“You’ve lost a lot of blood” Eric LaRocca

Quest’estate, in un periodo di rifiuto totale della lettura, sono riuscita però a finire un piccolo libricino in inglese di cui sarà molto, molto complicato parlare. Si tratta di “You’ve lost a lot of blood” di Eric LaRocca, pubblicato in modo indipendente nel 2022.
Un viaggio stratificato e disturbante attraverso parti all’apparenza sconnesse fra loro, che mi ha lasciata con più domande che risposte.

Trama:

Each precious thing I show you in this book is a holy relic from the night we both perished-the night when I combed you from my hair and watered the moon with your blood.


Come evidente dall’inesistente quarta di copertina, è difficile parlare con precisione di questo libro. La descrizione più accurata che posso farne è “just vibes” e comunque mancherebbe qualcosa.
Questo romanzo breve è infatti travestito da una raccolta (o viceversa) composta da diverse parti: una novella dal titolo “You’ve lost a lot of blood” firmata Martyr Black, diari e poesie dello stesso autore e, infine, da delle trascrizioni di registrazioni audio in cui Martyr Black parla con il suo ragazzo, Ambrose Thorne. I due si sono macchiati di diversi omicidi e sono scomparsi al momento della fittizia compilazione della raccolta, o almeno così ci informa l’editore – Trent Pilcher – in quelle che possono essere considerate un’altra parte del libro: la prefazione e la postfazione.

I’d like to crawl outside of my head and look back at the horrible thing I’ve become, the soulless spirit residing inside my shell.

Prima di parlare di ognuna di queste parti, vorrei fermarmi a descrivere cosa intendo con “just vibes”. Per me uno dei punti più belli di questo bizzarro libretto è infatti il modo in cui è scritto e, di conseguenza, la sua atmosfera: è poetico, decadente, barocco, è ricco di metafore e arzigogoli, si sofferma spesso su piccoli dettagli, il tutto nella sua declinazione più inquietante e sanguinolenta. In tutte le parti si fa poi un uso spietato dell’anticipazione, che ho trovato davvero ben riuscito e che è stato uno degli elementi che mi ha portata avanti nella lettura anche davanti alle parti meno efficaci del romanzo.
A volte, infatti, tutti questi stratagemmi sono fini a loro stessi, oppure il ritmo non viene controllato a dovere – questo specialmente nella parte finale della novella “you’ve lost a lot of blood”, in cui invece che urgenza, le frasi brevi iniziano a trasmettere una certa ripetitività – ma leggere questo libro è stato, in generale, un’esperienza.

It’s a terrible story. There’s no point to it other than to disturb the listener.

Questo stile è strettamente connesso a Martyr come personaggio: egocentrico, saccente, tutto apparenza e poco sostanza. Già nella prefazione viene descritto dall’editore come uno studente pigro sebbene animato da una certa curiosità e, in generale, una persona eccessiva ma mediocre. Questo si riflette in tutti i punti in cui Martyr parla direttamente (le registrazioni e i diari) e, soprattutto, diventa evidente la sua differenza con Ambrose, che invece è davvero una mente inquisitiva e che ha l’unico difetto – almeno secondo l’editore – di essere accomodante nei confronti degli altri. Com’è evidente da quello che ho scritto, nonostante io abbia trovato entrambi fedeli alla loro caratterizzazione, ho grandemente preferito Ambrose e i suoi ragionamenti a Martyr, verso cui ho provato un crescente fastidio fino alla rivelazione finale, del tutto in linea proprio con questa mia sensazione.

The best games are like viruses you can’t cure. They change us. Stay with us long after we’ve finished playing them.

Ma veniamo alle parti che compongono la raccolta-romanzo breve. Prima di tutto, non sono successive ma si alternano man mano, creando così un certo vuoto di tensione nel mezzo della raccolta (forse stemperato solo dalla novella nella novella). Questo non toglie che la parte iniziale e quella finale io le abbia trovate interessanti e inquietanti il giusto, con momenti che mi hanno proprio fatto rabbrividire o che mi hanno nauseato (in senso buono e volontario).

Il punto debole fra le varie parti sono, a mio parere, le poesie. Sarà che io di poesia capisco poco o nulla, ma non le ho trovate poi così interessanti. A tratti riescono a essere disturbanti e scomode da leggere, certo, ma nessuna mi ha davvero colpito, devo ammetterlo.

Don’t you hate who you are just a little? I’d like to meet the completely self-aware person who’s enraptured with themselves, in love with their entire being. That person doesn’t exist. And if they do, they won’t be alive for long.  

Il punto forte, invece, è la novella che dà il titolo all’intero libro. “You’ve lost a lot of blood” parla di Tamsen e del suo (inquetantissimo) fratellino Presley, in viaggio verso la sede del nuovo lavoro di Tamsen come sviluppatrice di videogiochi.
È evidente da subito che qualcosa non è come dovrebbe essere e le avvisaglie in merito si fanno sempre più disturbanti più ci addentriamo nella storia. Gli sconosciuti lungo la strada, la villa del nuovo datore di lavoro Zimpago, i suoi dipendenti, i datori di lavoro stessi, tutto è inquientante e “fuori posto”, almeno fino al colpo di scena che spiega cosa è accaduto per tutto il tempo. Colpo di scena intuibile da subito, sia chiaro, ma a me prevedere dove finirà una storia non mi ha mai impedito di godermela.

Ci sono parti davvero, atmosferiche, in questa storia, insieme a parti che ho trovato terrificanti e che mi hanno fatto evitare il romanzo di sera e parti più umane in cui si esplora un poco il tema della perdita, della colpa e delle responsabilità.
Insomma questa novella poteva essere un libro a sé, secondo me, se approfondita a dovere. Tratta, in fondo, un tema che ne varrebbe la pena, oltre a quelli già citati, ossia il rapporto fra gioco e realtà. Peccato che lo spazio non sia sufficiente per esplorare il tutto a dovere o per lasciare che le vicende abbiano il giusto respiro.
Proprio per i suoi temi, però, vediamo come questa novella in qualche modo si collega alle vicende di chi l’ha firmata: Martyr Black.

He said it was about – changing. His games are the opposite of entertainment. They’re about what the user can do for the game. Not the other way around.

Veniamo quindi ai dialoghi registrati, con sovra-registrazioni da parte di Martyr in cui emergono i suoi pensieri più oscuri e morbosi. Qui vengono esposti i temi principali del romanzo: creatività e creazione, originalità e plagio, conditi da aneddoti macabri, il tutto in modi a volte vincenti altre volte un po’ scontati. Questi passaggi sono di certo rilevanti per capire cosa accomuna questa raccolta di scritti vari, ma in alcuni punti mi hanno lasciato l’impressione più di un autorə che volesse filosofeggiare sullo scrivere, che non di personaggi che stessero davvero dialogando fra loro.

I diari sono invece la parte più horror della raccolta, con descrizioni degli omicidi di Martyr o, meglio, dei suoi pensieri in merito agli omicidi. C’è body horror, c’è fastidio, ci sono molti temi a cui bisogna fare attenzione se si hanno dei trigger di qualsiasi tipo. Sono anche le parti stilisticamente più decadenti, proprio per la connessione fra la forma e la caratterizzazione di Martyr Black.

Someone could easily be sitting there – watching you – and you’d never know. That’s more frightening than seeing them there. The possibility of them being there – knowing that they can see you, but you can’t see them.

“You’ve lost a lot of blood” è stata una lettura che a tratti mi ha davvero intrigata e a tratti mi ha lasciata perplessa. Non sono sicura che sia un esperimento del tutto riuscito, ma di certo mi ha lasciato la curiosità di leggere altro di LaRocca. Apprezzo sempre le stranezze, le sperimentazioni e un po’ di sano e poetico gore, sono proprio le letture che preferisco (come evidente da quanto mi sia piaciuto “Fornace” di Llewellyn), però mi piace che esplorino i loro temi per bene, senza il bisogno però di esplicitarli, mentre qui forse questo mi è un po’ mancato. Mi sono chiesta in più momenti quale fosse il punto… e poi se un punto dovesse davvero esserci.

The wind murmurs all around Tamsen, carrying with it the sound of distant voices.

Insomma, un romanzo (credo) che consiglio a chi vuole leggere qualcosa di strano, macabro e iper-poetico, o a chi interessa un raccontino sui videogiochi fra l’horror e lo si-fi, o ancora a chi è incuriosito dalle elucubrazioni mentali di due assassini.
E a chi non ha paura di sentirsi un po’ confusə, un po’ disturbatə e un po’ affascinatə.

“Nel freddo e nella notte” di Silvia Torani

 “Nel freddo e nella notte” è un thriller soprannaturale con un’atmosfera da brivido (letteralmente, vista l’ambientazione nordica), personaggi incredibili ed elementi queer. Il romanzo è una pubblicazione indipendente uscita proprio questo ottobre 2022 che si può trovare su Amazon in cartaceo e per kindle e in ebook sui maggiori store online.

Trama:

Ci sono storie che non vogliono essere dimenticate.

La dodicenne Sidny Bjerke scompare nella notte polare e una creatura misteriosa si aggira affamata ai confini della valle. L’inverno a Longyearbyen, paese di duemila anime affacciato sull’Artico, è un lungo buio che dura quattro mesi. Se si vuole ritrovare Sidny ancora viva, bisogna agire subito e sapere come muoversi in un ambiente freddo e ostile. Nessuno però si aspetta che le indagini vengano affidate proprio alla detective Artemis Hansen, l’ultima arrivata sull’isola.

Alle Svalbard Artemis cerca una nuova casa dove vivere la propria identità di donna trans senza conflitti e sensi di colpa. Per gli abitanti di Longyearbyen è un’estranea, e non sarà facile ottenere la loro fiducia per ritrovare la bambina scomparsa. Il detective Martin Radlov si offrirà di aiutarla, ma un mistero vecchio di trent’anni lo perseguita: un’altra bambina scomparsa nel nulla il cui fantasma continua a tormentarlo.


Ho avuto la fortuna sfacciata di poter leggere questo romanzo in anteprima e devo confessare che l’ho divorato. Lo stile asciutto e diretto con cui la storia viene raccontata si sposa alla perfezione con i fatti crudi e il ritmo serrato degli eventi, ma non trascura una certa meraviglia sia davanti all’estremamente bello – come l’aurora boreale – sia davanti all’estremamente brutto – come i momenti orribili e cupi che accompagnano l’indagine della protagonista, Artemis.
E proprio attraverso gli occhi di Artemis scopriamo cosa vuol dire cambiare vita per trasferirsi in un luogo remoto e difficile come Longyearbyen, cosa significa essere la nuova arrivata e trovarsi per le mani un mistero complesso e delicato, cosa significa – anche – essere una donna trans e dover affrontare ulteriori sfide oltre quelle che la scomparsa di una bambina già comporta.

«Avevo bisogno di ritagliarmi degli spazi che fossero solo miei, di trovare un nuovo equilibrio. Sono fortunata, la maggior parte delle persone non può permettersi di farlo.»

Ma questa storia non è solo ciò che ci si aspetta, perché da buon thriller soprannaturale introduce da subito elementi inquietanti la cui spiegazione va oltre la realtà dei fatti nuda e cruda. E questo è forse l’aspetto che più ho amato nel leggere questo libro (secondo forse solo ai personaggi, di cui è incredibilmente facile innamorarsi). Ogni singolo elemento si sposa alla perfezione con gli altri, tutto si incastra al suo posto, i sospetti si moltiplicano e ogni pista potrebbe essere quella giusta. Insomma, si segue ogni scoperta di Artemis trattenendo il respiro, consapevoli che c’è molto di più dietro gli eventi a cui stiamo assistendo.
Non è facile far sì che tutto risulti credibile in un genere come questo, ma qui ogni singola scelta dei personaggi ha le sue ragioni d’essere, dal motivo per cui l’indagine viene affidata proprio ad Artemis a tutte le strade che verranno prese nel corso della storia; così come gli elementi soprannaturali sono legati ai luoghi, alle leggende e agli stessi eventi che compongono la storia, e non risultano mai fuori posto.

[…] ogni volta che di notte accadeva qualcosa di strano, ogni volta che si rompeva una finestra o un traliccio crollava, mia nonna diceva: “È la polarjenta che si vendica”.»

Ma, come ho detto, la parte che ho preferito sono proprio i personaggi. Io amo leggere storie in cui le interiorità vengono trasmesse dai piccoli dettagli, e il romanzo è pervaso da queste accortezze. Così i personaggi escono vividi dalle pagine per come parlano, per come si muovono, per come ragionano e per tante altre ben più piccole caratteristiche. E il loro passato recente e lontano li ha formati – un aspetto ricorrente nel corso della storia –, rendendoli le persone che ci troviamo a conoscere, sia in modi evidenti che fra le righe. Artemis prima fra tutti, ovviamente, ma anche personaggi come Maya, Martin, la governatrice Svestad…
Le interazioni, poi, non fanno altro che dare risalto a queste caratterizzazioni, di qualsiasi tipo esse siano. In più punti mi sono ritrovata a fare il tifo per una dinamica o un’altra, a maledire gente nella mia mente o a pensare “oh no, non tu!”.

«E tu? Hai mai pensato di lasciare le Svalbard?»
«Non potrei mai. Prima o poi sarò costretto ad andarmene, ovviamente, ma fino ad allora…»
«Perché?»
«Non c’è nessun altro posto al mondo come questo, non mi sentirei a casa da nessun’altra parte.»

Un’altra grande protagonista di questa storia, però, è l’ambientazione. Le descrizioni dei luoghi mi hanno fatto respirare l’aria gelida, mi hanno fatto alzare la testa verso il cielo illuminato dall’aurora boreale, mi hanno fatto sentire il buio perpetuo della notte polare, mi hanno fatto rabbrividire e meravigliare. Non solo, l’ambientazione è legata a doppio filo a ogni singolo aspetto della storia, da quelli più banali (non sono trascurati, per esempio, tutti i rituali che riguardano il vestirsi per un ambiente così ostile) a quelli più sottili che meritano di essere scoperti senza anticipazioni.
Quando un’ambientazione non fa solo da scenografia ma è parte integrante e vivida della storia, quando i luoghi si riflettono nelle caratterizzazioni dei personaggi e influenzano gli eventi in modo evidente, io mi dimentico di stare leggendo e inizio a vivere quello che viene raccontato.

Ora che la stanza è buia, lo spiraglio di cielo oltre le tende illumina i mobili con la luce flebile di un fantasma. Scosto la tenda. La bufera è passata. Nastri di luce verde e rosa danzano nel cielo sopra distese di ghiaccio e montagne come riflessi arcobaleno su un mare di petrolio.

Infine, voglio spendere due parole per i temi del romanzo. Ovviamente già dalla trama è possibile intuire che non ci si trova davanti a una storia facile. A tratti si è trattato proprio di un pugno nello stomaco e in più scene la storia va in posti emotivamente difficili. Tutto questo per me è un grosso punto a favore di “Nel freddo e nella notte”, perché quando leggo un romanzo di questo tipo voglio provare emozioni, e questa storia me ne ha fatte provare molte. Mi sono commossa, ho sorriso, ho provato tenerezza, paura, rabbia…
Non si può chiedere di meglio quando si apre un libro.
Come sempre, però, attenzione a eventuali temi che potrebbero turbare come la transfobia, la violenza e tutto ciò che può riguardare la scomparsa di una bambina.
Mi sento di sottolineare che nessuno dei temi del romanzo, neanche fra quelli più forti e difficili, è mai introdotto per puro dramma. Come ogni aspetto di questa storia, anche quelli più crudeli sono ben integrati e trattati con il giusto tatto. Non viene tolto nulla a quanto siano difficili, ma non vengono amplificati prendendosi spazi che li renderebbero un meccanismo narrativo.
Sono reali, e con questo senso di realtà arrivano dritti dritti a noi che leggiamo.

Ho sempre amato il buio.
Sono le dieci del mattino e il cielo è nero. Mi piacerà vivere a Longyearbyen, per lo meno d’inverno.

Consiglio “Nel freddo e nella notte” a chiunque voglia un thriller soprannaturale in grado di toccare punti sensibili del suo animo senza rinunciare a un ritmo serrato e a un mistero complesso, a chi apprezza che i suoi libri trattino anche tematiche queer, a chi vuole innamorarsi di personaggi estremamente reali e a chi vuole visitare le isole Svalbard e sorprendersi di fronte alle meraviglie della natura… e alle oscurità dell’animo umano.

“Spellbound” di Allie Therin

“Spellbound” è il primo libro della serie “Magic in Manhattan” di Allie Therin, pubblicato per Carina Press nel 2019. Io l’ho ascoltato su Storytel (nella sua versione originale in inglese) all’inizio di quest’anno e, dovessi scegliere solo tre parole per descriverlo, userei le stesse che si trovano in copertina love, magic and prohibition.
Ma le mie osservazioni sui libri raramente si fermano a tre parole, quindi…

Trama:

Arthur Kenzie’s life’s work is protecting the world from the supernatural relics that could destroy it. When an amulet with the power to control the tides is shipped to New York, he must intercept it before it can be used to devastating effects. This time, in order to succeed, he needs a powerful psychometric…and the only one available has sworn off his abilities altogether.
Rory Brodigan’s gift comes with great risk. To protect himself, he’s become a recluse, redirecting his magic to find counterfeit antiques. But with the city’s fate hanging in the balance, he can’t force himself to say no.
Being with Arthur is dangerous, but Rory’s ever-growing attraction to him begins to make him brave. And as Arthur coaxes him out of seclusion, a magical and emotional bond begins to form. One that proves impossible to break—even when Arthur sacrifices himself to keep Rory safe and Rory must risk everything to save him.


Partiamo dalla prima delle tre parole che descrivono questo libro: love.
Sì, perché in primo piano c’è una storia d’amore, quella fra Arthur “Ace” Kenzie e Rory Brodigan. Due personaggi che non potrebbero essere più diversi – sia per il mondo da cui provengono che per la prospettiva che hanno – e i cui punti di vista seguiamo per tutta la storia.
Il primo ha i mezzi e il prestigio sociale per portare avanti la sua attività segreta: guidare un gruppo di “paranormali” (persone con una dote magica specifica) alla ricerca di reliquie intrise di magia che minacciano il mondo. Il secondo tenta di avere una vita normale nonostante abbia la dote della psicometria, ossia la capacità di toccare gli oggetti e rivivere eventi passati che li hanno coinvolti.

Arthur è il tipo di personaggio che spesso finisce per piacermi. Un protettore, la cui inclinazione a prendersi cura degli altri è dettata dalle sue esperienze passate e che nasconde tutte le sue fragilità dietro a una maschera di sicurezza in sé e controllo della situazione. Quelli come Rory, invece, di solito mi piacciono molto meno: immaturo, capriccioso e un po’ incosciente nel suo desiderio di autonomia. Anche in questo caso, però, ho apprezzato le motivazioni dietro questa caratterizzazione – la giovane età e la diffidenza dovuta al suo potere – e alcune sfaccettature del suo passato – il rapporto con la religione, per esempio, che è uno dei temi di cui mi interessa sempre leggere.
La solitudine che i due sentono è il primo punto di contatto e la loro relazione si snoda in modo realistico durante la storia, partendo dall’attrazione per finire in qualcosa di più profondo, il tutto condito da qualche scena intima in “fade to black” più focalizzata sulla carica emotiva del momento che non sulla descrizione delle azioni (scelta che ho apprezzato, in questo contesto).

“How did you break your specs?”
“Let’s see… how was it?” Rory tapped his lips thoughtfully. “Oh, right, none of your business.”
Arthur rolled his eyes. The cute ones were always little shits.

Veniamo alla parte paranormale di questo romanzo: magic.
La trama che riguarda la reliquia magica è molto lineare, cosa che non trovo per forza negativa in un contesto in cui il vero punto di forza sono la relazione romantica e i personaggi. Anche della magia, infatti, i risvolti che ho preferito non sono tanto quelli di trama “esterna” ma quelli interni, che pongono davanti a ostacoli e mettono alla prova convinzioni.
Rory, per esempio, corre il grosso rischio di perdere presa sulla realtà nel praticare la sua magia e il tema collaterale della salute mentale mi è piaciuto molto. Le scene di psicometria sono immersive e intense, forse fra quelle che ho preferito per il modo in cui hanno consentito di giocare con le descrizioni e con le sensazioni.

Ma Rory non è l’unico paranormale della vicenda, perché Arthur si è costruito attorno una vera e propria famiglia di persone dotate di poteri magici. Questi personaggi secondari li ho trovati ben scritti e ben inseriti nell’economia della storia, soprattutto per quanto riguarda quelli femminili – con le loro ambizioni, le loro vite, le loro proprie personalità. Di certo una menzione d’onore va alla zia acquisita di Rory, Miss Brodigan, e alla telecinetica Jade (la cui relazione romantica secondaria non mi è affatto dispiaciuta).
L’unico appunto, forse dovuto alle mie preferenze personali, è quanto tutti i secondari siano buoni, dicano la cosa giusta al momento giusto, non mostrino egoismi di alcun tipo. Non è un aspetto spinto all’estremo ed è comunque piacevole conoscerli, ma io mi affeziono sempre di più a personaggi che hanno qualche oscurità.

La minaccia finale, per tornare alla trama esterna, l’ho trovata adeguata. Come si dice: senza infamia e senza lode. Le motivazioni ci sono, soprattutto per quanto riguarda personaggi del vissuto di Arthur, e c’è anche una certa dose di struggimento quando si guardano le cose da un’altra prospettiva e si comprende l’impatto di certi eventi passati, ma non mi ha fatto arrivare lì con il fiato sospeso e il cuore a mille.

“I can hold onto you because you won’t let go?”
“You’re damn right I won’t.”

E finiamo con l’ultima delle tre parole: prohibition.
La storia, infatti, è ambientata nel 1925 a Manhattan, all’epoca quindi del proibizionismo.
Ora, io sono completamente ignorante in merito quindi non posso confermare che si tratti di un romanzo storicamente accurato, ma ho trovato l’ambientazione sullo sfondo immersiva e interessante. Non prende mai il sopravvento, ma dà colore a molte scene. Un esempio è il primo incontro fra i due protagonisti, che per gran parte si svolge nello speakeasy – un locale segreto che propone intrattenimento e vende alcolici illegalmente – di proprietà di Jade.

“You make me think I got a chance. I don’t want safe, Ace, I want you.”

Quindi, se volete leggere una storia confortante e senza troppe pretese su due persone che si innamorano, condita da magia e piani per salvare il mondo, o se amate i paranormal romance ma li volete più queer e più storici, questo libro potrebbe fare al caso vostro!

“Piranesi” di Susanna Clarke

Vista la mia passione per Borges, era impossibile che “Piranesi” di Susanna Clarke non mi affascinasse. Arrivata alla fine, infatti, ho provato la sensazione di abbandono che ci lasciano addosso i libri che amiamo. “Piranesi” è arrivato in Italia grazie a Fazi Editore proprio questo febbraio 2021 e ora racconto perché questo piccolo romanzo che rifugge i generi è diventato uno dei miei preferiti in assoluto.

Trama:
Piranesi vive nella Casa. Forse da sempre. Giorno dopo giorno ne esplora gli infiniti saloni, mentre nei suoi diari tiene traccia di tutte le meraviglie e i misteri che questo mondo labirintico custodisce. I corridoi abbandonati conducono in un vestibolo dopo l’altro, dove sono esposte migliaia di bellissime statue di marmo. Imponenti scalinate in rovina portano invece ai piani dove è troppo rischioso addentrarsi: fitte coltri di nubi nascondono allo sguardo il livello superiore, mentre delle maree imprevedibili che risalgono da chissà quali abissi sommergono i saloni inferiori.
Ogni martedì e venerdì Piranesi si incontra con l’Altro per raccontargli le sue ultime scoperte. Quest’uomo enigmatico è l’unica persona con cui parla, perché i pochi che sono stati nella Casa prima di lui sono ora soltanto scheletri che si confondono tra il marmo.
Improvvisamente appaiono dei messaggi misteriosi: qualcuno è arrivato nella Casa e sta cercando di mettersi in contatto proprio con Piranesi. Di chi si tratta? Lo studioso spera in un nuovo amico, mentre per l’Altro è solo una terribile minaccia. Piranesi legge e rilegge i suoi diari ma i ricordi non combaciano, il tempo sembra scorrere per conto proprio e l’Altro gli confonde solo le idee con le sue risposte sfuggenti. Piranesi adora la Casa, è la sua divinità protettrice e l’unica realtà di cui ha memoria. È disposto a tutto per proteggerla, ma il mondo che credeva di conoscere nasconde ancora troppi segreti e sta diventando, suo malgrado, pericoloso.
Susanna Clarke, autrice fantasy fra le più acclamate, torna in maniera trionfale con un nuovo, inebriante romanzo ambientato in un mondo da sogno intriso di bellezza e poesia.


“Piranesi” è uno di quei libri di cui è difficile parlare. Si rischia di dire troppo, si finisce per dire troppo poco. C’è chi ne parla come di un fantasy, chi preferisce identificarlo come un mistery, chi si rassegna – come me – e dice che è tutte queste cose e forse altro ancora. Di certo entrarci dentro aspettandosi qualcosa di preciso (magari per l’etichetta di un genere) è la ricetta per la delusione, né è un libro che deve piacere a tutti i costi (come ogni libro, d’altronde), nonostante ora non si parli d’altro.

Quindi partiamo dalle etichette: ogni definizione che si trova in giro è vera e descrive una parte delle vicende raccontate, ma non il Tutto. E, allo stesso tempo, sarebbero perfettamente adeguati termini quali “metafisico”, “esoterico”, “filosofico”, anche se fanno sembrare il romanzo più pretenzioso di quanto non sia in realtà. Si tratta di una storia atmosferica, ben intrecciata, che a volte ha la consistenza dei sogni e altre ancora rivela tutti i suoi incubi.

Il mondo sembra Completo e Intero e io, suo Figlio, ne sono un elemento integrante, essenziale.

Al centro di tutto questo, la Casa: un’ambientazione suggestiva e riuscitissima, che sembra l’unione infinita di architetture classiche, con vestiboli, antri e statue. Un labirinto pieno di simboli e aperto alle interpretazioni (per questo ho citato Borges!).

Piranesi la percorre, la studia e la venera, registrando tutto ciò che scopre nei suoi diari. Ed è proprio i suoi diari che il lettore legge, fra le cui righe viene raccontato delle maree e dei venti, delle nuvole e delle piogge, con uno stile asciutto che non per questo rinuncia alle suggestioni.

Scopriamo così che Piranesi non è solo: uccelli e pesci popolano le nuvole dei saloni superiori e i mari di quelli inferiori, ci sono i morti ormai ridotti a tredici scheletri, e c’è l’Altro con cui si incontra di tanto in tanto. Mentre Piranesi non sa nulla di chi è venuto prima di lui, dell’Altro ci racconta tutto quello che può: uno studioso, un amante della conoscenza, una mente razionale, l’unico amico che Piranesi abbia mai avuto.

E se all’inizio la lettura è diluita e serve a imbastire tutte queste dinamiche e a far immergere il lettore nell’atmosfera, presto la storia prende il via e il mistero diventa il fulcro centrale delle annotazioni di Piranesi: chi altro c’è nella Casa? l’Altro è convinto che sia un pericolo, ma lo è davvero? sopravviverà alle ostilità del Mondo di Piranesi o finirà come gli altri morti?

L’Altro è convinto che, nascosta da qualche parte nel Mondo, vi sia una Grande e Segreta Conoscenza che, una volta scoperta, ci garantirà un enorme potere.

La bravura della Clarke sta nel prendere le domande più che legittime del lettore e giocarci, provocando le volute emozioni. Se l’ambientazione è il punto di forza più ovvio del romanzo, infatti, la maestria con cui tutto viene mostrato al momento giusto è il motivo per cui tre quarti del libro si divorano tutte insieme, senza prendere fiato.

Non credo voglia essere un libro dalla trama orizzontale estremamente originale, ma che voglia arricchirla con altri aspetti, che io ho trovato riusciti. I temi toccati, per esempio, sono tanti e vengono tutti affrontati in modi interessanti: il desiderio di conoscenza, il tempo e la memoria, la solitudine, il modo in cui le nostre esperienze possono cambiarci drasticamente, e quindi l’identità; il tutto con rimandi alla mitologia classica e al pensiero filosofico.

Non posso né voglio parlarne oltre, perché leggerlo sapendo poco è un’esperienza bellissima che mi ha trasportata nella Casa per tutto il tempo della lettura.

La bellezza della Casa è incommensurabile; la sua Gentilezza, infinita.

Consigliato a chi ama Borges, a chi vuole restare incollato alle pagine, a chi vuole vivere le ambientazioni delle storie che legge, e a chi non ha paura di perdersi nei labirinti (più o meno metaforici) della mente umana!

EDITORI E BLOGGER: come (non) fare la corte ai recensori

In questi giorni, soprattutto su Instagram, si sta parlando molto del rapporto fra editori e blogger, fra chi i libri li pubblica e chi aiuta a spargere la voce – positiva o negativa – su quegli stessi libri.
Vorrei approfittarne per fare qualche riflessione, per capire come funziona il sistema, come potrebbe funzionare meglio e qual è il nostro ruolo di lettori comuni che fruiscono dei libri pubblicati e recensiti.

Come funziona?
Funziona che un profilo o un blog hanno determinati numeri di visualizzazioni, seguaci, interventi e, in base a quanto sono grandi, ricevono dalle case editrici delle copie gratuite di cui parlare. Se i soggetti sono influencer, i libri arriveranno dalle big o dalle medie “prestigiose”, se sono numericamente più piccoli avranno a che fare con case editrici più piccine o direttamente con gli autori (per esempio nel caso del selfpublishing), se magari hanno la reputazione di cacciatori di perle rare potrebbero ricevere i libri da case editrici che non sono conosciutissime ma hanno una buona reputazione in tal senso, se invece hanno il potere di farlo possono essere loro a richiedere determinati titoli alle case editrici, e così via.
Insomma, salvo casi specifici, il sistema funziona in base alla visibilità.
Nel sistema, però, c’è anche qualcosa che non funziona. Sì perché ricevere un libro in cambio di una recensione non significa sempre ricevere un libro in cambio di una recensione onesta. Per questo alcuni editori tendono a rendere più o meno note le loro richieste: fra non-detti, sottintesi e pretese esplicite, c’è chi manda copie solo in cambio di recensioni entusiaste. Pubblicità (positiva) che costa quasi nulla, giusto le copie del libro, ma che fa girare titoli e autori per il web, dove potranno raccogliere qualche vendita in più.
Ai bookblogger, poi, conviene avere collaborazioni con le case editrici: le case editrici condivideranno i loro articoli – con un ritorno di visibilità per il blog –, e in più loro non dovranno svenarsi per comprare tutti i libri da recensire. Anche perché si parla di ultime uscite, una spesa non indifferente, quindi. Inoltre c’è sempre un po’ di prestigio nel collaborare con una casa editrice, perché significa aver i numeri per farlo, iniziare ad avere la tanto sudata visibilità, essere tenuto in conto anche dagli addetti ai lavori.
Questo discorso non vale per tutti i blog o per tutti gli editori, com’è ovvio che sia, ma è da questa parte meno nobile del rapporto fra blog ed editori che nasce la riflessione del post.

La Libridinosa e La Corte editore
La mia riflessione parte, però, da un evento ancora più specifico, anche se è da tempo che il tema di questo rapporto – editori e bookblogger – viene discusso sui gruppi e fra chi si interessa di libri o con i libri ci lavora.
La Libridinosa pubblica – sul suo blog e, di rimando, con una foto su Instagram – la sua recensione di “A cosa servono le ragazze” di David Blixt. Il libro, pubblicato da La Corte Editore, non le è piaciuto, e la recensione non ne fa segreto, soffermandosi su tutti i motivi per cui il romanzo non funziona come tale.
Sotto la foto Instagram appare poi un commento fatto con il profilo dell’editore che le spiega il libro e che la accusa di averlo recensito negativamente per il semplice fatto di non aver ricevuto la copia gratuita su cui si erano accordati. Una caduta di stile da parte dell’editore, fra l’altro espressa pubblicamente, in cui la blogger coglie l’accusa di non essere onesta nelle sue recensioni.
Consiglio, per evitare che questo mio scarno resoconto banalizzi lo scambio, di seguire La Libridinosa e le sue storie in evidenza.

L’immagine pubblica dell’editore e l’importanza della giusta comunicazione
Arriviamo subito al punto della questione: una casa editrice non è un passatempo, ma un lavoro. Può appassionare chi lo svolge, può essere il frutto di un amore smisurato per i libri, ma resta una questione professionale. Chiunque si interfacci con il pubblico, quindi – dall’editore più piccolo in cui le stesse persone ricopriranno più ruoli, a quello più grande in cui c’è un ufficio stampa – dev’essere professionale e deve tenere in conto le possibili ripercussioni di un intervento fuori luogo. Su internet si ha sempre l’impressione che la comunicazione abbia un altro peso, che sia meno concreta, ma non è così: ha un suo codice, richiede attenzione e comporta delle conseguenze (proprio come la comunicazione fatta di persona). Soprattutto se si devono sfruttare i social per costruire la propria immagine professionale.
A questo non è stata data attenzione, ovviamente, e il ritorno negativo di pubblicità che La Corte Editore avrà da questa scivolata non è indifferente, anche se potrebbe durare poco grazie ai velocissimi tempi con cui tutto nasce e muore su internet.
Il motivo per cui si contatta un blogger – la pubblicità praticamente gratuita – in casi come questo si ritorce contro l’editore e porta alla luce quello che non funziona nel loro rapporto. A rimetterci, però, è più che altro il lettore dei blogger che preferiscono lo scambio vantaggioso con le case editrici a quello con i loro lettori.

Le recensioni: un parere personale?
Non mi ha mai convinta l’idea che una recensione sia frutto esclusivamente del parere personale di chi la sta scrivendo. Si ha sempre più l’impressione che chiunque possa scrivere una recensione, ma io ho sempre tenuto alla distinzione fra un commento, un’impressione, un parere, un consiglio (tutti diritti del lettore, anche di quello che ha un blog) e una recensione, che presuppone una – anche minima – capacità di analisi critica e di comprensione del testo. Questo non significa che solo i laureati in lettere possono permettersi una recensione, ma significa che sono necessarie certe competenze. Che poi vengano acquisite leggendo manuali o seguendo corsi di lettura consapevole, perché si ha a che fare con il mondo dei libri per motivi professionali o si ha una spiccata sensibilità letteraria, non è rilevante, per me. Non significa neanche dover essere seri e inamidati come le riviste di critica letteraria, perché un blogger può essere bravo ad approcciarsi a un testo e mantenere una vena ironica e leggera nelle sue recensioni.
Significa solo avere idea di cosa costituisca un testo e di come gli strumenti della scrittura possano essere usati bene o male.
Questa riflessione, che prescinde dal caso specifico con cui ho aperto questo post, mi serve per esporre i punti successivi.

Numeri e qualità
Gli editori dovrebbero avere fiducia nei prodotti che pubblicano e, grazie a questa fiducia, non dovrebbero temere un parere onesto da parte dei blogger.
Certo, emerge un altro problema: dal momento che tutti fanno recensioni, come potrà l’editore essere certo che quello specifico blogger colga per bene il libro e sappia argomentare le sue impressioni in modo accurato?
Gli basterebbe non guardare solo e soltanto ai numeri, ma anche alla qualità. I numeri – i follower, l’engagement e tutte le altre parole care al nostro tempo – sono un dato importante, che sicuramente aiuterà nel selezionare i blogger, ma poi si potrebbe dare un po’ di attenzione a come questi blogger lavorano, a cosa recensiscono e come analizzano i testi per motivare i loro pareri.
Avendo fiducia nel proprio prodotto e nelle capacità di chi lo riceve di leggerlo e capirlo, il problema dello “scambio di favori” non dovrebbe più sussistere. E può essere un pensiero naïve, non lo metto in dubbio, ma la spedizione sconsiderata di copie a chiunque abbia più di mille follower perché del libro “se ne parli” l’ho sempre trovata una pratica un po’ pericolosa. Perché nell’epoca di internet, basta un attimo perché tutti parlino di un libro nello stesso identico modo (non sempre positivo).

Le recensioni negative
Ci sono poi blogger che le recensioni negative non le fanno e preferiscono tacere se un libro non li colpisce. Premetto che io non faccio recensioni, né sui miei canali come youtube, dove mi limito ai consigli di libri che mi sono piaciuti (spesso di altri emergenti), né su goodreads, dove preferisco chiamare le mie considerazioni “commenti”. Quindi, a parte rare esperienze, non so cosa significhi davvero dover parlare costantemente di libri in modo motivato, curato e serrato su una propria piattaforma. Delle recensioni sono per la maggior parte una lettrice (almeno al momento di questo post).
Però sono d’accordo. Nel senso che ognuno dovrebbe essere libero di gestire il proprio blog come crede sia meglio: sì, se si pubblica un libro ci si deve aspettare anche un riscontro negativo, e un blogger può voler fare delle considerazioni anche su un libro che non è piaciuto visto che ha speso del tempo per leggerlo; di contro un blogger può anche nascere con l’intento di spargere la voce sui libri che reputa meritevoli e magari evitare di dare spazio a quelli che non rientrano nei suoi standard qualitativi , soprattutto se non si è riusciti a finire la lettura.
Quello che non credo, comunque, è che una persona con delle competenze (ripeto, anche minime) che le permettono di recensire un libro debba sentirsi in difetto nell’esprimere un parere negativo. Né credo che siano moralmente superiori i blogger che decidono di pubblicare recensioni negative dei libri. Come dicono oltreoceano “you do you”, basta fare le cose per bene, in modo onesto.

Il ruolo del lettore
Le mie letture sono in minima parte influenzate dai blog. Un po’ perché è difficile trovare un blog che parli dei libri con temi che mi piacciono, un po’ perché tendo a preferire alle recensioni i pareri di persone che so avere gusti simili ai miei, che magari seguo sui social e che, in generale, stimo per motivi personali. Persone che spesso non hanno un blog, non fanno recensioni, ma si limitano a dire “questo libro mi è piaciuto per questi motivi, questo libro non mi è piaciuto per questi altri”, soprattutto se sono addetti ai lavori (altri scrittori, editor e simili).
Questa però è una scelta – anzi, lo definirei più un istinto – personale, che niente toglie all’utilità dei blog. Un lettore approda su un blog di questo tipo, infatti, proprio per leggere le recensioni su un libro – magari perché è affezionato al taglio che ha quel blog, magari perché il libro in questione lo interessa – e, in alcuni casi, per tenerle in considerazione al momento di acquistarlo o meno. Un grande blog può muovere una buona quantità di gente, quindi, e la gente siamo noi lettori.
Se un blog decide di non pubblicare recensioni negative e magari collabora con le case editrici e si fa mandare le copie in cambio di pareri quantomeno positivi se non entusiasti, come lo sapremo noi lettori? E, anche nel caso pubblichi recensioni negative, come sapremo che non sono frutto di questioni altre rispetto alla qualità del libro?
Leggendo le recensioni.
Se una persona ha capacità critica, se sa riflettere su un testo, lo si legge. Si trovano osservazioni sul modo in cui sono trattati i personaggi, sull’ambientazione, sulla trama, sul lessico, sullo stile, sul modo in cui si adegua a un genere oppure ne sconvolge i canoni, eccetera. Sembrano considerazioni personali? Questo perché possono esserlo: un conto, per esempio, è apprezzare o meno un determinato aspetto di una storia, tutt’altro conto, invece, è sapere quando quella caratteristica sta bene in quel contesto, quando è sfruttata con attenzione, quando – nonostante possa non piacerci personalmente – è stata utilizzata con consapevolezza.
La differenza fra una recensione e un parere, per essere ripetitivi.
Se il lettore inizia a premiare i blog di buona qualità, quei blog avranno buoni numeri e per gli editori sarà facile mandare i libri senza la paura che a riceverli sia qualcuno che non è in grado di recensirli. Se l’editore avrà fiducia, poi, nei suoi prodotti, non dovrà mai e poi mai specificare – o sottintendere – che desidera un riscontro positivo.

Conclusione
Parlando dell’evento in sé, non c’è dubbio che l’editore – o chi ne ha fatto le veci – abbia preso una decisione sbagliata. La questione, infatti, si è risolta con delle scuse molto più professionali del commento e sono certa che settimana prossima ce ne dimenticheremo tutti (complici altre questioni che infiammeranno il mondo di bookstagram, booktube e simili).
Più in generale, invece, credo siano i lettori a fare la differenza. Il sistema, infatti, è fatto di ottimi blog e di ottime case editrici, ma anche di blog meno buoni (seppure con grandi numeri) e di case editrici meno abili nelle pubbliche relazioni e nel rapporto con i blog e i lettori. Forse suona retorico e un po’ vuoto, ma potremmo pensare di premiare i primi e ignorare i secondi, imparando a distinguere fra chi ha per le mani gli strumenti per recensire un libro e chi invece si limita a dire se gli sia piaciuto o meno.
Per quello esistono le stelline di goodreads, dopotutto.

ORIGINALITÀ E BANALITÀ: fra scelte e competenze

“QUESTO ROMANZO NON È ORIGINALE”
Con molta più diplomazia e capacità retorica, questa frase si può trovare ovunque, fra le recensioni di Goodreads e Amazon. La risposta automatica – spesso da parte di chi ha il cattivo gusto di difendersi dalle recensioni negative – è che non esistono storie originali.
Nell’articoletto di oggi vorrei spiegare perché non sono d’accordo né con la critica, né con la risposta. Come sempre, esporrò la mia personale opinione e l’articolo sarà una scusa per ricordare anche a me stessa alcuni di questi punti.

L’ORIGINALITÀ ESISTE
Se si cerca sul web o si leggono manuali di scrittura creativa (soprattutto se scritti oltreoceano, dove sembrano amare le liste numerate) si troveranno svariate trame di base: c’è chi ne identifica sette, chi venti, chi altre quantità arbitrarie; c’è perfino chi vede nell’archetipo del viaggio dell’eroe la forma base di tutte le storie. In fondo, ridotte all’osso, tutte le narrazioni riguardano un personaggio, un desiderio, degli ostacoli (esterni o interni).
Quindi niente è davvero originale?
Non credo. Se una storia fosse fatta di sola trama, se un’idea si esaurisse in se stessa, allora sì. Ma una storia e un’idea hanno senso solo quando sono raccontate. Anche se si dovesse arrivare a un risultato scontato riducendo un’opera intera a una sola frase, quella singola frase non varrà mai tutta la storia.
In una narrazione, infatti, ha un peso non indifferente scegliere come esporre la storia, quali vie prendere per arrivare al lettore, perfino con un’idea semplice e dall’apparenza scontata. A rendere interessante un’idea che è già circolata, poi, c’è di certo anche il chi: lo sguardo di chi racconta la storia, il suo punto di vista, la sua specifica sensibilità. Per non parlare del momento in cui viene scritta e diffusa, del perché si è deciso di raccontarla, del mezzo attraverso cui viene fruita, e tanti altri dettagli che possono – a seconda delle circostanze – rendere interessante l’idea più ovvia.
Scrivere una groundbreaking novel non è semplice e non tutti hanno la folgorazione che porta a un romanzo in grado di riscrivere i confini della letteratura (sì, strano ma vero, non tutti sono Joyce). Quello che conta davvero, quindi, non è essere originali a ogni costo, ma evitare di essere banali.

COSA RENDE UNA STORIA BANALE?
Potrebbe sembrare – e in certi contesti è così – che l’originalità e la banalità siano poli opposti.
Se è vero che una storia originale non potrà mai essere banale e viceversa, però, non è sempre vero che una storia sarà banale se non è originale. Mi spiego: l’originalità assoluta è propria di pochi, ma non per questo tutto il resto della produzione letteraria mondiale è scontata. Proprio per quello che ho scritto prima, le storie possono essere interessanti non tanto per la loro idea di base, quanto per come vengono esposte, per il punto di vista particolare che quell’autore ha sul mondo, per le tecniche usate, per il modo in cui si tratteggia la psiche del protagonista, e così via.
Un romanzo o un racconto sono scontati quando non sappiamo usare le tecniche narrative in modo adeguato, quando non riusciamo a sfruttare la costruzione dei personaggi a nostro vantaggio per interessare il lettore a seguirli durante il loro viaggio, quando tutto l’universo che una storia può essere si riduce a una pila di cliché.
Specifico: utilizzare i cliché che ci piacciono non è un peccato mortale, ma ci rende il lavoro più complicato. Per fare in modo che la nostra storia non si confonda fra altre che utilizzano la stessa identica dinamica, dobbiamo conoscere gli strumenti tecnici della scrittura e utilizzarli per fare in modo che sia interessante leggere tutto quello che gira attorno ai cliché da noi tanto amati.

IL PROCESSO CREATIVO
A volte ho letto di persone che definivano i propri lavori assolutamente originali, non influenzati da letture, visioni, altri prodotti creativi. Credo che questa percezione di se stessi e di ciò che si produce manchi di una certa consapevolezza. Sono infatti convinta che le persone creative siano spugne in grado di assorbire non solo dal mondo che le circonda, ma anche dalla fruizione di altri prodotti creativi. Non è per forza un percorso voluto (da questo, forse, deriva la mancanza di consapevolezza), ma le idee tendono a spuntare fuori rimescolando gli stimoli ricevuti.
A volte esce qualcosa di incredibilmente originale, altre volte esce qualcosa di interessante.
Altre volte ancora il risultato sarà banale. Magari perché ci è piaciuta molto un’idea e vorremmo averla scritta noi, altre volte perché pecchiamo di superbia e pensiamo che fra le nostre mani quell’idea possa avere una vita migliore, altre ancora dobbiamo allenare di più la nostra immaginazione. Insomma le ricette per il disastro sono infinite, in realtà, e non sto neanche parlando dei casi di plagio spudorati (quelli sono un discorso a parte che con il processo creativo non ha nulla a che fare).

IL PUBBLICO
Concentrarsi troppo su che pubblico vogliamo è una delle vie che potrebbe portarci alla banalità (sempre parlando per generalizzazioni), ed è più rischioso che guardarsi attorno o lasciarsi ispirare dai prodotti creativi altrui.
Questi, infatti, sono pensieri che sarebbe bene avere a prodotto finito. Non completo, ma finito. Dopo la prima bozza, quando è il momento dei primi – grandi – aggiustamenti, ci possiamo chiedere se la storia ha un suo pubblico dal momento che, nel migliore dei casi, ci toccherà renderla vendibile. Farlo prima potrebbe comportare un caso di prodotto-fotocopia, creato per essere consumato piuttosto che per sfogare la creatività: vediamo un pubblico e decidiamo di scrivere qualcosa indirizzato proprio a lui, creato su misura per quella domanda. È una scelta remunerativa, nessuno lo mette in dubbio, ma non è una scelta creativa. Solitamente quel pubblico consuma prodotti in modo quasi bulimico, andando sul sicuro nei suoi acquisti perché quella storia l’ha già letta in altre versioni e sa che gli piace. Chiuso il libro, spento il reader, se ne dimenticherà e passerà alla successiva.
Se ricorderà una storia, sarà quella che è stata creata così per istinto personale dell’autore, non quella creata così per il pubblico, per le vendite, perché il nostro nome giri fra i lettori. Non sostengo ci siano più storie proprie della prima categoria e meno storie scritte spontaneamente per lo stesso pubblico; credo solo che nelle prime si percepirà meno originalità che nelle seconde, per quanto la sostanza – sempre se ridotta all’osso – sia la stessa.

IL GENERE
Stesso discorso per il genere. “Voglio scrivere un romanzo fantasy” oppure “voglio scrivere un romance” non sono pensieri sbagliati di per sé, ma non sono necessari alla creazione. Meglio abbandonarsi al processo creativo (che sia pianificato o spontaneo) e pensare a prodotto finito – come per il pubblico – all’etichetta da appiccicarci sopra. Se partiamo con un’idea così rigida di quello che vogliamo, rischiamo di intrappolarci nelle regole dei generi, di seguirle come dogmi invece che come indicazioni, e di diventare banali per non rischiare di trasgredire e, magari, non piacere ai lettori di quel genere.
Certo, vale sempre la regola che tutto può essere reso interessante con il giusto approccio, ma ha senso imporsi limiti quando non sono necessari a scrivere una bella storia?

LE FANFICTION
Le fanfiction sono un esempio di storie interessanti anche se non originali per forza di definizione. Non vale per tutte le fanfiction, visto che molte sono i prodotti-fotocopia di cui ho scritto sopra (che è il motivo per cui certa produzione con standard qualitativi tipici della gratuità da fanfiction non dovrebbe essere pagato, a mio parere), ma quelle ben scritte sono un esercizio di creatività. Per trovare qualcuno che legga le nostre fanfiction, infatti, dobbiamo rendere interessante qualcosa di già conosciuto al lettore. Come? Incredibilmente (per chi non conosce questo universo, almeno), utilizzando gli strumenti della scrittura. La forza delle fanfiction sta nella capacità di utilizzare stile, punti di vista, analisi dei personaggi e tecniche narrative per ridare forza a qualcosa di già esistente. Non solo: i tag e gli avvertimenti non sono altro che i cliché propri della scrittura in generale (le famose trame di base), ma rielaborati e rivisti nella singola fanfiction avranno il potere di renderla interessante.

IL PREGIO DELL’ORIGINALITÀ, IL PROBLEMA DELLA BANALITÀ
Uno scritto creativo è come una torta. Che è una similitudine scontata (tanto per restare in tema), ma rende l’idea.
L’originalità è una decorazione sulla nostra torta, una glassa: un di più che può rendere il dolce delizioso e che sarà la parte preferita di molti, ma che non è strutturale.
Gli strumenti della scrittura, le tecniche narrative, sono invece la base, il pan di spagna. Difficile che da soli siano gustosi (per quanto ad alcuni piacciano), ma sono necessari, tengono tutto in piedi e danno una forma riconoscibile alla nostra torta. La banalità sta lì, quando non abbiamo un buon impasto del pan di spagna, quando le nostre difficoltà in cucina si ripercuotono sulla parte fondante della torta.
Per recensire criticamente (che poi dovrebbe essere un po’ l’unico modo di recensire, quello fatto con sguardo critico), la differenza è fondamentale. Così come è fondamentale per comprendere una recensione negativa che tira in ballo l’originalità.

CONCLUSIONE
Quando si critica un romanzo per mancanza di originalità si sta dicendo, in realtà, che è banale. L’originalità dell’idea non è propria di tutti e sarà un valore aggiunto per la storia. La banalità, invece, è un problema strutturale, di fondamenta, di incapacità nel maneggiare le tecniche. Si può essere interessanti senza essere originali, ma per curare la banalità bisogna scavare molto più a fondo, ripensare il nostro rapporto con la tecnica e con il processo creativo. Non tanto perché raccogliamo gli stimoli esterni – che trovo facciano parte della creatività – quanto perché li subiamo invece che rimescolarli e sfruttarli. Certo, scegliere di vendere, di partire da un pubblico alla ricerca di una specifica storia, da un genere entro cui incasellarsi, da percorsi fatti “al contrario”, non è sbagliato di per sé. Il rischio, però, è che qualcuno possa trovare la nostra storia banale e scriverci “questo romanzo non è originale”.

“I segreti tra di noi” di Angela Longobardi

Mentre sul canale mi limito a consigli di lettura, raccontando perché un romanzo di uno scrittore emergente potrebbe piacere tanto quanto è piaciuto a me, qui vi presento delle recensioni vere e proprie (per quanto possa renderle tali la mia esperienza di lettrice). Mi sembra solo naturale iniziare con “I segreti tra di noi”, romanzo d’esordio di Angela Longobardi, uscito il 14 luglio su  Amazon, sia per kindle che in cartaceo.
Ho avuto, infatti, la fortuna di poter leggere il romanzo in anteprima e voglio decisamente averlo fra le fila delle recensioni del mio nuovo blog.
Questa recensione contiene alcuni piccoli SPOILER (se volete un parere veloce e del tutto privo di spoiler, potete sempre guardare il video sul mio canale).


Trama: In un qualunque paesino in un punto imprecisato dell’Italia, una ragazza scompare senza lasciare tracce. Le persone in paese dicono che sia morta e durante la notte di Halloween cinque ragazzi tentano di contattarla tramite una seduta spiritica. Non si aspettano che risponda, ma invece lo fa, costringendoli ad affrontare le conseguenze del loro gesto e, nel mentre, confessare tutti i segreti tra di loro.


Come evidente dalla presentazione, il romanzo potrebbe essere definito di genere sovrannaturale. In realtà, l’autrice riesce ad annodare alla perfezione le caratteristiche del romanzo di formazione – la crescita, il cambiamento, l’accettazione di sé, l’introduzione nel mondo degli adulti – agli aspetti più misteriosi e spettrali della storia.

I giovani protagonisti sono adolescenti come molti altri, in cui è facile riconoscersi. Come la piccola Irene, che apre la storia con le sue ansie per il primo giorno di liceo, ma che presto dovrà affrontare questioni ben più difficili; Levi e Marco, amici inseparabili che rafforzano la loro unione grazie all’amore “non corrisposto” verso i loro interessi romantici; Guadalupe e la sua lotta interiore che la spinge a fuggire, nascondendosi per mesi dai suoi amici; Rebecca e lo sforzo di accettarsi, fatto in passato, e di provare a farsi accettare dagli altri nel presente. Si tratta di personaggi ben dipinti dalla scrittura immediata e scorrevole dell’autrice, con cui si entra presto in connessione, con cui si soffre e si sorride.

Allo stesso tempo, però, seguirli ci immerge in una storia speciale, che alterna ritmi intensi a scene di confronto più diluite, che intreccia presto i problemi del mondo reale all’idea delle questioni irrisolte che rischiano di restare tali per sempre, che racconta di fantasmi veri e di fantasmi dell’anima, quei segreti che non si riescono a esorcizzare perché troppo grandi e troppo importanti.
Non mancano le scene inquietanti, perfettamente filtrate attraverso le paure di Irene, che con il fantasma evocato dai ragazzi instaurerà da subito un rapporto speciale. Né vengono trascurati gli aspetti più romantici della storia, per niente scontati, tratteggiati con la delicatezza che va riservata ai primi amori, con un accento privilegiato al dialogo e al confronto fra i personaggi, che riescono così a sviscerare i loro segreti e a rendere il lettore parte di uno scambio intimo. Le note romantiche, però, non oscurano una delle tematiche più spesso bistrattate da generi come il romance e il sovrannaturale: quella dell’amicizia. Le relazioni che legano i personaggi sono prima di tutto fatte di affetto sincero, di quell’assoluta accettazione che si prova quando si è adolescenti. Né manca l’importante partecipazione della famiglia alla vita di questi ragazzi (famiglie troppo spesso invisibili fra le pagine dei romanzi diretti ai giovani adulti).

Due dei grandi temi del romanzo – e degli aspetti che lo rendono una piccola gemma nel panorama YA, a mio parere – sono quello della sessualità e del genere. Questi due pilastri non definiscono mai il personaggio, non lo esauriscono, ma vengono affrontati con il giusto approccio e non vengono trascurati dall’autrice. Le tematiche LGBT+ (o LGBTQA+ se preferite) sono intrecciate a doppio filo alla trama, perché fanno parte della crescita e, spesso, dei segreti che i personaggi nascondono gli uni dagli altri. Uno dei momenti esemplificativi di queste tematiche è il coming out di Irene, aiutata dall’intervento del fratello Levi, che avviene davanti ad una famiglia che non capisce da subito, ma che non per questo demonizza fino al punto di rottura. Un approccio realistico, che resta però positivo, verso un’esperienza carica di tensioni e di dubbi, descritta in modo molto efficace.

I colpi di scena non mancano e annientano ogni certezza che il lettore si costruisce attraverso le pagine. Non solo per i “piccoli” segreti dei protagonisti, ma anche per quanto riguarda il grande motivo per cui il fantasma entra in profonda connessione con Irene. L’identità dello spirito, che appare quasi scontata per molte pagine, finisce per essere una delle grandi rivelazioni del romanzo. Quando crolla ogni maschera, i ragazzi scoprono che non sono gli unici ad affrontare dubbi e paure, scoprono che alcune debolezze sono umane, scoprono che la loro lotta personale non è l’unica lotta. E crescono anche grazie a queste scoperte.



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