un ruolo importante in questo romanzo. Non solo quelle che il lettore vuole avere, ma anche quelle interne, nate dal contrasto fra i segreti dei personaggi che popolano il romanzo e la maschera che la società impone di mantenere. Un contrasto ben rappresentato dal padre di Gabriele, impaurito non solo dalla consapevolezza che il figlio posso essere diverso ma soprattutto dalla possibilità che gli altri colgano e sottolineino questa diversità.
Questa contrapposizione scorre poi in una delle sotto-trame più rilevanti, quella legata a un piccolo scandalo che coinvolgerà una vecchia conoscenza di Gabriele e che permetterà al lettore di scoprire eventi passati a cui Gabriele accenna per buona parte del libro, stuzzicando la curiosità. Un ruolo chiave nel riparare allo scandalo lo avrà proprio il padre di Gabriele, che nel romanzo diventa così, a tutti gli effetti, il protettore delle apparenze.

Gabriele pensò anche al patri ed emersero in lui emozioni contrastanti: timore e venerazione, ansia e passione, sottomissione e rispetto.

Dinamiche di questo tipo non sono proprie solo di Giarre, però. Catania, pur essendo una grande città, non risparmia a Gabriele la scelta di un ruolo sociale. E con questa scelta, fatta il primo giorno di scuola, scopriamo un lato di Gabriele più in ombra, manipolatore, accattivante e… davvero interessante. Sì, perché a questo tipo di malizia – che nasce più da un istinto che da vera intenzione –, si contrappone un’innocenza che emergerà soprattutto d’estate, quando Gabriele si rapporterà con un uomo più grande di lui trasferitosi nelle vicinanze della sua residenza.
Le sfaccettature rendono Gabriele un personaggio tridimensionale, di cui importa seguire l’evoluzione, ma danno anche spessore alla trama legata alla sua crescita, alla sua consapevolezza di sé.

L’accettazione di Gabriele dipendeva anche dalle sue qualità. Aveva, infatti, la capacità di attrarre la simpatia e conquistare la benevolenza.

Tornando all’anno scolastico, anche qui l’autore non ci risparmia una schiera di personaggi ben scritti che credo si avrà modo di esplorare più a fondo nei prossimi libri: i Finocchiaro con il resto dei compagni di scuola, e l’amato Pietro, a cui Gabriele pensa sin dall’inizio romanzo. Fra i coetanei si creano dinamiche complesse e, grazie a loro, si esplorano i temi tipici dell’adolescenza: dal cambiamento dei corpi alle relazioni con le ragazze, fino ai ruoli di potere nel microcosmo sociale che i ragazzi creano.
Pietro non sarà però l’unico a ritagliarsi un posto nel cuore e nei desideri di Gabriele, e in questo emerge un buon ritratto del suo essere un adolescente in esplorazione di se stesso.

Ma poi, come d’incanto, senza preannunciarsi e senza poterselo spiegare, ecco ritornargli in mente il volto del suo bel Pietro Spaduzza e, con lui, macari quello di Tano, lì, sul davanzale delle vecchie scuderie di palazzo Torrisi.

Per concludere, un romanzo che intrattiene senza rinunciare alla profondità, con le radici salde nel territorio e nella storia, ma con i temi proiettati verso l’universale umano, che riesce a incuriosire sulle vite dei suoi personaggi fino all’ultima pagina (e oltre).

5 TRUCCHI PER STARE BENE MENTALMENTE

Sono tornata dalla mia estate di vacanza dai social (conta come vacanza vera?) e immagino di essere mancata terribilmente. Non temete, non solo sono qui, ma porto con me un’utilissima lista!

Però il titolo di questo articoletto è un’esca, devo ammetterlo. Clickbait, come dicono i più tecnologici. No, non c’è bisogno di chiuderlo e scappare, perché c’è davvero una lista in cinque punti e parlo davvero di come stare bene. Solo che non sono trucchi. I trucchi, mi dispiace dirlo, non esistono. Anzi… iniziamo dal primo punto.

1 – Non esistono trucchi per stare bene

Non basta mangiare bacche di goji (ancora non ho capito cosa dovrebbero fare, né perché costino come diamanti) o fare il saluto al sole ogni mattina; adottare un cucciolo oppure sistemare la propria stanza. Non basta pensare positivo o fare una lista di “cose belle che ci sono capitate durante la giornata”; sfogarsi con un amico o fare passeggiate nei boschi. Stare bene dal punto di vista emotivo e psicologico è un lavoro impegnativo che non finirà mai, soprattutto se avete costruito la vostra vita (come me) su fondamenta fragili. E se questo vi lancia in una crisi esistenziale sul lavoro che richiederà sopravvivere per altri cinquant’anni minimo (a patto che la terra sopravviva altrettanto): complimenti, siete umani! Ecco una stella dorata e ora tornate alla vostra giornata.

Il punto è che non esiste una cura miracolosa, ma tanti piccoli accorgimenti uniti a tante grandi decisioni. E quando si raggiunge un punto di equilibrio – che sia evitare di piangere davanti a un bicchiere che si rompe perché “vedete? Non valgo nulla, non so neanche tenere in mano un bicchiere” o evitare una scenata iraconda degna di una tragedia greca perché una vecchiettina ci supera alla cassa oppure, ancora, riuscire ad alzarsi dal letto senza trovarla un’impresa impossibile –, si deve essere consapevoli che non si è arrivati da nessuna parte. Un giorno si sta bene, il giorno dopo si potrebbe stare male, il giorno dopo chi può dirlo? È un percorso in cui il traguardo è continuare a percorrere. Una di quelle gite panoramiche in cui non si sa bene dove si sta andando e che all’inizio ci sembra l’inferno (non dovevamo ascoltare l‘agenzia di viaggi, no) ma che poi diventa quasi piacevole. Anzi, no, bella.

2 – Piangere sui limoni versati

Viviamo in un’epoca in cui siamo bombardati dalla positività, dall’antica televisione ai più moderni influencers.
“Pensate positivo!”
“Starete bene!”
“Pensate alla fortuna che abbiamo a esistere!”
“Siate forti!”
“Se la vita vi dà limoni…”

In questo contesto il mio messaggio è: “concediamoci di stare male”. E non perché stare male sia bello o particolarmente augurabile; semplicemente perché concedersi di abbracciare la negatività quanto la positività è importante. Fondamentale. Siamo umani (lo dice la nostra stella dorata di prima) e siamo fatti per provare emozioni e sentimenti di ogni tipo, da quelli positivi a quelli negativi. E poi è importante per tutta una serie di motivi validi che comporrebbero una sotto-lista degna di un articolo clickbait a sé:

– non possiamo controllare quello che proviamo, ma solo come agiamo;
– reprimere la negatività significa entrare in un circolo vizioso in cui ogni volta che emozioni, pensieri e sentimenti negativi si palesano ci sentiamo in colpa, alimentandoli invece di elaborarli;
– questo tipo di cultura nasce dalla vergogna verso il disagio mentale. Una vergogna immotivata e malsana, figlia delle generazioni precedenti e non certo della nostra, che rischia solo di isolare invece che spingere a cercare supporto.

A volte si sta male, chi più chi meno, e negarlo non fa sparire il malessere, anzi…
Insomma, se la vita ci dà limoni, niente ci vieta di piangere perché volevamo mele. L’importante è avere gli strumenti per elaborare quello che proviamo (ecco il perché del prossimo punto).

3 – Chiedere supporto professionale*

Abbracciare la negatività non significa abbandonarsi al malessere e rassegnarsi per sempre a non stare bene. Se il disagio persiste, consultare il medico, dicono. E non vale solo per gli antidolorifici che ingurgitiamo al minimo dolorino.

Questo punto è complesso e di certo il mio articoletto frizzantino non sarà abbastanza per coprire la questione in modo esaustivo, ma voglio parlare un po’ di terapia: la mia idea è che dovrebbe passarla la mutua alla nascita, a tutti, nessuno escluso. Perché lo scopo non è entrare in uno studio, sedersi e piangere (succede, ma non è lo scopo finale), bensì costruire degli strumenti per affrontare la vita nel modo più sano possibile, godendosi il viaggio invece che odiando ogni secondo di ogni giorno. Se si è fortunati, questi strumenti vengono dati dai genitori; nella maggior parte dei casi, però, le generazioni precedenti non sanno manco cosa voglia dire avere consapevolezza delle proprie emozioni, figurarsi tramandare questa consapevolezza ai figli. E qui arriva in soccorso la terapia, che ci fornisce stampelle adeguate per imparare a camminare da soli come non ci è mai stato insegnato prima.

L’idea che sia per pochi, per i pazzi, non solo è sbagliata, ma anche fuori moda. Sì, una moda può essere positiva ed è proprio questo il caso. Si scherza sempre che i millennial non riescano a fare un discorso senza citare il proprio terapeuta… beh, grazie al cielo, dico io.

E non solo la terapia: viva i farmaci quando sono necessari! Viva il progresso scientifico che ci permette di avere un supporto, temporaneo o a lungo termine che sia, per imparare a vivere nel miglior modo possibile. E sì, sono consapevole che non sempre trovare il farmaco giusto sia facile, né credo sia bello averne bisogno (soprattutto per tutta la vita, nei casi più complessi), né escludo la problematicità che l’argomento porta con sé. Credo solo sia necessario svecchiare un po’ l’approccio, altrimenti la lista non sarebbe completa.

“Però la terapia costa”, dicono.
“Però non ti sei informato”, rispondo io.
Esistono ospedali, associazioni, consultori. Esiste internet per trovare opinioni su tutto questo e sui rispettivi professionisti (internet fa anche cose buone, davvero). La soluzione c’è, anche se non è veloce come sborsare settanta euro a seduta. Basta chiedere…

*Postilla: il nostro migliore amico, la portinaia, nostro cugino non sono terapeuti. Possiamo sfogarci con loro? Sì, certo. Consapevoli, però, che non sono formati per aiutarci, che potrebbero dire la cosa sbagliata, che rischiamo anche di caricarli di una responsabilità che non dovrebbero avere: quella della nostra salute mentale. Chi ci sta attorno è una risorsa preziosa e deve supportarci, ma non può sostituire il lavoro con un professionista.

**Postilla alla postilla: vale anche se il nostro amico fa il terapeuta di mestiere. È nostro amico, è coinvolto. Smettetela di cercare una scappatoia alla mia lista!

4 – Multitasking

Quindi basta andare in terapia, pensare negativo e staremo tutti bene?
No (vedi il primo punto).

Aiuta, a volte è fondamentale, ma lo è solo insieme a tanto altro. Il lavoro inizia fuori dallo studio, quando dobbiamo prendere le piccole decisioni di tutti i giorni. Il che significa mangiare, fare attività fisica, avere abitudini sane, circondarci da persone che ci supportano, trovare gioia in quello che ci piace fare e ridurre al minimo indispensabile quello che odiamo fare, per quanto ci è possibile.

Questa è la parte difficile: accettare che mente e corpo non sono due entità separate, così come non lo siamo noi e il mondo che ci circonda. Tutto è collegato e tutto ha delle ripercussioni sul resto.

Quindi sì, se stiamo tappati in un ufficio tutto il giorno, forse il latte possiamo andare a comprarlo a piedi. Se facciamo un lavoro solitario, forse possiamo trascinare qualcuno fuori per un caffè di tanto in tanto, se mangiamo sempre sofficini in padella forse un’insalata la domenica sera non ci ucciderà. Scelte piccole, che sembrano irrilevanti, ma che sono un altro dei modi in cui possiamo prenderci cura di noi. Senza ossessionarci, ma facendoci caso.

5 – MarieKonda (o quasi) la tua vita

Perché dico “per quanto ci è possibile”? Perché non ho mai creduto fosse sano imporsi regimi eccessivamente restrittivi, né tutti possiamo permetterci di tagliare con quello che è dannoso nella nostra vita da un giorno all’altro.

Però si vive una volta sola e il pianeta sta ticchettando. Allora ha senso sprecare il nostro tempo? Ha senso uscire con quell’amico che è una presenza tossica solo perché siamo amici da molto tempo? Ha senso tenersi un lavoro che odiamo senza neanche provare a trovare qualcos’altro? Ha senso mettere da parte un sogno perché farne un progetto è faticoso? Ha senso restare in una relazione che non ci appaga e da cui l’ultima gioia l’abbiamo avuta il Natale dell’87?

Se il metodo Konmari prevede di disfarci di tutto quello che non dà gioia (e che, in un momento no, potrebbe essere davvero di tutto), credo sia invece meglio disfarci di quello che ci ostacola attivamente, che ci ferisce, che ci danneggia perché tossico.

Non è facile, realizzare che dipende tutto da noi. Non è facile perché le volte in cui non è vero, le volte in cui dipende dagli altri, dalla fortuna, da una serie di eventi casuali sono quelle che fanno più male e che ci ricordiamo di più. E abbiamo tutto il diritto di stare male e di arrabbiarci. Anche in quei casi, però, come decidiamo di usare quello che ci accade, come decidiamo di elaborarlo, come ci lavoriamo sopra… beh, spetta a noi.

E questo è quanto. Non sono regole assolute, né ho alcuna competenza professionale per dirvi quanto sia giusto o meno quello che ho scritto (vedi il terzo punto), ma ho passato un periodo difficile e volevo condividere come ne sono uscita.
Niente trucchi, niente miracoli, ma tante grandi, piccole scelte.

EDITORI E BLOGGER: come (non) fare la corte ai recensori

In questi giorni, soprattutto su Instagram, si sta parlando molto del rapporto fra editori e blogger, fra chi i libri li pubblica e chi aiuta a spargere la voce – positiva o negativa – su quegli stessi libri.
Vorrei approfittarne per fare qualche riflessione, per capire come funziona il sistema, come potrebbe funzionare meglio e qual è il nostro ruolo di lettori comuni che fruiscono dei libri pubblicati e recensiti.

Come funziona?
Funziona che un profilo o un blog hanno determinati numeri di visualizzazioni, seguaci, interventi e, in base a quanto sono grandi, ricevono dalle case editrici delle copie gratuite di cui parlare. Se i soggetti sono influencer, i libri arriveranno dalle big o dalle medie “prestigiose”, se sono numericamente più piccoli avranno a che fare con case editrici più piccine o direttamente con gli autori (per esempio nel caso del selfpublishing), se magari hanno la reputazione di cacciatori di perle rare potrebbero ricevere i libri da case editrici che non sono conosciutissime ma hanno una buona reputazione in tal senso, se invece hanno il potere di farlo possono essere loro a richiedere determinati titoli alle case editrici, e così via.
Insomma, salvo casi specifici, il sistema funziona in base alla visibilità.
Nel sistema, però, c’è anche qualcosa che non funziona. Sì perché ricevere un libro in cambio di una recensione non significa sempre ricevere un libro in cambio di una recensione onesta. Per questo alcuni editori tendono a rendere più o meno note le loro richieste: fra non-detti, sottintesi e pretese esplicite, c’è chi manda copie solo in cambio di recensioni entusiaste. Pubblicità (positiva) che costa quasi nulla, giusto le copie del libro, ma che fa girare titoli e autori per il web, dove potranno raccogliere qualche vendita in più.
Ai bookblogger, poi, conviene avere collaborazioni con le case editrici: le case editrici condivideranno i loro articoli – con un ritorno di visibilità per il blog –, e in più loro non dovranno svenarsi per comprare tutti i libri da recensire. Anche perché si parla di ultime uscite, una spesa non indifferente, quindi. Inoltre c’è sempre un po’ di prestigio nel collaborare con una casa editrice, perché significa aver i numeri per farlo, iniziare ad avere la tanto sudata visibilità, essere tenuto in conto anche dagli addetti ai lavori.
Questo discorso non vale per tutti i blog o per tutti gli editori, com’è ovvio che sia, ma è da questa parte meno nobile del rapporto fra blog ed editori che nasce la riflessione del post.

La Libridinosa e La Corte editore
La mia riflessione parte, però, da un evento ancora più specifico, anche se è da tempo che il tema di questo rapporto – editori e bookblogger – viene discusso sui gruppi e fra chi si interessa di libri o con i libri ci lavora.
La Libridinosa pubblica – sul suo blog e, di rimando, con una foto su Instagram – la sua recensione di “A cosa servono le ragazze” di David Blixt. Il libro, pubblicato da La Corte Editore, non le è piaciuto, e la recensione non ne fa segreto, soffermandosi su tutti i motivi per cui il romanzo non funziona come tale.
Sotto la foto Instagram appare poi un commento fatto con il profilo dell’editore che le spiega il libro e che la accusa di averlo recensito negativamente per il semplice fatto di non aver ricevuto la copia gratuita su cui si erano accordati. Una caduta di stile da parte dell’editore, fra l’altro espressa pubblicamente, in cui la blogger coglie l’accusa di non essere onesta nelle sue recensioni.
Consiglio, per evitare che questo mio scarno resoconto banalizzi lo scambio, di seguire La Libridinosa e le sue storie in evidenza.

L’immagine pubblica dell’editore e l’importanza della giusta comunicazione
Arriviamo subito al punto della questione: una casa editrice non è un passatempo, ma un lavoro. Può appassionare chi lo svolge, può essere il frutto di un amore smisurato per i libri, ma resta una questione professionale. Chiunque si interfacci con il pubblico, quindi – dall’editore più piccolo in cui le stesse persone ricopriranno più ruoli, a quello più grande in cui c’è un ufficio stampa – dev’essere professionale e deve tenere in conto le possibili ripercussioni di un intervento fuori luogo. Su internet si ha sempre l’impressione che la comunicazione abbia un altro peso, che sia meno concreta, ma non è così: ha un suo codice, richiede attenzione e comporta delle conseguenze (proprio come la comunicazione fatta di persona). Soprattutto se si devono sfruttare i social per costruire la propria immagine professionale.
A questo non è stata data attenzione, ovviamente, e il ritorno negativo di pubblicità che La Corte Editore avrà da questa scivolata non è indifferente, anche se potrebbe durare poco grazie ai velocissimi tempi con cui tutto nasce e muore su internet.
Il motivo per cui si contatta un blogger – la pubblicità praticamente gratuita – in casi come questo si ritorce contro l’editore e porta alla luce quello che non funziona nel loro rapporto. A rimetterci, però, è più che altro il lettore dei blogger che preferiscono lo scambio vantaggioso con le case editrici a quello con i loro lettori.

Le recensioni: un parere personale?
Non mi ha mai convinta l’idea che una recensione sia frutto esclusivamente del parere personale di chi la sta scrivendo. Si ha sempre più l’impressione che chiunque possa scrivere una recensione, ma io ho sempre tenuto alla distinzione fra un commento, un’impressione, un parere, un consiglio (tutti diritti del lettore, anche di quello che ha un blog) e una recensione, che presuppone una – anche minima – capacità di analisi critica e di comprensione del testo. Questo non significa che solo i laureati in lettere possono permettersi una recensione, ma significa che sono necessarie certe competenze. Che poi vengano acquisite leggendo manuali o seguendo corsi di lettura consapevole, perché si ha a che fare con il mondo dei libri per motivi professionali o si ha una spiccata sensibilità letteraria, non è rilevante, per me. Non significa neanche dover essere seri e inamidati come le riviste di critica letteraria, perché un blogger può essere bravo ad approcciarsi a un testo e mantenere una vena ironica e leggera nelle sue recensioni.
Significa solo avere idea di cosa costituisca un testo e di come gli strumenti della scrittura possano essere usati bene o male.
Questa riflessione, che prescinde dal caso specifico con cui ho aperto questo post, mi serve per esporre i punti successivi.

Numeri e qualità
Gli editori dovrebbero avere fiducia nei prodotti che pubblicano e, grazie a questa fiducia, non dovrebbero temere un parere onesto da parte dei blogger.
Certo, emerge un altro problema: dal momento che tutti fanno recensioni, come potrà l’editore essere certo che quello specifico blogger colga per bene il libro e sappia argomentare le sue impressioni in modo accurato?
Gli basterebbe non guardare solo e soltanto ai numeri, ma anche alla qualità. I numeri – i follower, l’engagement e tutte le altre parole care al nostro tempo – sono un dato importante, che sicuramente aiuterà nel selezionare i blogger, ma poi si potrebbe dare un po’ di attenzione a come questi blogger lavorano, a cosa recensiscono e come analizzano i testi per motivare i loro pareri.
Avendo fiducia nel proprio prodotto e nelle capacità di chi lo riceve di leggerlo e capirlo, il problema dello “scambio di favori” non dovrebbe più sussistere. E può essere un pensiero naïve, non lo metto in dubbio, ma la spedizione sconsiderata di copie a chiunque abbia più di mille follower perché del libro “se ne parli” l’ho sempre trovata una pratica un po’ pericolosa. Perché nell’epoca di internet, basta un attimo perché tutti parlino di un libro nello stesso identico modo (non sempre positivo).

Le recensioni negative
Ci sono poi blogger che le recensioni negative non le fanno e preferiscono tacere se un libro non li colpisce. Premetto che io non faccio recensioni, né sui miei canali come youtube, dove mi limito ai consigli di libri che mi sono piaciuti (spesso di altri emergenti), né su goodreads, dove preferisco chiamare le mie considerazioni “commenti”. Quindi, a parte rare esperienze, non so cosa significhi davvero dover parlare costantemente di libri in modo motivato, curato e serrato su una propria piattaforma. Delle recensioni sono per la maggior parte una lettrice (almeno al momento di questo post).
Però sono d’accordo. Nel senso che ognuno dovrebbe essere libero di gestire il proprio blog come crede sia meglio: sì, se si pubblica un libro ci si deve aspettare anche un riscontro negativo, e un blogger può voler fare delle considerazioni anche su un libro che non è piaciuto visto che ha speso del tempo per leggerlo; di contro un blogger può anche nascere con l’intento di spargere la voce sui libri che reputa meritevoli e magari evitare di dare spazio a quelli che non rientrano nei suoi standard qualitativi , soprattutto se non si è riusciti a finire la lettura.
Quello che non credo, comunque, è che una persona con delle competenze (ripeto, anche minime) che le permettono di recensire un libro debba sentirsi in difetto nell’esprimere un parere negativo. Né credo che siano moralmente superiori i blogger che decidono di pubblicare recensioni negative dei libri. Come dicono oltreoceano “you do you”, basta fare le cose per bene, in modo onesto.

Il ruolo del lettore
Le mie letture sono in minima parte influenzate dai blog. Un po’ perché è difficile trovare un blog che parli dei libri con temi che mi piacciono, un po’ perché tendo a preferire alle recensioni i pareri di persone che so avere gusti simili ai miei, che magari seguo sui social e che, in generale, stimo per motivi personali. Persone che spesso non hanno un blog, non fanno recensioni, ma si limitano a dire “questo libro mi è piaciuto per questi motivi, questo libro non mi è piaciuto per questi altri”, soprattutto se sono addetti ai lavori (altri scrittori, editor e simili).
Questa però è una scelta – anzi, lo definirei più un istinto – personale, che niente toglie all’utilità dei blog. Un lettore approda su un blog di questo tipo, infatti, proprio per leggere le recensioni su un libro – magari perché è affezionato al taglio che ha quel blog, magari perché il libro in questione lo interessa – e, in alcuni casi, per tenerle in considerazione al momento di acquistarlo o meno. Un grande blog può muovere una buona quantità di gente, quindi, e la gente siamo noi lettori.
Se un blog decide di non pubblicare recensioni negative e magari collabora con le case editrici e si fa mandare le copie in cambio di pareri quantomeno positivi se non entusiasti, come lo sapremo noi lettori? E, anche nel caso pubblichi recensioni negative, come sapremo che non sono frutto di questioni altre rispetto alla qualità del libro?
Leggendo le recensioni.
Se una persona ha capacità critica, se sa riflettere su un testo, lo si legge. Si trovano osservazioni sul modo in cui sono trattati i personaggi, sull’ambientazione, sulla trama, sul lessico, sullo stile, sul modo in cui si adegua a un genere oppure ne sconvolge i canoni, eccetera. Sembrano considerazioni personali? Questo perché possono esserlo: un conto, per esempio, è apprezzare o meno un determinato aspetto di una storia, tutt’altro conto, invece, è sapere quando quella caratteristica sta bene in quel contesto, quando è sfruttata con attenzione, quando – nonostante possa non piacerci personalmente – è stata utilizzata con consapevolezza.
La differenza fra una recensione e un parere, per essere ripetitivi.
Se il lettore inizia a premiare i blog di buona qualità, quei blog avranno buoni numeri e per gli editori sarà facile mandare i libri senza la paura che a riceverli sia qualcuno che non è in grado di recensirli. Se l’editore avrà fiducia, poi, nei suoi prodotti, non dovrà mai e poi mai specificare – o sottintendere – che desidera un riscontro positivo.

Conclusione
Parlando dell’evento in sé, non c’è dubbio che l’editore – o chi ne ha fatto le veci – abbia preso una decisione sbagliata. La questione, infatti, si è risolta con delle scuse molto più professionali del commento e sono certa che settimana prossima ce ne dimenticheremo tutti (complici altre questioni che infiammeranno il mondo di bookstagram, booktube e simili).
Più in generale, invece, credo siano i lettori a fare la differenza. Il sistema, infatti, è fatto di ottimi blog e di ottime case editrici, ma anche di blog meno buoni (seppure con grandi numeri) e di case editrici meno abili nelle pubbliche relazioni e nel rapporto con i blog e i lettori. Forse suona retorico e un po’ vuoto, ma potremmo pensare di premiare i primi e ignorare i secondi, imparando a distinguere fra chi ha per le mani gli strumenti per recensire un libro e chi invece si limita a dire se gli sia piaciuto o meno.
Per quello esistono le stelline di goodreads, dopotutto.

ORIGINALITÀ E BANALITÀ: fra scelte e competenze

“QUESTO ROMANZO NON È ORIGINALE”
Con molta più diplomazia e capacità retorica, questa frase si può trovare ovunque, fra le recensioni di Goodreads e Amazon. La risposta automatica – spesso da parte di chi ha il cattivo gusto di difendersi dalle recensioni negative – è che non esistono storie originali.
Nell’articoletto di oggi vorrei spiegare perché non sono d’accordo né con la critica, né con la risposta. Come sempre, esporrò la mia personale opinione e l’articolo sarà una scusa per ricordare anche a me stessa alcuni di questi punti.

L’ORIGINALITÀ ESISTE
Se si cerca sul web o si leggono manuali di scrittura creativa (soprattutto se scritti oltreoceano, dove sembrano amare le liste numerate) si troveranno svariate trame di base: c’è chi ne identifica sette, chi venti, chi altre quantità arbitrarie; c’è perfino chi vede nell’archetipo del viaggio dell’eroe la forma base di tutte le storie. In fondo, ridotte all’osso, tutte le narrazioni riguardano un personaggio, un desiderio, degli ostacoli (esterni o interni).
Quindi niente è davvero originale?
Non credo. Se una storia fosse fatta di sola trama, se un’idea si esaurisse in se stessa, allora sì. Ma una storia e un’idea hanno senso solo quando sono raccontate. Anche se si dovesse arrivare a un risultato scontato riducendo un’opera intera a una sola frase, quella singola frase non varrà mai tutta la storia.
In una narrazione, infatti, ha un peso non indifferente scegliere come esporre la storia, quali vie prendere per arrivare al lettore, perfino con un’idea semplice e dall’apparenza scontata. A rendere interessante un’idea che è già circolata, poi, c’è di certo anche il chi: lo sguardo di chi racconta la storia, il suo punto di vista, la sua specifica sensibilità. Per non parlare del momento in cui viene scritta e diffusa, del perché si è deciso di raccontarla, del mezzo attraverso cui viene fruita, e tanti altri dettagli che possono – a seconda delle circostanze – rendere interessante l’idea più ovvia.
Scrivere una groundbreaking novel non è semplice e non tutti hanno la folgorazione che porta a un romanzo in grado di riscrivere i confini della letteratura (sì, strano ma vero, non tutti sono Joyce). Quello che conta davvero, quindi, non è essere originali a ogni costo, ma evitare di essere banali.

COSA RENDE UNA STORIA BANALE?
Potrebbe sembrare – e in certi contesti è così – che l’originalità e la banalità siano poli opposti.
Se è vero che una storia originale non potrà mai essere banale e viceversa, però, non è sempre vero che una storia sarà banale se non è originale. Mi spiego: l’originalità assoluta è propria di pochi, ma non per questo tutto il resto della produzione letteraria mondiale è scontata. Proprio per quello che ho scritto prima, le storie possono essere interessanti non tanto per la loro idea di base, quanto per come vengono esposte, per il punto di vista particolare che quell’autore ha sul mondo, per le tecniche usate, per il modo in cui si tratteggia la psiche del protagonista, e così via.
Un romanzo o un racconto sono scontati quando non sappiamo usare le tecniche narrative in modo adeguato, quando non riusciamo a sfruttare la costruzione dei personaggi a nostro vantaggio per interessare il lettore a seguirli durante il loro viaggio, quando tutto l’universo che una storia può essere si riduce a una pila di cliché.
Specifico: utilizzare i cliché che ci piacciono non è un peccato mortale, ma ci rende il lavoro più complicato. Per fare in modo che la nostra storia non si confonda fra altre che utilizzano la stessa identica dinamica, dobbiamo conoscere gli strumenti tecnici della scrittura e utilizzarli per fare in modo che sia interessante leggere tutto quello che gira attorno ai cliché da noi tanto amati.

IL PROCESSO CREATIVO
A volte ho letto di persone che definivano i propri lavori assolutamente originali, non influenzati da letture, visioni, altri prodotti creativi. Credo che questa percezione di se stessi e di ciò che si produce manchi di una certa consapevolezza. Sono infatti convinta che le persone creative siano spugne in grado di assorbire non solo dal mondo che le circonda, ma anche dalla fruizione di altri prodotti creativi. Non è per forza un percorso voluto (da questo, forse, deriva la mancanza di consapevolezza), ma le idee tendono a spuntare fuori rimescolando gli stimoli ricevuti.
A volte esce qualcosa di incredibilmente originale, altre volte esce qualcosa di interessante.
Altre volte ancora il risultato sarà banale. Magari perché ci è piaciuta molto un’idea e vorremmo averla scritta noi, altre volte perché pecchiamo di superbia e pensiamo che fra le nostre mani quell’idea possa avere una vita migliore, altre ancora dobbiamo allenare di più la nostra immaginazione. Insomma le ricette per il disastro sono infinite, in realtà, e non sto neanche parlando dei casi di plagio spudorati (quelli sono un discorso a parte che con il processo creativo non ha nulla a che fare).

IL PUBBLICO
Concentrarsi troppo su che pubblico vogliamo è una delle vie che potrebbe portarci alla banalità (sempre parlando per generalizzazioni), ed è più rischioso che guardarsi attorno o lasciarsi ispirare dai prodotti creativi altrui.
Questi, infatti, sono pensieri che sarebbe bene avere a prodotto finito. Non completo, ma finito. Dopo la prima bozza, quando è il momento dei primi – grandi – aggiustamenti, ci possiamo chiedere se la storia ha un suo pubblico dal momento che, nel migliore dei casi, ci toccherà renderla vendibile. Farlo prima potrebbe comportare un caso di prodotto-fotocopia, creato per essere consumato piuttosto che per sfogare la creatività: vediamo un pubblico e decidiamo di scrivere qualcosa indirizzato proprio a lui, creato su misura per quella domanda. È una scelta remunerativa, nessuno lo mette in dubbio, ma non è una scelta creativa. Solitamente quel pubblico consuma prodotti in modo quasi bulimico, andando sul sicuro nei suoi acquisti perché quella storia l’ha già letta in altre versioni e sa che gli piace. Chiuso il libro, spento il reader, se ne dimenticherà e passerà alla successiva.
Se ricorderà una storia, sarà quella che è stata creata così per istinto personale dell’autore, non quella creata così per il pubblico, per le vendite, perché il nostro nome giri fra i lettori. Non sostengo ci siano più storie proprie della prima categoria e meno storie scritte spontaneamente per lo stesso pubblico; credo solo che nelle prime si percepirà meno originalità che nelle seconde, per quanto la sostanza – sempre se ridotta all’osso – sia la stessa.

IL GENERE
Stesso discorso per il genere. “Voglio scrivere un romanzo fantasy” oppure “voglio scrivere un romance” non sono pensieri sbagliati di per sé, ma non sono necessari alla creazione. Meglio abbandonarsi al processo creativo (che sia pianificato o spontaneo) e pensare a prodotto finito – come per il pubblico – all’etichetta da appiccicarci sopra. Se partiamo con un’idea così rigida di quello che vogliamo, rischiamo di intrappolarci nelle regole dei generi, di seguirle come dogmi invece che come indicazioni, e di diventare banali per non rischiare di trasgredire e, magari, non piacere ai lettori di quel genere.
Certo, vale sempre la regola che tutto può essere reso interessante con il giusto approccio, ma ha senso imporsi limiti quando non sono necessari a scrivere una bella storia?

LE FANFICTION
Le fanfiction sono un esempio di storie interessanti anche se non originali per forza di definizione. Non vale per tutte le fanfiction, visto che molte sono i prodotti-fotocopia di cui ho scritto sopra (che è il motivo per cui certa produzione con standard qualitativi tipici della gratuità da fanfiction non dovrebbe essere pagato, a mio parere), ma quelle ben scritte sono un esercizio di creatività. Per trovare qualcuno che legga le nostre fanfiction, infatti, dobbiamo rendere interessante qualcosa di già conosciuto al lettore. Come? Incredibilmente (per chi non conosce questo universo, almeno), utilizzando gli strumenti della scrittura. La forza delle fanfiction sta nella capacità di utilizzare stile, punti di vista, analisi dei personaggi e tecniche narrative per ridare forza a qualcosa di già esistente. Non solo: i tag e gli avvertimenti non sono altro che i cliché propri della scrittura in generale (le famose trame di base), ma rielaborati e rivisti nella singola fanfiction avranno il potere di renderla interessante.

IL PREGIO DELL’ORIGINALITÀ, IL PROBLEMA DELLA BANALITÀ
Uno scritto creativo è come una torta. Che è una similitudine scontata (tanto per restare in tema), ma rende l’idea.
L’originalità è una decorazione sulla nostra torta, una glassa: un di più che può rendere il dolce delizioso e che sarà la parte preferita di molti, ma che non è strutturale.
Gli strumenti della scrittura, le tecniche narrative, sono invece la base, il pan di spagna. Difficile che da soli siano gustosi (per quanto ad alcuni piacciano), ma sono necessari, tengono tutto in piedi e danno una forma riconoscibile alla nostra torta. La banalità sta lì, quando non abbiamo un buon impasto del pan di spagna, quando le nostre difficoltà in cucina si ripercuotono sulla parte fondante della torta.
Per recensire criticamente (che poi dovrebbe essere un po’ l’unico modo di recensire, quello fatto con sguardo critico), la differenza è fondamentale. Così come è fondamentale per comprendere una recensione negativa che tira in ballo l’originalità.

CONCLUSIONE
Quando si critica un romanzo per mancanza di originalità si sta dicendo, in realtà, che è banale. L’originalità dell’idea non è propria di tutti e sarà un valore aggiunto per la storia. La banalità, invece, è un problema strutturale, di fondamenta, di incapacità nel maneggiare le tecniche. Si può essere interessanti senza essere originali, ma per curare la banalità bisogna scavare molto più a fondo, ripensare il nostro rapporto con la tecnica e con il processo creativo. Non tanto perché raccogliamo gli stimoli esterni – che trovo facciano parte della creatività – quanto perché li subiamo invece che rimescolarli e sfruttarli. Certo, scegliere di vendere, di partire da un pubblico alla ricerca di una specifica storia, da un genere entro cui incasellarsi, da percorsi fatti “al contrario”, non è sbagliato di per sé. Il rischio, però, è che qualcuno possa trovare la nostra storia banale e scriverci “questo romanzo non è originale”.

IL SALONE DELLA CULTURA 2019

A Milano, gennaio ci fa venire voglia di entrare in letargo e uscire solo quando un raggio di sole filtra oltre lo smog. Così, per tutta la strada che separava la fermata del tram dal Superstudio Più che ha ospitato il Salone della Cultura, non ho fatto altro che pentirmi di essere uscita di casa.

È andata meglio all’interno, ma solo dopo aver superato insoliti problemi con i biglietti: sono stata indirizzata alle casse per l’acquisto e sono tornata indietro per farli scansionare (fin qui tutto nella norma), peccato che il biglietto del mio ragazzo sia stato letto subito e il mio no; l’addetto agli ingressi ci ha provato una singola volta e poi mi ha chiesto di passare alle casse dove avevo appena acquistato l’ingresso, non si sa bene con la speranza in quale risultato. Perfino il cassiere mi ha guardato sperduto quando gli ho spiegato cosa stesse succedendo. Alla fine, in un altro ingresso, i biglietti sono stati letti senza problemi. A volte basta intestardirsi… o, beh, provare più di una volta.

E lo so, lo so che questa lamentela è sterile e non serve a niente, ma sto facendo il resoconto della mia giornata ed è l’una di notte, orario standard a cui mi ritrovo per scrivere questi post, quindi mi si passi un filo d’acidità.
Per il resto non mi posso lamentare dei giovani volontari (o poco più?) che sono stati selezionati come staff, perché sono giovani e volontari, appunto, e sono stati tutti gentilissimi a dare indicazioni, gestire il guardaroba e timbrarci il dorso delle mani per farci entrare e uscire (una cosa che le celebri fiere dell’editoria potrebbero imparare, evitando di imprigionare dentro chi paga il biglietto perché vale “un ingresso” e non “una giornata”).

Un punto a favore di quest’edizione è stata la disposizione degli stand. L’anno precedente i piccoli e medi editori erano relegati in una stanza che non era di passaggio e che è rimasta, di conseguenza, deserta (come abbiamo ricordato con Elena del blog Sogni di carta e altre storie, che consiglio di visitare). Quest’anno, invece, era obbligatorio passare per i loro stand prima di entrare nella parte dedicata all’usato e all’antico, e la loro sezione è sembrata molto più frequentata e vivace. Lo trovo giusto, perché sono realtà che molti conoscono poco e trovarsele davanti agli occhi è più facile che andare a cercarle con intento per i locali.
Nella sala che occupavano l’anno prima sono stati messi gli stand con i libri d’antiquariato e i laboratori di carta e rilegatura, perché quelli sì che hanno un loro pubblico e delle persone interessate a seguirli nonostante la sistemazione spaziale.

Non ho comprato molto. Come sempre il mio ragazzo ha razziato lo stand della Hypnos con quello che gli mancava e io ne ho approfittato per recuperare due volumi della prima edizione di Harry Potter che mio padre mi ha disperso fra un trasloco e l’altro (che. dolore.)
C’era molto da vedere, spulciare, selezionare, ed è stato divertente farlo, come ogni volta, ma se c’è una lezione che il trasloco e il nuovo anno mi hanno insegnato è quella di comprare solo i libri che voglio ardentemente, che desidero con tutta me stessa, che bramo con la potenza di mille soli… insomma, ci siamo capiti: ho fatto la brava e non ho inflitto alla nuova libreria più peso di quanto già non ne sopporti.

Se l’evento continuerà a migliorare e a trovare un modo sempre più efficace di accogliere il pubblico, come sta dimostrando, io continuerò a frequentarlo e ad affrontare il freddo d’inizio anno solo per lui. E, forse, ma solo forse, riuscirò a essere sempre più brava e a comprare sempre meno libri.

INTRATTENIMENTO E LETTERATURA: uno sterile dibattito (italiano)

“La letteratura d’intrattenimento non è letteratura”
Se gli intellettuali e i critici marciassero per le strade, questa scritta sarebbe su almeno dieci cartelli, e far passare questo messaggio sarebbe l’obiettivo dell’intera protesta. Perché questo è un dibattito vecchio quanto la scrittura che, soprattutto in Italia – dove la tradizione della letteratura di genere è meno legittimata, ed è storicamente forte la produzione di narrativa generale – non smette mai di auto-alimentarsi.
“Intrattenimento” diventa una parola sporca, legata al soddisfare un prurito estemporaneo come potrebbe fare la televisione (anche qui, perché in Italia abbiamo iniziato a sviluppare un senso di qualità del prodotto televisivo solo di recente, dato che prima la qualità era propria solo di un certo tipo di cinema impegnato). Insomma, per nessuna ragione un concetto da avvicinare all’arte.
Una visione semplicistica e superficiale che non dovrebbe appartenere agli ambienti intellettuali – se proprio per l’intelletto questi ambienti si distinguono –, ma che esiste e di cui vorrei parlare in questo articolo.

Intrattenere
Partiamo dalle ovvietà: la narrativa generale non esclude l’intrattenimento, e viceversa. Se smettessimo di pensare a compartimenti stagni, mettendo qui il bello e lì il brutto, e apprezzassimo le sfumature senza la paranoia di perdere le definizioni (e quindi le nostre certezze), la vita sarebbe molto più semplice. Perché, diciamolo, far rientrare la vita nelle nostre costrizioni è molto più complicato che accettarla così com’è. Ma sto filosofeggiando. Il punto è questo: nella “vera letteratura” l’intrattenimento è sempre stato presente, perché l’arte tutta è potenzialità di fruizione. Altrimenti non esisterebbe produzione letteraria, cinematografica, figurativa, e tutte le opere se ne starebbero ad ammuffire in cassetti e soffitte. Un pubblico è previsto, è preso in considerazione, e uno degli scopi è sempre tenerlo lì, a fruire di qualcosa.
Intrattenere, quindi, come tenere lì, tenere occupati, senza limitarsi all’accezione del termine che associamo al divertimento.

La “vera letteratura”
Molti di quelli che oggi consideriamo autori di “vera letteratura” sono stati, a loro tempo, qualcosa di molto simile all’intrattenitore: mentre la letteratura andava sdoganandosi e non era più materiale per soli intellettuali, fioccavano i romanzi d’appendice. Romanzi che, ad oggi, sono grandi classici della letteratura inglese, francese, russa.
Qual è la differenza?
Perché una differenza c’è, è ovvio.
Dickens, Flaubert, Dostoevskij e tutti i loro simpatici amici sono stati in grado di resistere alla prova del tempo invece di essere dimenticati, perché le loro opere hanno qualcosa di universale e profondamente umano che continuerà a parlare ai lettori anche in futuro. Non importa se stiamo cercando di portare a casa la pagnotta (o di pagarci il vizietto del gioco, vero Fëdor?), l’importante è metterci l’anima, puntare al meglio che si possa creare, tenere a mente che anche la più banale esperienza umana può essere narrata in modo che parli all’anima. Intrattenere, quindi, una parte più profonda di noi che va oltre la soddisfazione di una voglia superficiale.

L’importanza (ignorata) della qualità
A questo punto può sorgere spontaneo chiedersi come spingersi più a fondo e se sia davvero necessario farlo.
Sulla seconda domanda, la mia risposta è semplice: sì. L’obiettivo non dovrebbe mai essere, scrivendo, “voglio che la mia storia sia dimenticabile”. Le autrici e gli autori che conosco, quelli di cui posso sperimentare indirettamente il processo creativo, non si pongono il problema del loro pubblico quando ideano una storia, ma non sputano sulla carta tutto quello che esce dal loro cervello senza selezionare o ragionare e, in seguito, rivedere e sistemare. Questo significa che il loro obiettivo è – anche involontariamente – quello di fare bene il loro mestiere, in modo da essere letti e apprezzati (per quanto possibile, com’è sempre ovvio quando si parla di processi creativi e percezione da parte del pubblico).
Ricordati, quindi.
Con questa predisposizione mentale, si risponde anche alla seconda domanda: perfino nella dinamica più scontata (mi si passi il termine denigratorio) – ad esempio “lui e lei si incontrano” –, se esploriamo i personaggi, le circostanze, gli ostacoli e i motivi delle scelte, possiamo trovare spunti per far sorgere domande, riflessioni e pensieri involontari. Non è necessario filosofeggiare e dispensare grandi verità, quando si scrive, ma fare bene il proprio compito di scrittori. Il resto viene da sé.
Pare ovvio, seguendo questo ragionamento, che la vera distinzione non dovrebbe riguardare la letteratura di genere e la narrativa generale, ma la qualità del singolo libro e le capacità del singolo autore. A mio parere si dibatte mancando il punto per l’ennesima volta.

Scrivere per scrivere, non scrivere per vendere
Tutta l’arte è commercio. Bisogna scendere a patti con questa materialistica verità.
Però, come accennato sopra, a mio parere non è vendere lo scopo con cui l’arte dovrebbe nascere. La narrativa (di genere o generale che sia), dovrebbe partire dal desiderio di scrivere, di raccontare al meglio una storia, e porsi il problema del pubblico solo in modo collaterale.
Quando commerciare prevale sul creare, si dà fondamento al pregiudizio che affligge la narrativa di genere: la sua scarsa qualità.
Se il nostro obiettivo è vendere, infatti, tenderemo a restare entro le regole del genere di riferimento e a rispettarne i paradigmi, in modo da proporre qualcosa di familiare e facile da acquistare. Se siamo abituati a comprare carote arancioni, difficilmente compreremo carote viola, per intenderci; se vendiamo carote, quindi, meglio produrle arancioni e farla semplice.
Il problema è che non stiamo facendo bene il nostro mestiere di scrittore (al contrario di chi vende carote, che può venderle un po’ come gli pare). Anzi, non lo stiamo facendo affatto.
Evitare i cliché, imparare le regole e infrangerle, raccontare le banalità della vita con uno sguardo diverso, sono le caratteristiche che faranno ricordare a qualcuno la nostra storia, che la faranno amare, che sia una storia d’amore, di pirati, di serial killer poco importa.

Un invito per chi legge
Questa piccola analisi – che come ogni venti del mese nasce dalla voglia di chiacchierare di un tema specifico e, magari, conoscere le opinioni altrui in merito – non ha lo scopo di sminuire chi legge scritti di scarsa qualità per la voglia divertirsi un paio d’ore e poi passare oltre. Io vivo secondo il motto che si può leggere ciò che si vuole, senza eccezioni.
Vorrei solo far notare, però, come credo si possa ottenere questo e qualcosa in più cercando meglio e non accontentandosi. Leggere un thriller, un giallo, un romance non significa farsi andare bene una pessima qualità perché “questo passa il convento”. Di opere che possono intrattenere e stimolare allo stesso tempo, infatti, il mondo dei libri è pieno. Siamo solo pigri. Siamo solo bulimici. Siamo solo fermamente convinti che si debbano leggere “Guerra e pace” oppure “Cinquanta sfumature”, o l’uno o l’altro, o l’opera letteraria per eccellenza o l’intrattenimento di qualità infima che solletica una voglia estemporanea.
Non è così.
Anzi, questo lo pensa chi è d’accordo con gli intellettuali di cui ho parlato in apertura, anche se lo fa senza la consapevolezza di farlo ed è schierato dalla parte bistrattata (quella dell’intrattenimento, della letteratura di genere). In questo specifico caso, schierarsi significa credere in questa contrapposizione e rinforzarla.

Un invito per chi analizza
Se chi legge ha piena libertà decisionale su quello che legge, meno libertà dovrebbero avere i critici, gli intellettuali, i giornalisti letterari. Il pregiudizio, lo snobismo e l’elitarismo non dovrebbero essere accettati come la norma. Anche questi sono un accontentarsi, infatti, un farsi andare bene l’opinione comunemente accettata senza porsi davvero delle domande, senza scavare più a fondo. Si sta facendo male il proprio mestiere, esattamente come lo scrittore che si accontenta di scrivere opere mediocri allo scopo di vendere. Denigrare la letteratura di genere per essere accettati come competenti non ci rende davvero tali. I libri sono un modo per creare connessioni fra esseri umani (come tutta l’arte), accomunandoli attraverso le storie che leggono e le emozioni che queste storie suscitano; non un modo per creare distanze e differenze o, peggio, umiliazioni.
Vorrei leggere di intellettuali in grado di sfidare l’opinione diffusa nei loro ambienti e dar vita a dubbi e dibattiti. Vorrei un mondo dove parlare di letteratura non significhi fare copia e incolla di visioni vecchie di decenni che forse è arrivato il momento di mettere alla prova.

Un invito per chi scrive
A chi scrive, invece, va la mia chiusura. Il bisogno di vendere c’è ed è innegabile, perché vivere di scrittura è il sogno di (quasi) tutte le persone che scrivono, ma non bisogna dimenticare che lo avevano anche molti dei grandi nomi del passato e che questo non gli ha impedito di svolgere bene il loro lavoro. Alcuni sono morti poveri, certo, e la qualità delle loro opere è stata riconosciuta solo dopo, altri sono riusciti a sopravvivere e ottenere la fama. La qualità, però, è il denominatore comune, il fondamento, il punto di partenza. Se ce ne disinteressiamo, stiamo facendo del male a un mondo che non ha proprio bisogno che gli vengano inferti altri colpi; un universo – quello della letteratura – che ha già tante difficoltà, senza bisogno che venga alimentato il pregiudizio su una sua buona parte.
Scriviamo di quello che più ci piace, ma facciamolo bene.

NANOWRIMO 2018

Ci risiamo, è novembre, e come ogni anno i miei amici che non hanno a che fare con la scrittura si chiedono di cosa diavolo io stia continuando a parlare sui social.
Sì, perché novembre è il mese del NaNoWriMo, il National Novel Writing Month: un evento lungo trenta giorni e aperto a tutti in cui chi scrive si pone l’obiettivo di buttare su carta cinquantamila parole (possibilmente la bozza base di un romanzo).
Questo sarà il mio terzo anno e, assieme alla sfida principale novembrina, mi sono impegnata in quasi tutti i campeggi virtuali associati. Due volte all’anno, infatti, ci si sfida di nuovo, questa volta stabilendo il proprio obiettivo personale, immaginando di ritirarsi in campeggio per dedicarsi solo e soltanto alla scrittura.

Certo, come ho già scritto negli articoli passati (qui e qui) il NaNoWriMo non è per tutti, mentre i campeggi – essendo più elastici – possono adattarsi a molte più persone (per esempio, l’obiettivo personale di un CampNaNoWriMo può essere “scrivere un’ora al giorno”).
Credo però di non aver mai parlato un po’ più nel dettaglio di come funziona, di chi – secondo me – farebbe meglio a evitarlo e di chi, invece, potrebbe trarne beneficio.
Prima di tutto, come ogni evento online con un sito, ci si iscrive dando un indirizzo email, una password e un nickname. Non è richiesta alcuna quota di partecipazione, ma si può decidere liberamente di donare per sostenere il progetto.
Fatto questo primo passo, c’è chi compila il profilo nei minimi dettagli (la sottoscritta) e chi lo lascia con le informazioni di base fornite all’iscrizione. Non è un problema, l’importante è annunciare il proprio romanzo o, per dirla con parole non rubate direttamente al sito (che è in inglese), caricare il titolo. Sì, basta il titolo, ma si può decidere di postare anche una sinossi, un estratto e una copertina, per quanto provvisoria.

Fatti questi primi passi, il sito permette di aggiornare il conteggio delle parole ogni volta che si vuole, che siano le parole totali dell’intero progetto o le parole della singola sessione di scrittura. La quota si riflette su un “simpatico” grafico e su una serie di statistiche che permettono di tenere d’occhio i progressi. Non mancano poi, nella posta del proprio profilo sul sito, i messaggi motivazionali di scrittori più o meno celebri e partecipanti al NaNoWriMo che “ce l’hanno fatta”.

 

Per chi è utile il NaNoWriMo, quindi?
Per chi vuole provare qualcosa di nuovo, prima di tutto, dopo un periodo in cui la scrittura è diventata un po’ stagnante; per gli underwriters (quelli che scrivono quantitativamente poco, al contrario degli overwriters) in cerca di una spintarella per buttare le parole sulla carta – ok, sullo schermo; per chi vuole costruirsi una routine e non sa da dove partire; per chi ha un’idea da tempo, ma trova una scusa o un’altra per non sedersi al computer e concretizzarla in un romanzo.
Sconsigliato, invece, per chi prova ansia ponendosi un obiettivo difficile da raggiungere, per gli overwriters che cinquantamila parole le raggiungono fin troppo facilmente, per chi ha già una routine consolidata che non è il caso di stravolgere (magari sincronizzata con un lavoro che tiene troppo occupati per scrivere quote giornaliere e consente solo lunghe sessioni nel week end).
In entrambi i casi, si tratta della mia visione dell’evento. Non è detto che un overwriter non possa partecipare e trarre beneficio dal NaNoWriMo, né che chi è ansioso non debba provare almeno una volta, e così via.
Ha i suoi lati positivi, quindi, ma non è un rito di passaggio obbligato che si adatta a tutti. Né è il caso di denigrarlo se non fa al caso nostro, come mi è capitato di sentire in giro per il web (“se si vuole fare gli scrittori si scrive tutto l’anno, mica solo a novembre”; certo, ma scrivere il resto dell’anno non esclude di poterlo fare a novembre con altre persone all’interno di un evento, no?). Dipende dalla situazione, dal tipo di scrittore, dal tipo di progetto, com’è ovvio che sia. Io ci ho scovato alcune delle persone con cui mi ritrovo più spesso a scrivere e scambiarmi opinioni sulla scrittura, quindi non posso che apprezzarlo. Inoltre sono una dannatissima underwriter e mi servono tutte le spinte possibili per sputare fuori le parole.

Questo novembre tornerò alle origini e proverò a finire il progetto dal nome in codice “Numero Zero” (che prima o poi dovrà essere battezzato, lo so). Ne ho parlato qui e qui, per rendere l’idea di quanto sia cambiata l’idea nel tempo, ma ho anche creato una playlist (triste, anzi tristissima) che mi tiene compagnia mentre scrivo e una bacheca pinterest per motivarmi e ispirarmi con qualche immagine. Due attività che consiglio, nelle pause dalla scrittura, a chi partecipa al NaNoWriMo (o a chi scrive in generale e cerca di restare motivato e ispirato, appunto).
Novembre è un mese pieno, ma quest’anno ancora di più perché, se tutto va bene, a fine NaNoWriMo sarò nella nuova casa!

ESSERE EMERGENTI SUL WEB: come NON comportarsi fra netiquette e promozione

Gli autori emergenti sono maleducati
Questa frase circola ovunque, nell’ambiente della scrittura underground (sì, l’ho ribattezzata come la musica) e, da esponente del gruppo preso d’assalto, vorrei poter dichiarare a gran voce quanto sia falsa.
Il problema è che, proprio da esponente di tale gruppo, non mi sento di difenderci a spada – o penna – tratta. Certo, è una generalizzazione, è un estremismo e io non sono né per gli uni, né per gli altri, ma è innegabile che sul web circolino soggetti in grado di far guadagnare una pessima reputazione all’intera categoria. L’animale-emergente assume diverse forme, spesso è educato, gentile, disponibile, altre volte è un po’ narcisista e si rapporta al prossimo con la delicatezza di un rullo asfaltatore.
A chiunque legga faccio un personale appello: le considerazioni che seguono non nascono dal desiderio di sangue, dalla voglia di scatenare flame e guerre di categoria fra autori e blogger, o autori e editori, o autori e altri autori. Sono, come vorrei fossero tutti gli articoli di questa rubrica, delle riflessioni più estese e approfondite su temi che mi appassionano. Per renderli accessibili a chiunque voglia dar loro un’occhiata, inoltre, tendo a spiegare anche questioni che per gli addetti ai lavori non hanno bisogno di essere spiegate.

L’animale-emergente
Chi è un “emergente” e perché le virgolette? Si tratta di autore che si avvia a una certa notorietà, almeno secondo le definizioni ufficiali. Non è ancora lì, ma è sulla strada che ce lo porterà, se sarà abbastanza – per non dire straordinariamente – fortunato e abile.
In realtà questa spiegazione fa storcere un po’ il naso. Prima di tutto, perché si concentra sulla fama, mentre esistono autori che da anni scrivono e vengono pubblicati da case editrici medio-piccole e che di certo farebbe ridere considerare ancora emergenti, pur senza una notorietà da prime pagine di Robinson. In secondo luogo, perché il termine sta iniziando a imprigionare una realtà varia e multiforme – come spesso accade con le etichette quando portate alle estreme conseguenze – che si ramifica nel self oltre che nell’editoria tradizionale e che spesso ha successo in modi alternativi. Infine, in certi ambiti sta assumendo un’accezione quasi negativa, distante perfino dalla definizione ufficiale: emergente come ingenuo, incapace, mr. nessuno, l’ennesima meteora.
Io mi considero un’autrice emergente senza troppi problemi, perché tendo a considerare l’emergente come qualcuno che sta muovendo i primi passi nelle pubblicazioni, che si sta facendo le ossa, che sta imparando come funziona il mondo della scrittura a un gradino più alto della sola passione. E poi perché, se sto emergendo, da qualche parte dovrò pur spuntare, come i funghi. Insomma, mi cullo nell’implicita speranza di questa definizione.

“Ti piacerà sicuramente”
Succede che scrivere è un’arte, in linea di massima. Oppure, se vogliamo – e a volte dobbiamo – essere più modesti, è una forma di intrattenimento. Come arte o intrattenimento, la scrittura prevede quindi una fruizione, ossia che qualcuno la prenda e ne goda. Per farla semplice: si scrive per essere letti, per quanto sia importante scrivere qualcosa che ci appassioni in prima persona. E qui credo risieda l’origine del primo comportamento dannoso con cui mi è capitato di scontrarmi in questi anni di attività fra gli autori del web: il caso del “ti piacerà sicuramente”.
È capitato a me, che non sono blogger o booktuber nel senso stretto dei termini, non immagino quante volte possa essere capitato a chi aderisce perfettamente a queste due categorie. Inizia sempre con un messaggio privato di qualche tipo, magari perfino copia-incollato un miliardo di volte, e finisce sempre nello stesso modo: “questo è il link per comprare il mio libro, leggilo, ti piacerà sicuramente”. A volte la frase cambia, ma la sostanza è la stessa.
Chiariamoci, magari mi piacerà davvero, magari è il mio genere nello stile che adoro, ma questa non è sicurezza in sé, questo è puro ego e non piace a nessuno. O ci si conosce da anni, oppure non si può sapere cosa piacerà all’interlocutore. Di certo non si può saperlo sicuramente.
Il problema è che neanche interessa, perché il meccanismo è “l’ho scritto io, a me piace, piacerà anche a te”, unito a quel “ho bisogno di lettori” che ci riporta all’idea che la scrittura, in quanto espressione, voglia un suo pubblico.
Avere passione per quello che si scrive è importante, fondamentale, ma non deve farci perdere il contatto con la realtà, né l’accortezza nel considerare i gusti e gli spazi degli altri. Né questo è il modo corretto per attirare i lettori, che invece alzeranno gli occhi al cielo e ignoreranno il nostro invito alla lettura – se di invito si può parlare quando si usano gli imperativi.

Lo spam, il volantinaggio della rete
Quella di cui ho appena scritto è una forma di spam, una pubblicità non richiesta e invasiva, ma non ne è la forma più disprezzata. Infatti l’autore del “ti piacerà sicuramente” tende a fare questo discorso a chi può recensirlo o a persone che ha incrociato nel mondo dei gruppi e delle pagine Facebook apposite. Insomma, un aggancio con il mondo dei libri c’è e lui lo sfrutta nel modo sbagliato.
Una forma di promozione sgarbata più subdola è la risposta “c’è il mio libro” ai post che chiedono consigli di lettura: se non è spam nel senso stretto del termine, è quantomeno di cattivo gusto. Siamo tutti tentati di dare questa risposta, perché quello è un potenziale lettore, ma rischia di far storcere un po’ il naso e suonare bisognoso. Anticipo per un istante un discorso che farò più avanti: in questi casi, approfittiamone per consigliare il libro di un emergente che ci piace e con cui, magari, abbiamo creato un legame professionale (o d’amicizia, perché no), magari spendendo due paroline sulla trama invece di limitarci a copiare il link. Ovviamente, diverso è il caso in cui la richiesta di consigli di lettura riguardi i libri scritti dagli utenti del gruppo o della pagina, perché in quel caso è lecito rispondere promuovendosi.
Un discorso a parte lo meritano proprio i gruppi, in cui spesso compaiono figuri in grado di infrangere manciate di regole tutte in un colpo solo. La condivisione di link d’acquisto si può fare solo il mercoledì, riguardo a specifici argomenti? Ed eccolo di lunedì a fare pubblicità al suo libro, senza neanche curarsi del tema previsto. Così non si guadagnano lettori e l’unico risultato sarà di essere cacciati dai gruppi, che sono invece uno strumento fondamentale per la promozione sana dei nostri libri. Supponendo che chi scrive sia in grado di leggere, direi che sorbirsi mezza paginetta di regolamento è meglio che privarsi di un canale che non solo ci permette di farci conoscere, ma anche di creare le connessioni di cui discuterò più avanti.
La promozione aggressiva peggiore, però, è il tag di massa, fatto con tutti, indistintamente. “Esce il mio libro”, con una bella immaginona della copertina e il numero massimo di persone che è possibile citare in una foto contro la loro volontà. Sembra una leggenda metropolitana, ma è capitato, spesso da parte di persone che si sono approcciate tardi ai social e che, quindi, hanno poca confidenza con l’etichetta del web.

Complotti e drammi emotivi
Esistono poi autori che vivono per essere al centro di complicati meccanismi che finiscono per soffocare l’opera e porre l’attenzione solo sulla persona. Litigi, frecciatine, fraintendimenti, veri e propri complotti ai loro danni… funziona, è innegabile, perché l’essere umano sul web è attirato dai flame e dagli scontri più di quanto non lo sia nella vita di tutti i giorni, ma bisogna essere davvero abili per uscirne con la reputazione professionale intatta. Se alcuni lettori verranno attirati, altri si stancheranno presto del teatrino e si allontaneranno, e il rischio che i secondi siano più dei primi è reale.
Allo stesso modo, non colgo i risvolti positivi in tutti quei meccanismi volti a suscitare compassione, sperando che questo comporti letture e vendite da parte dei passanti. “Non mi legge nessuno” è capitato anche a me di dirlo, come capita a tutti di sfogarsi nei momenti di sconforto, né dev’essere sempre e comunque vietato. Bisogna però cercare di mediare, di razionalizzare, di capire quando si sta usando il pietismo come arma promozionale e quando è puro e semplice sfogo emotivo. Il lettore si renderà presto conto della frequenza con cui ci si lamenta, con cui si additano come colpevoli quelli che non comprano e non leggono, e potrebbe lasciarci ad annegare nel nostro bisogno di attenzioni per rivolgersi a chi adotta metodi promozionali più professionali.
Peggio, forse, sono solo quelli che hanno sempre qualcosa da ridire sui colleghi, che criticano e correggono dall’alto delle loro competenze. Certo, un lettore ha sempre il diritto di criticare ed esprimersi, ma per uno scrittore la realtà è più complessa. In questo caso, ci viene difficile comprendere che tanto più ci poniamo su un piedistallo, tanto più dovremo dimostrare di meritarlo. Non verremo letti dai nostri colleghi con un occhio chiuso, perché in fondo “è la prima opera”, “siamo tutti emergenti”, “qualche refuso scappa”, ma verremo letti per come ci siamo posti: pretendiamo perfezione dagli altri, dobbiamo dimostrare che le nostre opere sono all’altezza. Talk the talk, walk the walk, come dicono oltreoceano.

Creare connessioni e raccontare storie
Come promuoversi, allora, se tutto è vietato?
I social sono un’arma affilata che, maneggiata bene, colpisce dritta il bersaglio. Tutto sta nel non darsela sui piedi e amputarsi gli alluci, ecco.
Conoscere altri emergenti, conoscere i potenziali lettori, è il punto di partenza e per farlo il segreto è esserci. Partecipare ai gruppi, quindi, sempre leggendo il regolamento e senza limitarsi al mero spam nei giorni prestabiliti; avere una presenza diffusa e costante, almeno su Facebook e Instagram (per i più svergognati, come la sottoscritta, vale anche YouTube); se si ha tempo per coltivarli, può andare bene anche crearsi una pagina (con il nostro nome, non il titolo dell’opera) o un blog.
Cosa fare di tutti questi mezzi sta alle nostre inclinazioni personali. Io sono per l’essere se stessi, con moderazione. I lettori, idealmente, non sono amici che vi perdoneranno l’essere sopra le righe a ogni costo, per esempio, anche quando è un tratto della vostra personalità. Non fingere, quindi, ma sapersi mettere in luce nel modo giusto. L’ideale, quando si parla di social, è condividere storie, far trasparire emozioni, connettersi all’altro toccandolo in punti che lo fanno sentire compreso.
Il passo dopo a “esserci” è “esserci per gli altri”: iniziamo a leggere i colleghi, magari condividendo quelli che ci colpiscono e spiegando perché ci piacciono, consigliando, chiacchierando, discutendo. I social sono connessione, nascono per creare comunità, e sarebbe bene approfittarne per crescere come autori e come persone, fra la condivisione di un gattino e l’altra (gattini che sono un diritto sacrosanto e inalienabile di tutti).
Visto il bagaglio culturale italiano, sorgerà spontanea in noi la domanda “cosa ce ne viene?” e la risposta è che – se quello che scriviamo è valido e curato in modo adeguato – gli altri potrebbero fare lo stesso con noi.

Ipocrisie, buonismi, opportunismi
Come per tutto, anche le opinioni che ho appena esposto hanno le loro estreme conseguenze. C’è chi dice che questa sia ipocrisia, che condividere gli altri sia solo un modo per ricevere in cambio qualcosa. Non credo sia così.
Personalmente non penso sia il caso, né sia salutare, promuovere tutti quelli con cui entriamo in contatto, senza curarci della qualità e del nostro personale apprezzamento per chi stiamo condividendo. Leggo una quantità indecente di emergenti, come dico spesso, ma in passato ho parlato solo di una manciata di loro. Sono quelli che mi sono piaciuti tanto da consigliarli e con alcuni ho poi creato, per stima e curiosità, anche rapporti personali per cui mi sento tutt’ora una persona molto fortunata.
Attaccati sono anche i blogger che non vogliono fare recensioni negative quando si trovano davanti prodotti di emergenti che le meriterebbero. Ipocrisia, per me, sarebbe parlarne positivamente, in modo che il blog non abbia problemi e continui ad avere pubblico anche grazie all’autore che condividerà volentieri l’articolo. Più corretto, invece – sempre se non si è a proprio agio con l’idea di fare una stroncatura –, decidere di evitare di pubblicarla, magari contattando l’autore per esporgli il parere in modo che ci sia comunque confronto e crescita, senza la pubblica ghigliottina che potrebbe annientare qualsiasi possibilità futura di chi magari è stato ingenuo e inesperto (“emergente” nella nuova e opinabile accezione negativa del termine). Certo, se ci si mette in gioco bisogna saper giocare e ogni blog ha la sua linea d’azione; da autori, è nostro compito imparare almeno a comprendere le critiche, per poi decidere se accettarle per crescere o ignorarle perché inutili. Anche in questo caso, è necessario prendere le distanze, razionalizzare, analizzare.

Conclusione
Non esiste una regola perfetta per stare sul web da emergenti, come non esiste una regola perfetta per stare al mondo nel modo giusto. Ci sono direzioni, però, che si possono seguire per dare e ottenere il meglio, restando fedeli a se stessi e promuovendosi allo stesso tempo. È un gioco da equilibristi che a volte può sembrare complesso, ma che è tutta questione di allenamento. Un passo alla volta, un errore e una correzione, e si può prendere la via giusta, magari emergendo per davvero.
E sì, tutto quello che ho scritto vale anche per me.

SULL’AUTO-EDITORIA, DOPO LIBRI IN BAIA

In un’entrata laterale sulla Baia del Silenzio, a Sestri Levante, si è tenuta la seconda edizione di Libri in Baia. Una piccola fiera che ha dato spazio soprattutto agli emergenti – singoli autori, certo, ma anche editori–, ad alcune librerie e a studi editoriali.
Se è difficile attirare pubblico nelle grandi città quando si tratta di libri, ancora più difficile è in questo contesto. Dalla parte di LiB, però, c’è stato un week end uscito direttamente dall’estate passata e un’ambientazione davvero bella, che permetteva alla gente di farci un salto direttamente dalla spiaggia per curiosare fra i libri.


La parte più vivace è stata sicuramente quella rivolta ai bambini, mentre è sempre più complicato presentare libri e tenere interventi che attirino gente, durante questi eventi. Soprattutto quando le indicazioni per raggiungere gli spazi sono fornite in modo un po’ vago dagli addetti.


Io sono andata per sentire Sara Gavioli, che seguo volentieri da tempo (qui la sua pagina Facebook, il profilo Instagram e il canale YouTube), e Gabriele Dolzadelli (qui la sua pagina Facebook e il suo profilo Instagram, nonché il gruppo Self Publishing Italia che amministra) parlare di auto-pubblicazione. La prima è una editor freelance che lavora anche con alcune case editrici, il secondo è autore – self, appunto – della saga Jolly Roger.
Sono rimasta piacevolmente soddisfatta dal modo in cui è stato affrontato il discorso, senza ignorare i difetti di un mondo “democratico” fino all’eccesso, ma ricordando anche gli aspetti positivi, che spesso vengono snobbati e sminuiti non solo dai lettori, ma dagli stessi addetti ai lavori.


Diciamolo: da autrice self, quando un emergente snobba questo mondo, storco sempre un po’ il naso e la mia stima tende a calare. “E, ma da lettore non ho voglia di star lì a cercare la qualità in mezzo alla spazzatura” è la frase che si dice più spesso, senza rendersi conto che è un discorso semplicistico, perché può essere valido anche per le piccole case editrici che pubblicano emergenti, a essere sinceri, e per qualche editore anche più celebre (viste le polemiche degli ultimi giorni). Insomma, la spazzatura la vogliamo solo con un bel marchio conosciuto sopra, altrimenti ci si indigna e non poco.
Il problema è che, quando si è autori, un occhio a come si muove l’editoria non fa male e porsi “al di sopra” di uno dei fenomeni più rivoluzionari (e ancora da capire, non lo metto in dubbio) del mercato è quantomeno ingenuo. Questa frase, poi, l’ho sentita in decine di occasioni, a volte da autori che successivamente si sono imbarcati proprio nell’auto-pubblicazione (lo sottolineo, perché a quel tempo l’ho trovato non poco ironico).
Nessuno può obbligare qualcuno a leggere o comprare libri di autori che si sono messi sul mercato senza la mediazione di una casa editrice, certo, ma rifletterci concretamente, senza i “sentito dire” che riempiono tante bocche, non credo farebbe male a chi scrive e vorrebbe farne un mestiere (o una carriera secondaria, almeno), anche se le sue scelte personali ricadono poi sull’editoria tradizionale.

Tutto questo, ovviamente, è un mio pensiero, una mia considerazione su un intervento che non si è concentrato su un singolo aspetto, ma ha esposto le dinamiche del self e i suoi meccanismi in generale, il lavoro necessario se si vuole prendere questa strada e le insidie che aspettano l’autore nel mondo complesso del auto-editoria – come sarebbe meglio parlarne per descrivere adeguatamente questa realtà.
Sì, perché con il self publishing si diventa editori di se stessi, com’è stato ripetuto più volte, e un editore ha tutti gli interessi a vendere un buon prodotto: l’editing, la grafica, la promozione sono tutti aspetti fondamentali, da fare secondo le proprie possibilità, ovviamente, ma mantenendo un certo standard di professionalità.

Consiglio di guardare il video dell’intera discussione, perché le considerazioni professionali di Sara si sono bene intrecciate all’esperienza diretta di Gabriele, dando così degli ottimi spunti di riflessione.
L’anno prossimo cercherò di ritagliarmi più tempo per vivere fino in fondo un evento che mi è sembrato interessante e che di certo merita un approfondimento, sperando di trovare altri interventi stimolanti quanto questo

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