ALLENARE L’IMMAGINAZIONE: come passare da un’immagine alla trama

Ebbene sì, ritornano gli AppuntaVenti – discussioni e appunti di scrittura, il venti di ogni mese – per parlare dei meccanismi più o meno nascosti dietro alle storie che scriviamo.
In questo articolo ho provato a dissezionare il processo che solitamente mi porta da una singola immagine o scena a un’idea decisamente più approfondita per una storia.

Come ogni razionalizzazione di un processo che va per lo più a istinto (un istinto allenato da anni, certo, ma pur sempre tale), non è legge, non tratta di verità assolute e dogmi incrollabili. Né i suoi vari punti sono in ordine cronologico. Ogni persona che scrive è a sé, ha le sue specifiche esigenze e i suoi rituali. Si tratta più che altro di un’analisi del mio procedimento di brainstorming.

Lo scopo finale sarebbe, come da titolo, allenare l’immaginazione, arma principale nelle mani di chiunque voglia scrivere!

L’immagine

Quasi tutte le mie storie e quelle di moltə colleghə con cui ho la fortuna di parlare nascono da un piccolo dettaglio. A volte quest’idea è un concetto, una dinamica, un trope, ma molte altre è un’immagine. Un singolo fotogramma che ci arriva alla mente mentre stiamo andando al lavoro, pulendo casa, portando fuori il cane. O nel momento in cui chiudiamo gli occhi per dormire e abbiamo bisogno di una storia della buonanotte inventata da noi.

Tutte queste più-o-meno-tediose attività quotidiane sono perfette per sognare a occhi aperti e allenare l’immaginazione. È importante però che le idee che il nostro cervello mette insieme non restino chiuse nella nostra testa. Il consiglio è quindi quello di appuntarsi sempre l’immagine. Bastano poche parole salvate sui nostri onnipresenti telefoni o su uno degli innumerevoli quaderni che noi scribacchinə siamo solitə collezionare. Non deve avere troppo senso, non dev’essere già una trama, non ha bisogno di specifiche: si scrive quello che si vede al solo scopo di non perderlo via fra la lista della spesa e l’appuntamento dal dentista.

Ora, per me le storie partono dai personaggi. Però mi rendo conto che non tutte queste singole genesi arrivano alla mente già popolate. Quindi un ottimo primo passo potrebbe essere quello di abitarle con una coscienza. Dico così perché potrebbe essere una persona, sì, ma anche un fantasma nella piccola finestra del nostro castello gotico, un animale nel mezzo della nostra foresta, un mostro in una palude, qualsiasi cosa di senziente che possa avere una vita da personaggio.

Per la versione definitiva de “Il corpo che indosso” (dopo la sua genesi come giallo di cui non parleremo più, promesso) una delle prime immagini era quella di due adolescenti che parlavano su un balcone di notte, la luce calda che arrivava dalla posrta-finestra alle loro spalle. Tutto qui.

I dettagli

Non resta che dissezionare l’immagine, esplorandone ogni minimo dettaglio.
Per farlo basta continuare a porsi domande sull’immagine: chi sono le persone che la abitano? che emozione trasmette? come ne descriverei l’atmosfera? che colori posso vedere o che suoni posso sentire? che odori, che temperatura? che luogo è? che ragione hanno queste persone per trovarsi lì? cosa sta succedendo?

Lo so che suona molto banale, ma la natura di questo procedimento non è niente di fantascientifico: più si scava, più la nostra immaginazione se ne verrà fuori con altre idee, con collegamenti e motivazioni.
Di solito io non mi metto ad appuntare ogni singola parte di questo procedimento, perché questa fase è malleabile e fumosa, sempre soggetta ad aggiustamenti istintivi, ma le mappe mentali e le liste sono sempre uno strumento utile se sognare a occhi aperti non basta!

Per il mio libro, sapevo già che le due persone nell’immagine erano Gio ed Elia (al tempo con altri nomi), due personaggi di un’altra storia (sì, il giallo) che mi stavano tormentato per avere un romanzo tutto loro. Non erano gli adulti di quella prima versione, però, ma due adolescenti, quindi in un punto totalmente diverso delle loro vite. La luce alle loro spalle era “casa”, un luogo sicuro, ma loro erano fuori, nell’aria fresca della notte, immersi in un’atmosfera calma ma in qualche modo malinconica.
Due dettagli hanno poi fatto da base per scene future: i capelli di Elia e la sigaretta di Gio.

Le persone

Come ho scritto all’inizio, però, le mie storie nascono dai personaggi. E quindi gran parte della mia immaginazione finisce per concentrarsi su questo. Dall’immagine, infatti, si può intuire già molto di quello che finirà per caratterizzare le persone al centro delle nostre storie. Sappiamo vagamente come appaiono e chi sono perché abbiamo scavato nell’immagine, ma per dare loro spessore dobbiamo capire cosa vogliono, di cosa hanno bisogno, che ostacolo interiore dovranno affrontare, che “fatal flaw” hanno, eccetera.

Insomma, è il momento in cui gli strumenti della narratologia possono venire in nostro soccorso, sia che siano applicati istintivamente che razionalmente, in base alle nostre predisposizioni. Può essere un procedimento estremamente strutturato, con schede personaggio e simili, oppure un’esplorazione tutta interna in cui li conosceremo sempre meglio più indirizzeremo l’immaginazione a costruirli (QUI parlo più nello specifico di alcune idee per caratterizzare i personaggi).

È anche il momento di capire in che punto del loro arco si colloca la nostra immagine: sono all’inizio del loro cammino, sono nel momento più buio della loro storia, sono alla fine quando il cambiamento (salvo casi speciali) è già avvenuto?

Per “Il corpo che indosso” sono arrivata alla conclusione che quel momento sul balcone fosse un momento di transizione per entrambi i personaggi. Elia con le sue fragilità (sommate a quelle tipiche dell’adolescenza) che finalmente trova in sé un po’ di assertività, Gio con la sua paura dell’abbandono e la sua protettività verso Elia, costretto a mettere tutto da parte e ascoltarlo.
Mi sono chiesta da dove arrivassero, questi due, cosa li avesse resi chi erano, e dove potevano finire. Così sono nati tanti altri personaggi, come le loro famiglie e i loro amici. Così sono nate la nonna di Gio, Libera, e la sorella di Elia, Eleonora.

Il mondo

Per me questo è uno degli ultimi punti quando parto dalla mia immagine per arrivare a una storia, per altre persone probabilmente il primo, sta di fatto che i personaggi non aleggiano nel vuoto. La nostra immagine, come abbiamo già esplorato grazie all’analisi dei suoi dettagli, ci restituisce un’ambientazione.

Può essere fantastica o realistica, può essere un singolo luogo specifico in cui i nostri personaggi si troveranno o un intero mondo di cui stiamo vedendo uno scorcio. Ma, anche qui, continuare a esplorare l’immagine con la nostra mente può farci accumulare informazioni sull’ambientazione della nostra storia, ottimo punto di partenza sia che il nostro mondo sia enorme e necessiti di successiva costruzione e ricerca (penso al fantasy o alla fantascienza), sia che si tratti del mondo che viviamo e abitiamo tutti i giorni.

A volte, sono proprio i piccoli dettagli a rendere realistico un universo, e di dettagli da esplorare potrebbero essercene a decine nella nostra immagine di partenza. Avremo così idea di atmosfera, colori, architettura, arredamenti, flora, fauna, ecc.

“Il corpo che indosso” ha un’ambientazione molto, molto specifica. La finestra da cui esce la luce calda della mia immagine aveva qualcosa di rassicurante: “casa”, come ho detto. Mi sono chiesta di chi fosse, quanta importanza avesse per i personaggi, come fosse dentro, cosa rappresentasse, quali cambiamenti la aspettassero. È così che è nato l’Appartamento di Libera, il luogo dove si svolge l’interezza della storia di Elia e Gio, con tutta la sua simbologia emotiva.

Il conflitto e il cambiamento

Ma se i personaggi e il mondo sono punti fondamentali, le storie sono niente senza conflitti e cambiamenti.

La nostra immagine può ancora esserci utile, in questo senso: possiamo cercare il conflitto fra le persone che la popolano, o fra le persone e il loro mondo, fra elementi diversi dell’ambientazione che possiamo scorgere o grazie a dettagli in cui è possibile trovare della tensione. Possiamo, insomma, scavare sempre più a fondo, domanda dopo domanda, alla ricerca di un conflitto o di un potenziale cambiamento.
Lo scopo finale è, come sempre, riuscire ad andare da quest’idea a una storia.

C’è chi a questo punto è prontissimo a buttare giù le prime pagine (forse perfino prima) e chi ha bisogno di usare una struttura per “plottare” l’intera storia, chi scoprirà man mano gli eventi e chi è pronto ad appuntare ogni snodo fondamentale. L’importante è ricordarsi che ai nostri cervelli piace il cambiamento, che è il motivo per cui si insiste spesso sulla necessità di un’incidente scatenante che cambi la situazione di partenza della storia, di ostacoli che la rendano interessante e di punti di tensione che tengano il lettore immerso nelle vicende.

Anche qui, si tratta di capire più o meno quale metodo sia il più adatto alle nostre inclinazioni (un video che adoro è questo di Ellen Brock, perché credo abbia trovato una buona categorizzazione su cui è possibile costruire un metodo adatto a noi).

Io amo immaginare i conflitti fra personaggi. Sapevo già che la relazione fra i due della mia immagine aveva alcuni tratti della co-dipendenza, sapevo che erano cresciuti insieme, sapevo che le due personalità così diverse che stavo iniziando a esplorare erano destinate a non capirsi fino in fondo. Eppure, in qualche modo, sapevo anche che erano perfetti per stare insieme… poteva trattarsi solo della necessità di crescere, maturare, trovare un proprio equilibrio.

Per concludere…

Spero che questo articoletto possa essere lo spunto per fare un esercizio mentale a partire da un’immagine trovata su Pinterest, o venga usato per affinare una storia su cui magari siete bloccatə ripartendo dalla sua idea iniziale o che vi dia semplicemente una spintarella a pensare meglio un’idea con cui state giocando da un po’ nella vostra testa.

È stato interessante per me vivisezionare questo procedimento e vedere come a volte può funzionare la mia immaginazione.

E ora… buona scrittura!

Uno sfogo su “Seminario sui luoghi comuni” di Francesco Pacifico

Di rado mi esprimo sul contenuto di libri che non ho finito, ma in questo caso, a un centinaio di pagine o poco meno dalla fine, penso di aver bisogno di mettere da qualche parte i miei pensieri in modo da strapparli dalla mia mente come erbacce e non pensarci più. Premetto che quello che segue è un parere personalissimo e questo libro potrebbe fare al caso di altri. Io non sono in modo più assoluto il target di questo prodotto, e penso che il motivo emergerà leggendo quanto segue.

Trama:
Come si scrive un incipit? Di cos’è fatta la struttura di un romanzo? Come riuscire a dare un vero spessore a un personaggio letterario? Quali sono gli ingredienti di una scena madre che porti in visibilio il lettore senza trascinarlo nei territori della retorica? Da Gogol’ a Nabokov, da Camus a Tolstoj, da Gadda a Proust a Philip Roth, Seminario sui luoghi comuni è il più godibile ed efficace manuale di scrittura creativa che si possa immaginare perché composto proprio con «l’aiuto» dei grandi scrittori.
Con sagacia, ironia, profondità, Francesco Pacifico analizza 37 passi celebri di altrettanti giganti della letteratura attraverso i quali imparare a scrivere, ma prima ancora a entrare con più consapevolezza dentro i libri che hanno segnato il nostro immaginario. In questo modo, ad esempio, potremo prima leggere una celebre e godibilissima scena di Colazione da Tiffany, e subito dopo ci verrà chiesto di prestare attenzione a una serie di dettagli e meccanismi ai quali forse non avevamo mai fatto caso ma che costituiscono il «vero segreto» della scena in questione, il suo «dietro le quinte». Così facendo non solo familiarizzeremo come non credevamo di poter fare coi ferri del mestiere, ma proveremo un amore tutto nuovo per romanzi e racconti che ci eravamo illusi di conoscere fino in fondo.


L’esperimento è la ragione per cui ho deciso di acquistarlo: riscrivere passaggi di grandi nomi della letteratura per sviscerare su carta cosa potrebbe renderli tali. Ora, non è tanto la questione “grandi della letteratura” ad attrarmi, perché è un concetto che qui in Italia consideriamo sacro e io col sacro tendo ad avere rapporti difficili, soprattutto negli ultimi anni (smontare tutto quello che credevo sacro mi ha fatto crescere tantissimo). È più la questione di mettersi lì e riportare su carta un processo che spesso è tutto mentale, soprattutto per chi scrive, magari con la conoscenza tecnica necessaria a estrapolare e fare propri i meccanismi nascosti di un testo.

La rubrica si chiamava “Seminario sui luoghi comuni” a indicare come alla fine tutti scrivessero sempre delle stesse cose, di cose di tutti, di cose per lo più ovvie, come il denaro, la malattia, le faccende di una giornata impegnativa, i rapporti con gli altri.

Peccato che le conclusioni siano solo travestite da approfondimento. Vanno poco oltre la superficie, niente di più, tutte concentrate a sembrare brillanti più che a esserlo. E quello che si dovrebbe imparare dagli estratti riguarda più spesso i temi cari agli autori che non interessanti spunti sullo scrivere. Dimmi come quell’autore veicola i suoi temi, che armi usa per colpire proprio dove pensi volesse colpire, invece di dirmi cosa comunica, dai. Il cosa ha tanto del soggettivo, per quanto un autore si possa studiare in base ai suoi intenti e alla sua storia. Quella fra le pagine è l’interpretazione di Pacifico, con il suo retroscena culturale, la sua visione, i suoi valori, mentre la mia potrebbe essere ben diversa, così come quella di ogni singola persona che si approccia al testo. Tutte queste interpretazioni, di certo, lasciano il tempo che trovano, ma è un vizio di molti (uomini?) credere che il loro approccio sia l’Approccio, con un’universalità che fa il giro e diventa estremamente particolare, perché intere categorie di persone… just can’t relate, buddy.

Ho sperato si andasse oltre il cosa finché non ho realizzato che non sarebbe mai accaduto. E niente mi toglie dalla testa che questo approccio sia dovuto all’idea che, in fondo in fondo, la scrittura non si possa imparare ma sia un’arte mistica, che nasce in noi di suo o per volontà di un qualche dio (maschio) della parola. Nel primo capitolo quest’idea viene smentita con ironia, ma io non mi baso solo sulle intenzioni, perché le esecuzioni sono importanti.

Per concludere questa parte, a volte si intravede qualche barlume, ma non abbastanza perché questo libro valga il tempo che chiede.

Le parole sono importanti. Qualcosa ci dice che sono in rapporto troppo diretto con il nostro uso più comune e quotidiano delle cose, e quindi, anche nei più ispirati voli dell’immaginazione, il linguaggio deve avere una grammatica fondata nella realtà.

Vero motivo per cui ho interrotto la lettura, però, è la mentalità che emerge dalle scelte che vengono fatte.

Prima di tutto, donne non pervenute. C’è la Woolf, che pare venga letta senza però degnarsi di capirla (altrimenti qualche donna in più sarebbe sbucata fuori, secondo me) e basta. Una. Una sola su una quarantina.

Dalle scrittrici, dopotutto, cosa ci sarà mai da imparare? Niente, dico bene, litbros?

Eppure le donne non sono grandi assenti: sono l’oggetto (un oggetto?). Sono presenti in molti passaggi, scritte dal pugno di vari autori, in modi più o meno consoni al tempo del testo da cui i passaggi sono tratti (oggi, quindi, invecchiati non benissimo). Non che esempi virtuosi manchino in letteratura, anzi, ma qui le scelte sono ricadute su altro. Non si potevano selezionare passaggi diversi? No, meglio che agli autori venga continuamente insegnato, più o meno esplicitamente, a scrivere male le donne, e ai lettori a considerarlo normale.

Attenzione, ribadisco che non si tratta di un sessismo esplicito e ben riconoscibile quello di questo romanzo(per quanto valga fare questa distinzione), ma un sessismo nascosto appunto dietro le scelte: alla fine le autrici non ci sono e se si deve fare un esempio come il seguente, alle donne saranno attribuite doti in cucina, al resto delle persone soldi e proprietà.

Per estendere il discorso e fare un inventario di temi da romanzo, si può penare ai soldi o alla casa di proprietà dei nostri genitori; alle abilità di cuoca di nostra sorella o della nostra compagna/fidanzata/moglie; alla casa al mare di nostro cognato, da farci prestare l’estate prossima.

In più punti, poi, il disprezzo verso la letteratura di genere è evidente. Questione, questa, tutta italiana e ormai vecchissima, che puzza di intellettualoide che piange perché l’editoria va male senza rendersi conto che va male anche, in una certa parte, perché si glorifica e si pubblica in continuazione, da secoli, lo stesso libro: uomo bianco eterosessuale triste cerca se stesso e il suo ruolo nella società, storia spesso condita da uno o più interessi amorosi che riducono la donna a creatura angelica o a oggetto sessuale, di volta in volta.

Intere e vastissime categorie di romanzi, storie incredibili e autorə con capacità sbalorditive, il tutto ridotto a una distrazione solo per ignoranza.

Perciò, [Boccaccio] invece di essere il nostro vero autore nazionale, pare una sorta di scrittore di genere, una distrazione letteraria invece che la vera foce dell’immaginazione italiana, il vero esperto del nostro carattere nazionale, il tassonomo della doppia morale.

Infine, ma di non poca rilevanza, un uso nel migliore dei casi superficiale, nel peggiore ignobile, della parola. Non sottolineo quanto sia discordante in un libro del genere (e intanto lo sottolineo).

“Autistico” per descrivere qualcosa di “strano” (“vagabondaggi rigorosi, un po’ mistici, deliranti, autistici”), uno slur per parlare di un uomo gay (unico “marito” del passaggio, che quindi poteva essere benissimo definito “il marito”, invece che “il marito f****o”, ma qua bisogna essere frizzantini e irriverenti, no?).

Boh, sarò io, ma non è solo questione di offensivo – perché lo è, a discapito di quelli che piangono nel cuscino ogni notte perché “il politicamente corretto ha rovinato la mia libertà di insultare gli altri wee wee” –, ma di poco fantasioso, di poco abile, di poco attento. Fa schifo, non solo concettualmente, ma anche dal punto di vista letterario.

Siamo vecchi.

Siamo vecchi, quando parliamo di letteratura in Italia, e si sente. Gli concedo l’essere un libro che ormai ha dieci anni (quindi i contenuti ne hanno pure di più), ma invecchiare così male e così in fretta – senza contare che certe scelte facesse schifo leggerle pure dieci anni fa, anche se lo si diceva meno e a volume più basso – non è un buon segno, per un saggio che invita a imparare a scrivere (e a leggere) con i classici.

Perché scrivi? Domande e risposte sull’atto sovversivo di creare (e sopravvivere)

Questo AppuntaVenti non parte da una tesi, ma da una lettura. Durante questo novembre dedicato alla scrittura sto leggendo “In punta di penna. Riflessioni sull’arte della narrativa” curato da Blythe. Nella raccolta, alcuni autori americani si raccontano rispondendo alla domanda “Perché scrivi?”, di volta in volta in modo analitico o nostalgico, personale o tecnico.

Leggere questo libretto edito dalla Minimum Fax, la cui edizione originale risale al finire degli anni ’90, mi ha fatto riflettere sul motivo per cui le persone scrivono e poi, più a fondo, sul motivo per cui io lo faccio.

La prima risposta, la più banale e istintiva anche se non meno vera, è: perché non posso farne a meno. Quando si cerca di farlo sul serio, scrivere non è facile, e per continuare serve un’ostinazione tutta speciale. Lo stesso motivo per cui ci svegliamo, respiriamo, mangiamo. Non possiamo farne a meno e ci siamo intestarditi sull’idea di vivere. Ecco, scrivere, per me, funziona proprio così: tutt’attorno il mondo mi spinge a non farlo e io, banalmente, devo.

Questo non mi rende speciale. Non c’è del genio scapigliato in me, niente di così romantico. Ogni scrittore, da quanto ne so, funziona con questo stesso meccanismo alla base. Ecco, se c’è un aspetto interessante in questa raccolta, sono le connessioni fra autori diversissimi fra loro e il modo in cui queste connessioni hanno risuonato in me mentre leggevo. Sembra quasi esista una motivazione prima, originaria, per cui tutti noi raccontiamo storie. Oltre all’egocentrismo, ovviamente.
Scriviamo per vivere.

A questa base si aggiungono le motivazioni personali, quelle di cui non siamo del tutto consapevoli o lo siamo solo a posteriori. Per me, per esempio, scrivere esorcizza la violenza, la paura del dolore – emotivo e fisico –, il timore dell’abbandono e quello molto più umano della morte. Raccontare storie ha sempre avuto quest’effetto su di me, fin da bambina. Le mie bambole si lanciavano nel vuoto dall’armadio, venivano trovate in vicoli abbandonati dietro il letto, con gli arti contorti e i capelli spettinati; litigavano, urlavano, si amavano e si lasciavano con un abbandono degno di una soap opera.

Ed è dopo quest’istinto di sopravvivenza che arriva il lavoro manuale, la parte artigianale in cui ci si sporca le mani – o la mente – e che mi rende ogni parola un piccolo inferno su misura. Con tutti gli strumenti che ho costruito nel tempo e che continuerò a costruire, scavo e spolvero e scalfisco per arrivare a trasmettere una specifica emozione per cui esiste una specifica stringa di parole. Un tempo, quando ancora non avevo vivisezionato altri autori e iniziato a studiare per bene, era tutto più facile: potevo scrivere migliaia di parole in una serata e rileggere dopo mesi per ritrovare le stesse grezze emozioni. Ora è più complesso. Emozionare resta fondamentale, per me, ma c’è dell’altro. Mi ossessiona l’idea che il prodotto finale sia stratificato, che possa risucchiare a fondo. Che infesti il lettore mentre legge e, nei miei sogni più ambiziosi, anche dopo. Come se gli tenessi la testa e lo costringessi a guardare qualcosa di macabro e ripugnante.
“Guarda cosa siamo in grado di fare” gli dico.
Non so se ci sono ancora arrivata. Né so se sia possibile arrivare da qualche parte per davvero. So solo che voglio essere soddisfatta di quello che scrivo e le mie pretese aumentano più mi informo, leggo, conosco.

Durante la stesura, però, non penso a una moltitudine di facce chinate sulle pagine del libro che sto scrivendo. Un po’ perché pensare a un pubblico è irrealistico, vista la quantità di offerta che popola il mondo dei libri; un po’ perché tutte le mie energie sono rivolte a lavorare sodo sulla storia, e pensare al futuro di quello che sto facendo rischia di paralizzarmi. Se penso a qualcuno, è me stessa. Io sono il lettore della storia che scrivo, io la sto scoprendo, io sto conoscendo i personaggi e mi sto costringendo a guardare come si sabotano, come le loro relazioni si sfilacciano e si spezzano.
Perché scrivo?
Perché voglio leggere la storia che sto scrivendo.

Ed è stata una vera sorpresa scoprire che esistono persone, là fuori, con il mio stesso morboso interesse.

La verità è che le storie mi hanno salvata. Un’altra banalità. Se non avessi immaginato di essere altrove, di essere qualcun altro, forse sarei comunque viva ma non sarei io. Non sarei lucida e funzionale, non sarei tutta intera nonostante le ammaccature. Ho iniziato a farlo leggendo, poi non mi è più bastato. Dovevo inventare storie su misura, costruirmele addosso come un’armatura e lasciare che mi proteggessero.

Non serve ricevere chissà quali colpi dalla vita perché l’immaginazione ci salvi, però.
Serve una sensibilità. Serve essere così esposti da sentire in profondità perfino quello che ci sfiora. A volte tutto questo arriva dai traumi, senza dubbio, altre volte si è stimolati fin da piccoli o sarà un dono innato legato all’intelligenza e all’apertura mentale, alla capacità di accogliere gli altri dentro di sé, all’empatia. Però è questo “qualcosa” che permette di creare le storie che mi piacciono, quelle che leggo fino a incastrarmele dentro per riparare chi sono.
Quelle che provo a scrivere.
Ora, nel mio caso specifico, non posso giudicare la qualità delle storie che produco. Non funziona così, non ci si può guardare da dentro e da fuori allo stesso tempo. So solo quando sono soddisfatta di quello che scrivo e quando no, e questo è quanto. E sono soddisfatta quando scavo e scavo, strato dopo strato, fino a costringermi a fissare cosa si nasconde sul fondo. Fino a quando posso dirmi “guarda cosa siamo in grado di fare”.

Fino a qui, sembra quasi che io subisca quello che scrivo invece di controllarlo, ma è un gioco di ruolo. Il controllo è mio, lo spazio in cui esercito la violenza, la distruzione e la morte è uno spazio protetto, posso dire “basta” quando voglio, chiudere il file, prendermi una pausa. Un altro dei motivi per cui scrivo è che, per quanto possa fare male quando scava troppo a fondo, scrivere è sicuro. Posso perfino decidere la distanza da cui guardare, usare una persona o un tempo verbale che mettano me da una parte e tutto quello che succede dall’altra.
Scrivo perché quando scrivo sono in controllo.

La verità è che si tratta di una domanda complessa.
Perché scriviamo?
È una domanda esistenziale se la si guarda sotto una luce, oppure è un quesito pratico se si analizza da un’altra prospettiva. Le risposte sono tante quante le persone che scrivono o forse una sola. A volte la risposta dipende da chi siamo stati e da chi vogliamo essere, altre volte è legata al potere dell’immaginazione e all’atto sovversivo di creare in un mondo in cui tutto cambia ma nulla può essere davvero creato o distrutto. Un mondo, il nostro, che dà valore al materiale e al pratico, ma che è pieno di persone che hanno bisogno di creare per sopravvivere.

Io scrivo perché niente mi fa sentire come scrivere – viva, protetta, e orribilmente vicino all’oscurità umana senza il rischio di esserne travolta.

PERSONAGGI FEMMINILI FORTI: UN DIBATTITO

Introduzione: cos’è una “badass chick”
Come da titolo, oggi voglio affrontare un argomento che viene ampliamente discusso su blog e canali di lettura, soprattutto made in USA. La questione della badass chick, il personaggio femminile tanto “cazzuto” (non uso casualmente questo termine, che personalmente non gradisco) da essere uno stereotipo che mal rappresenta il mondo femminile. I personaggi di questo tipo sono forti – anzi fortissimi – sono abili – no, abilissimi – e sono duri, non hanno bisogno di niente e di nessuno, tanto meno delle emozioni. Si appropriano di caratteristiche tradizionalmente associate al mondo maschile solo perché appropriarsi di quelle associate al mondo femminile è visto come degradante (supponendo che le une e le altre caratteristiche esistano, cosa di cui sono personalmente poco convinta, come spiegherò più avanti).
Questi, insomma, i principali attributi di tali personaggi e, di conseguenza, i temi del dibattito.

Reazione estrema alla Mary Sue
La genesi del personaggio femminile stereotipicamente forte può trovarsi in reazione a un altro tipo di personaggio-stereotipo: la Mary Sue. Quindi, per capirlo davvero, forse è necessario ricordare un attimo cosa si intende quando si parla del suo predecessore.
La Mary Sue è il personaggio che ha caratteristiche tradizionalmente femminili nel senso più antiquato del termine, e possiede una serie di attributi che di queste caratteristiche fondanti sono una diretta conseguenza. È, insomma, l’evoluzione – anacronistica; no, proprio andata a male – dell’angelo celeste stilnoviano.
La Mary Sue è vergine o, quando deflorata, è convinta sostenitrice dell’accoppiamento solo in caso di grandi, strabilianti amori. Qualunque altro personaggio femminile che non adotti questa filosofia di vita è etichettato dalla stessa come una poco di buono dalla morale traballante.
La Mary Sue è bella, ma non lo sa, quindi non si trucca e non si acconcia i capelli, perché sarebbe una perdita di tempo. Soprattutto perché curarsi, nel suo mondo, ha il solo scopo di piacere agli uomini o, meglio, a uno specifico uomo di cui è follemente innamorata.
La Mary Sue non ha la capacità di reagire alle situazioni, tantomeno agli abusi a cui la sottopone la sua controparte romantica (a cui “reagire” è di per sé difficile), e la trama le succede abbastanza passivamente.
Ovviamente, tutto questo comporta dei gravi problemi non solo di tipo letterario, ma anche di tipo concettuale. Da qui nasce la basass chick, generata per rinnegare tutto quello che è sbagliato nella Mary Sue, senza però riuscire davvero a superare i suoi limiti, sia letterari che concettuali.

Su cosa si focalizza il dibattito
La discussione su questo personaggio-stereotipo, per come vi ho assistito io fino ad ora, ha alcuni punti che mi piacerebbe approfondire.
Il primo argomento spesso affrontato riguarda l’incapacità della badass chick di provare emozioni e di mostrare fragilità, tanto che la sua intera personalità si esaurisce nella sua forza fisica e mentale.
Il secondo punto riguarda invece proprio le sue capacità fisiche, spesso caratterizzate dalla forza bruta senza alcun tipo di preparazione. Una forza innata che, sempre per chi dibatte, è propria solitamente degli uomini.
Infine, ultimo punto, questi personaggi non sono femminili e, in questa mancanza di femminilità, sembrano voler dichiarare che i tratti ad essa associati siano debolezze da cancellare.
Sebbene le obiezioni mi siano apparse inizialmente sensate, vi ho poi intravisto delle estremizzazioni e delle contraddizioni interne che rendono ai miei occhi l’intero dibattito controproducente o, a tratti, proprio limitato.

Personaggi femminili ed emozioni
Il mio problema con la prima argomentazione riguarda la sua associazione specifica ai personaggi femminili.
Mi spiego meglio: se un personaggio non prova emozioni e non ha fragilità, non è un “pessimo esempio di personaggio femminile”, ma un pessimo esempio di personaggio e basta, a prescindere dal suo genere. Se si attribuisce della problematicità alla questione solo nel caso in cui riguardi personaggi femminili, allora si dà per scontato – almeno nel sotto-testo dell’argomentazione – che i sentimenti, le emozioni e le fragilità siano proprie delle donne; visione superata da tempo che, a mio parere, necessita di essere sradicata dalle nostre convinzioni.
Se ci fossero le stesse osservazioni in merito a personaggi maschili o di altro genere, potrei fingere che è solo questione di attinenza (ossia: “si sta parlando di donne in questo contesto, per questo mi riferisco al caso specifico”); visto però che nessuno si lamenta mai del piattume emozionale dei personaggi maschili tanto da creare un’etichetta che ne identifichi tale stereotipo, non riesco a vedere quest’argomentazione come valida nell’ambito di una corretta rappresentazione femminile. I personaggi vanno creati con  luci e ombre a prescindere dal loro genere, proprio come in un disegno, altrimenti non si sta facendo un buon lavoro.

Forza fisica e lotta
Seguendo sempre lo stesso ragionamento, trovo controproducente affidarsi all’idea che esistano caratteristiche innate in base al genere di riferimento (idea nata dal limitante “binarismo di genere”, che ignora la realtà e le sue sfumature con forza e convinzione), soprattutto quando si parla di una corretta rappresentazione dei personaggi femminili.
Prendiamo l’esempio della forza fisica e delle capacità nella lotta, di qualsiasi tipo essa sia. Prima di tutto, queste due caratteristiche non sono prerogativa degli uomini e, di conseguenza, non rinnegano la “femminilità”. Sono prerogativa, invece, di chi si allena e si prepara, a prescindere dal suo genere. Il problema, ancora una volta, non risiede – a mio parere – negli attributi “rubati” dal personaggio femminile, ma nella sua povera scrittura come personaggio e basta: per lottare e sviluppare forza, ogni persona deve fare un percorso in tale direzione, anche nelle opere di finzione. Oppure, se l’universo letterario lo consente, tale caratteristica innata può essere frutto di situazioni particolari – magiche, magari – che al lettore devono essere comunicate, più o meno esplicitamente.
Ancora una volta, non si fa lo stesso discorso per i personaggi maschili: se un uomo letterario si appropria di caratteristiche tradizionalmente femminili – cucinare, crescere figli, pulire e tutte le altre attività tristemente relegate alle donne dalle frange reazionarie della società – nessuno sembra insorgere. Nessuno si lamenta del softass buddy, perché quest’etichetta non esiste. In fondo, anche nei dibattiti contro gli stereotipi, all’uomo è concesso essere un po’ quello che vuole, mentre la donna deve essere “qualcosa” di specifico.

Iper-femminilità come femminilità
L’ultimo punto ha per me dell’assurdo in generale. Se da una parte vedo la problematicità nel rinnegare trucco, vestiti e qualsiasi altra caratteristica associata all’universo delle donne (sempre per convinzioni sociali che non condivido) perché “troppo femminile” e quindi inadatta a una lottatrice – come se il truccarsi e il curare il proprio vestiario siano onte terribili –, dall’altra non trovo affatto che questi personaggi siano davvero, in tutto e per tutto, dei distruttori dello stereotipo femminile che tanto ci urta nella Mary Sue. Non sono armadi di due metri per due tutti muscoli. Non sono rasate e ferite dagli scontri. Non sono sepolte sotto chili di armature da guerriero.
Semplicemente, non sono iper-femminili. E, per questo dibattito, sembra quasi che tutto ciò che non sia iper-femminile sia un affronto, una negazione dell’essere donna.
Il problema di questo approccio, per me, sta nell’idea che un tipo di femminilità sia più o meno adeguata, più o meno accettabile. Non è così. Si è donne quando ci si identifica come tali, punto. Questo concetto aiuta, quando si deve scrivere un personaggio che si identifica così, perché tanto dovrebbe bastargli ad essere una vera donna™. Se è uno stereotipo è perché è scritto male in generale, non perché non è donna come dovrebbe esserlo, dal momento che non esiste un modo giusto di farlo.
E qui torna il paragone con gli uomini: anche loro soffrono di un “idea di mascolinità”, di uno standard da raggiungere per essere veri uomini™, ma il dibattito sui personaggi che non raggiungono tale livello non è mai efferato e implacabile quanto quello che riguarda le donne. Anzi: se un personaggio maschile rinnega tutte le fantomatiche caratteristiche tipiche degli uomini, anche a costo di trasformarsi in una macchietta, nessuno si lamenta della mascolinità negata. Come sempre, l’uomo difficilmente perde il suo essere uomo, perché a lui basta davvero identificarsi come tale per essere visto così.

Le estreme conseguenze
Un altro problema che ho con il discutere continuo su come dovrebbero essere i personaggi forti quando sono donne sta nelle sue estremizzazioni.
Ripeto: sono convinta che il vero nocciolo della questione risieda nell’incapacità di scrivere, perché l’utilizzo di uno stereotipo, dei personaggi-maschere in generale, è problematico per la storia e per chi quella storia la fruisce; sono convinta che non esista un modo corretto di essere donna, anche se si è un personaggio; sono convinta che il dibattito sia impietoso solo con i personaggi femminili e lasci campo libero a quelli maschili, anche quando scritti davvero male.
Eppure, se anche tutto questo non mi facesse sorgere dei dubbi sulla qualità della discussione, ci si mette chi fa rientrare nella categoria badass chick anche personaggi che non lo sono affatto.
Esempi? Katniss Everdeen dalla saga Hunger Games o Buffy Summers dalla serie Buffy.
Entrambe sono ottimi personaggi, hanno una personalità ben strutturata, hanno punti di forza e debolezze, hanno una storia alle spalle e un’evoluzione davanti; sono forti o hanno abilità particolari, certo, ma per ragioni coerenti con l’universo in cui si muovono o per un trascorso valido di cui il lettore è a conoscenza; provano emozioni più volte nel corso della narrazione, e non solo per amore.
Sono nominate spesso da chi parla della badass chick come uno stereotipo negativo, però, e questo mi fa credere che il problema siano le donne dai tratti forti in generale, più che l’utilizzo di uno stereotipo che appiattisce il personaggio. Se è così, allora non andrà mai bene nulla, dobbiamo esserne consapevoli. Non andranno bene neanche personaggi femminili con caratteristiche tradizionalmente associate al loro universo, anche se ben scritti, perché accorpabili sotto l’etichetta “Mary Sue”. Non andrà bene la donna che lavora, né quella che sta a casa con i figli: l’una troppo indipendente, l’altra anti-femminista.
Se si parte dal presupposto che non c’è un modo corretto di essere donna, invece (o, meglio, che si ha la libertà di essere donna come più ci piace), allora si avranno personaggi scritti male – stereotipi nel senso di “personaggi scritti rifacendosi a convinzioni antiquate della società”, ma anche “personaggi abusati in un particolare genere”, perché no – e personaggi scritti bene, ben strutturati, ben raccontati al lettore.
Inoltre, piccola parentesi, nessuno si lamenta di Peeta Mellark quando decora torte e si strugge per amore. Ancora una volta, avere il pene dà diritto a infinite uscite gratis dall’etichetta “stereotipo”.

Conclusione
Non credo, in nessun caso, che il confronto sia sbagliato in sé, ma il modo in cui si decide di argomentare un dibattito può esserlo.
Da una parte trovo degli spunti interessanti nella discussione che, se approfonditi, potrebbero essere stimolanti e su cui ho dei punti di vista e delle opinioni precise, anche se non ho potuto dar loro troppo spazio in questa analisi. Per esempio cosa si intende quando si parla di “femminilità” e se questo concetto è ormai antiquato o se considerarlo tale svalorizzi uno dei modi di essere donna. Cosa si intende quando si parla di caratteristiche innate e cosa, invece, quando si parla di caratteristiche acquisite. E, soprattutto, quanto sia dannoso un possibile stereotipo, sia concettualmente che letterariamente, se non ha alle spalle secoli di consolidamento sociale come invece accade per la Mary Sue (quest’ultima, infatti, attinge a una visione sociale dalle radici antiche e, a volte, dalle terribili conseguenze, che è davvero problematica per le donne in carne e ossa); cosa che non si può dire, per esempio, per la badass chick.
D’altra parte, però, penso anche che la stessa analisi critica vada rivolta ai personaggi maschili, che delle distinzioni fra personaggi femminili forti e personaggi stereotipati vada fatta, che sia necessario abbracciare l’idea che non esiste un modo corretto di essere – e quindi di “scrivere di” – donne.

5 (inusuali) LEZIONI SULLA SCRITTURA IMPARATE DALLE SERIE TV

Lo so cosa state pensando: è una scusa per guardare le serie tv invece che scrivere. E sì, in parte avete perfettamente ragione. In parte, però, si può anche usare un appassionante passatempo come le serie tv per imparare qualcosa, traendo dell’utile dal dilettevole.
No, d’accordo, è solo una scusa.

Ho scritto “inusuali” perché anche le serie si scrivono, proprio come i libri, ma quelle che ho elencato non sono le classiche lezioni su trama e personaggi, quanto un punto di vista forse un po’ più personale.
Quindi, se siete reduci da una maratona su Netflix che vi ha fatto dimenticare anche come vi chiamate, ecco cos’ho imparato sparandomi ore e ore di episodi.

1 – Scrivere per scrivere (Hannibal)

Cercherò di essere abbastanza superficiale da farla breve. Viviamo in un’epoca in cui il messaggio che si lancia con un’opera creativa è importante. Non c’è modo di nascondersi da questa realtà. Io sono sempre un po’ perplessa davanti all’accostamento fra un prodotto artistico e la morale, perché non credo che i due campi abbiano molto in comune. Certo, ricordando sempre che l’autore deve sapere quando sta infrangendo qualche “regola morale”, deve esserne consapevole, per usare questa infrazione nella sua opera in modo fruttuoso, interessante e – perché no – intelligente.
Una delle lezioni che ho imparato da Hannibal è questa: ricordarsi che l’obiettivo, quando si scrive, è produrre qualcosa che abbia valore creativo e/o che intrattenga. Formulandola meglio: scrivere non ha obiettivi, non ha scopi che non siano altro che lo scrivere e il farsi leggere. Perché, per quanto si possa dire “scrivo per me” è anche vero che un’opera diventa tale nell’atto della fruizione, ossia quando qualcuno la legge o guarda.
Non fatevi scrupoli a rendere affascinante un seriel killer cannibale, quindi, se lo fate con la consapevolezza che si sta parlando di un serial killer cannibale.
È finzione, non è realtà.

2 – Un po’ di rappresentazione non fa male a nessuno (Sense8)

Se è vero che un’opera, per quanto mi riguarda, non deve obbligatoriamente farsi carico di messaggi morali, è anche vero che un po’ di varietà non guasta. Non tanto per la giustizia sociale che questo comporta (tematica rilevante che qui non approfondisco), quanto perché l’arte riflette il mondo e la scrittura non è da meno. Quando leggo romanzi in cui ogni singolo personaggio è bianco e etero sento che manca qualcosa, anche solo per il fatto che il mondo che mi circonda non è fatto solo di eterosessuali caucasici, la mia cerchia di amici non è fatta solo di eterosessuali caucasici, la mia città non è popolata solo da eterosessuali caucasici. Sense8 ha fatto un lavoro magistrale, a mio parere, da questo punto di vista, inserendo personaggi di ogni etnia, estrazione sociale, sessualità e genere senza che ciò risulti forzato o per il solo scopo di rappresentare.
Insomma, ci siamo capiti: si può scrivere guardandosi anche attorno, non solo dentro.

3 – Non trattare da stupidi i tuoi lettori (Sherlock)

Lo so, questa è un po’ acida. Il problema è che, a un anno dalla messa in onda della quarta stagione, ho tirato un po’ le somme e ho capito che il mio problema con Sherlock ha radici più profonde della pessima, ultima serie. Sì, perché quando si scrive, il lettore non dev’essere trattato come un idiota, soprattutto se lo abbiamo spinto noi alle conclusioni a cui arriva, se l’abbiamo punzecchiato e gli abbiamo rifilato indizi su indizi per farlo arrivare a specifiche domande. Non possiamo lamentarci se si interessa a uno specifico punto della nostra trama, se siamo stati noi a dare attenzione a quel punto della trama; né ci possiamo lamentare se riceviamo critiche per non aver spiegato un passaggio, quando siamo stati noi a creare aspettative su quel passaggio e, di conseguenza, sulla sua spiegazione. Dobbiamo essere consapevoli di quello che scriviamo, consapevoli di dove vogliamo andare a finire, consapevoli di dove stiamo facendo focalizzare l’attenzione del lettore. Altrimenti stiamo scrivendo per il puro gusto di continuare a punzecchiare e, quando sarà il momento di tirare le somme, non avremo niente su cui costruire le nostre conclusioni.

4 – Non aver paura di evocare (The OA)

Si ha sempre un po’ paura di risultare pretenziosi quando si cerca di evocare invece che di descrivere e narrare. O, almeno, io vivo questo contrasto interiore (suono come un poeta maledetto, lo so). Ecco, secondo me non è sbagliato, nelle giuste dosi, rifarsi all’evocazione. In questo senso The OA mi sembra un ottimo esempio, tanto che Netflix ha fatto ruotare l’intero trailer della serie sull’incapacità di spiegarne il contenuto, nonostante il contenuto ci sia eccome. Fra sogni, memorie, narrazioni, The OA mi ha ricordato che scrivere può anche voler dire sperimentare, lasciarsi andare, superare i limiti di quello che è tradizionalmente accettato e regolato, per poter trovare i propri spazi e, in questo processo, magari scoprire anche la propria “voce”.

5 – Qualità prima di tutto (Supernatural)

Da Supernatural si possono trarre centinaia di consigli, che possono essere riassunti con un “fai il contrario di quello che fanno gli sceneggiatori di Supernatural e vai sul sicuro” (d’accordo, anche questa era acida). Difatti ho continuato a pensare a quale lezione, fra le molte che la serie può dare, infilare in questa lista inusuale. Clizia ha suggerito anche un sempre vero “non uccidere personaggi che non sai dove infilare”, che cito perché lo reputo uno fra i migliori consigli estrapolabili dagli episodi (qui un mio video in proposito, perché se non mi auto-pubblicizzo almeno una volta poi passo per una persona decente).
Il fatto è che, fra tutte le lezioni, quella che preferisco è che non importa se vogliamo scrivere una serie da trecento volumi o un romanzetto da cento pagine, l’importante è che ci si ricordi di essere soddisfatti del prodotto finale, di essere convinti del suo valore, di reputarlo di qualità. Noi per primi, a prescindere dalla veridicità finale di questa convinzione. Dobbiamo impegnarci per scrivere bene una buona storia, ricordandoci da dove siamo partiti con i nostri personaggi e la nostra trama, e sapendo dove vogliamo finire. Perché sì, alla fine magari avremo anche i nostri lettori, che si affezioneranno pure a quello che abbiamo scritto e ai nostri personaggi (Supernatural è ancora vivo per questa sua forza d’attrazione e non nego assolutamente che la eserciti anche su di me e in grande misura), ma saremo noi, poi, a dover rispondere con noi stessi della qualità del nostro lavoro. Io non mi perdonerei mai, se la pigrizia e la consapevolezza di essere letta comunque mi facessero pubblicare un lavoro pessimo che so essere tale.

Questo è quanto. Se volete condividere o commentare con qualche altra lezione tratta dalle serie tv, mi trovate qui o sui social (sono praticamente ovunque come @donniescrive).
Alla prossima!

SUPERARE IL BLOCCO DELLO SCRITTORE

Stiamo tutti molto calmi. Ora arrivano i consigli, quelli utili.

Non saranno consigli come “fatti una corsa” (uhg), “fai i gargarismi con pagine di dizionario sciolte nell’acetone” (meglio della corsa) o altri strambi metodi, perché in fondo tutte queste cose non servono a farti scrivere davvero. Quelli di cui parlerò sono trucchetti che pretendono un po’ di fatica (lo so, lo so, che palle), ma che uso per me e che potrebbero funzionare anche per altri.

Prima di tutto, quello che devi capire è perché scrivi. Apparentemente non c’entra nulla con l’argomento che ho deciso di trattare per non lasciar morire questo angolino di blog, ma è fondamentale, in realtà.
Se si scrive per hobby, come passatempo divertente e spensierato, il mio primo suggerimento è di prendersela comoda. Non hai scadenze, non vuoi farne un mestiere, non hai persone alla tua porta con torce e forconi, quindi perché non ti rilassi, non bevi una camomilla e non ti immergi nella lettura di quel libro in sospeso o in qualche film? L’ispirazione, prima o poi, tornerà. Magari proprio facendo una di queste due cose, stimolando così la tua creatività (che è un modo carino per dire che risveglieranno la tua fangirl interiore spingendoti a sputar fuori 90k di parole su una fanfiction in cinque atti).

Se invece scrivi perché ne hai bisogno (per stare bene e funzionare come un essere umano “normale”) o perché hai delle scadenze o, ancora, perché vuoi provare a farne un mestiere, ecco che devi scrivere a tutti i costi.
Butta la camomilla, spegni Netflix e leggiti ‘sto papiro.

Il primo ostacolo è la potenziale mancanza di idee. Non è un problema che ho (ho il problema opposto, a dirla tutta), ma può affliggere scrittori di ogni tipo.
Non hai idee perché davvero non hai idee, oppure ogni idea che ti viene la reputi una schifezza? In quest’ultimo caso, devi fare un grande lavoro: sdoppiare la tua personalità. Prendi carta e penna e diventa una versione di te superentusiasta, la tua immaginaria fan numero uno, e scrivi tutti i motivi per cui quell’idea può essere vincente.
Esempio: vuoi proprio scrivere la storia di un miliardario che si innamora di un’idiota, ma ti sembra un’idea fatta e rifatta. Qui entra in gioco la tua fan numero uno: non è per forza così, se decidi di trattare il tema sotto la luce orribile degli abusi domestici, concludendo con un finale degno di amore criminale in cui lui la uccide e la tiene nel congelatore! Oppure, ancora, il tuo stile potrebbe dare all’idea una nuova veste a cui nessuno ha ancora pensato, nonostante la storia di base sia stata scritta e riscritta! Oppure, perché no, si tratta comunque di un prodotto che vende ed è proprio quello il tuo obiettivo, quindi perché crucciarsi sulla sua originalità?
Il tuo alter-ego non ha il senso della realtà, ti ama incondizionatamente, le sue considerazioni sfiorano l’assurdo, sicuramente ha una parete inquietante piena di tue foto, ma fra i suoi deliri troverai di certo qualcosa di razionale che potrebbe avere un certo senso.
Un esercizio che all’inizio sembra stupido, ma che fatto (e rifatto e rifatto) porterà a qualche risultato. Oppure ti ricovereranno per la frammentazione del tuo io interiore. In quel caso, scusa.

Se invece latita proprio la materia prima, le idee, consiglio di portare sempre con sé un blocchettino perché spesso, durante il giorno, ci fulminano frasi, situazioni, abbozzi di personaggi che lasciamo scivolare via perché non abbiamo dove segnarli o non siamo abituati a prestarci attenzione. Lo so, mi dirai che siamo nell’era della tecnologia, ma i cellulari si rompono (i miei sopratutto) o i file si perdono fra le tremila immagini di Benedict Cumberbatch che neghi di aver scaricato. L’atto fisico di segnare l’idea è energico, è più incisivo, e ti farà sembrare cazzut* come Hemingway, d’accordo? Fidati. Non buttare via nessun pensiero creativo, ma vomita tutto sulle pagine. Tutto. Lì in mezzo scoverai qualcosa di decente, te lo assicuro.

Diciamo che hai l’idea, che sei convint*, che ti piace, che vuoi scriverne. Ti siedi davanti al computer o davanti alla pagina e niente. Niente.  Blocco totale.
Anche qui il lavoro che devi fare non è da poco: vomitare di nuovo.
Scrivi una frase. Una soltanto. E non cancellarla. Fa schifo, ma schifo davvero. Ma tu non puoi cancellarla.
Non solo, non puoi neanche correggere le parole digitate in modo sbagliato, i verbi coniugati col culo, le virgole in mezzo al cazzo. Niente, deve restare tutto lì. Vomito di parole vero e proprio.
Quando lo hai fatto abbastanza a lungo, diciamo mezza faticosissima pagina come minimo, ripercorri il documento. Ancora una volta, divieto assoluto di cancellare: tutto va segnato fra parentesi dopo la parola o la frase, errori, note, considerazioni; puoi anche appuntare cose come «chi l’ha scritta questa frase, mia cugina di due anni?» e altre denigranti constatazioni, ma non cancelli niente. Quando hai fatto, via a sforzarti con altre frasi oscene, il tutto per un limite quantitativo (di tempo o pagine) da te stabilito, senza esagerare. Un paio di pagine, osservazioni comprese, quando si è bloccati, sono un ottimo risultato! Sono due pagine in più del niente da cui si è partiti.
Un uso prolungato di questo metodo non ha effetti collaterali, a parte comportare un grosso lavoro di editing… se ti sblocca, puoi usarlo ogni volta che vuoi e lasciare la cancellazione e la correzione di base alla prima rilettura totale, con l’animo più sereno perché, dannazione, sei riuscit* almeno a scrivere qualcosa.

Poniamo il caso che a mancarti non sia l’ispirazione, ma la scintilla. Quella passione per lo scrivere, quell’ossessione che ti fa macinare pagine e parole come se non ci fosse un domani. L’idea c’è, ti piace, è condita da personaggi che ti convincono e scrivi, certo, ma è tutto meccanico, niente ti emoziona. Quello che esce, di conseguenza, è di una noia mortale e i lettori se ne accorgeranno di sicuro.
La prima opzione è cambiare idea. Forse non è il momento per questa trama e questi personaggi. Ma ci hai speso anni della tua vita, mi dirai. Eh, appunto. Anche basta. Si cambia aria per un po’ e dal mattone introspettivo di impronta scandinava passi a scrivere una romance. Rinfreschi un po’ il cervello, e dopo un mesetto ritenti con il mattone scandinavo, applicando il metodo di cui sopra (vomito di parole e divieto di cancellarle).
Il consiglio vale anche a breve termine, per chi ha scadenze. Invece di buttarti su un altro romanzo intero, prova con un raccontino, giusto per sfogarti un po’ e risollevare lo spirito. Niente di complesso, niente che dovrai far leggere a qualcuno.
O, anche meglio, fai come faccio io e vai di fanfiction. Non che non abbiano dignità letteraria di per sé, ma possono anche essere un buono strumento di evasione. A me mi riportano subito nello stato creativo che mi fa macinare pagine su pagine!

Ci sono poi dei consigli generali.
Evita di distrarti eccessivamente. Lo so, ci vuole una forza di volontà pazzesca, cosa che a me manca. Per questo quando devo scrivere “per forza” stacco internet. Siamo io e la pagina, nient’altro. Stabilisco all’inizio che sia solo mezz’ora, non di più. Alla fine ho comunque iniziato e spesso sono così presa dal fluire della scrittura che passa anche più tempo. Mezz’ora sembra semplicemente più accettabile data la mia dipendenza dal wifi.
– Un altro metodo è circondarsi da persone che scrivono con cui scambiarsi idee e pareri. È sempre stimolante parlare di personaggi e trama con altri scrittori. Solitamente ci sfidiamo in piccole word wars in cui ci accordiamo, scriviamo per mezz’ora e poi vediamo quante parole abbiamo scritto e chiacchieriamo di cosa abbiamo buttato giù. I round si susseguono e, alla fine, ti ritrovi con capitoli e capitoli finiti magicamente (dove magicamente si legga «con il sudore della fronte»)!
Partecipa a eventi di scrittura come il NaNoWriMo o i CampNano, per avere un mese intensivo in cui ti sforzi di scrivere a qualsiasi costo.
Pianifica e organizza: se hai tutta la trama, sai già cosa andrai a scrivere e difficilmente ti perderai per strada senza sapere cosa mettere sulla pagina bianca. O, ancora, decidi che la sera dedicherai sempre mezz’oretta alla scrittura e fanne una routine, se questo può aiutarti.
– Un consiglio di Red che seguo quando mi viene a noia scrivere è passare ad abbozzare una scena che aspetto con ansia. Almeno avrò scritto qualcosa, anche se poi la cambierò del tutto.
Gioca con tutto ciò che di collaterale può motivarti: fai immagini, disegni se ti piace farlo, bozze di copertina, interviste virtuali ai tuoi personaggi, challenge e tag. Stimolati!

Ora, non so se ho detto tutto o se questi consigli ti saranno utili, ma prova (provarci è la parte peggiore, lo so, ma è un inizio)!
E stringi i denti…

NELLE PUNTATE PRECEDENTI… oppure no

Mentre sono qui, che cerco di capire come si inaugura un blog che – con una scelta piuttosto narcisista – porta il mio stesso nome, mi rendo conto che non è una partenza, la mia.
Sono, piuttosto, sulla buona strada.
Sarebbe necessario, quindi, un previously, un the road so far, come nelle migliori serie televisive, perché tu sappia chi sono, di cosa parlo, che faccio e perché (già, perché?) ho aperto questo blog.
Non ti interessa? Neanche a me, ecco perché non è quello che farò. Parlerò di te con te, in realtà, quindi un po’ del mio stesso narcisismo potrà tenerti qui fino alla fine.


Se sei ancora qui, ci sono buone probabilità tu scriva. Magari da una vita, magari da ieri, magari stai accarezzando l’idea, pensando di poterlo fare appena ci sarà la storia giusta, il giorno giusto, la giusta luce sulla giusta lettera della tastiera.
Ti dirò quello che in pochi hanno detto a me: FALLO.
Ora. Non domani, non “poi”, non lunedì, né “un giorno”. Per riuscire a scrivere il modo migliore è scrivere. Fallo perché ti appassiona, perché ti fa sentire viv*, perché ti è necessario, perché fa paura, perché non ne puoi più di vivere nei tuoi panni.
Devi crederci, però. Crederci davvero. Mi ci sono voluti anni per smetterla di sminuire il mio desiderio di scrivere, per capire che dovevo essere la prima a prendermi sul serio, e il risultato è che ho raccolto i miei racconti di qualche tempo fa, ho dato loro una bella spolverata, li ho fatti leggere e correggere, e sono diventati un libro. Un oggetto reale (e digitale, per gli amanti del genere) che non è più solo una vaga idea nella mia mente, che esiste e si può sfogliare, possedere, odiare o apprezzare; che ha i suoi difetti, ne sono certa, e che magari guarderò con disprezzo una volta pubblicato altro, ma che avrà sempre il fascino dei primi passi e l’aura magica delle prime volte. Scrivo da quattordici anni, sono su internet a farmi leggere da dieci di meno, e finalmente l’ho fatto: ho chiuso gli occhi, trattenuto il respiro, e mi sono buttata.
E, se l’ho fatto io, puoi farlo anche tu.


Magari sarà difficile (nel mio caso lo è stato), magari impiegherai anni prima di sentirti pront* (com’è successo a me), di sentire che quello che hai prodotto è valido, ma non smettere di crederci o inizia a farlo se non l’hai mai fatto prima.
Per rispondere alla domanda che stai silenziosamente formulando: sì, non tutti saranno dalla tua parte, non tutti ti sosterranno e non tutti avranno la sensibilità di tacere se non hanno idea di cosa significhi scrivere e se non hanno niente di costruttivo da dirti. Il fatto è che non importa. Magari fa un po’ male, a volte, e avere il sostegno di chi si ama o di chi si stima è una grande spinta, ma non è necessario. Non è fondamentale.
L’unico sostegno di cui hai bisogno è il tuo.


E, non bastasse davvero, eccoti il mio: io credo in te. Credo che tu possa scrivere, possa imparare dove credi ti sia necessario e, un giorno vicino o lontano, tu possa stringere fra le mani il risultato dei tuoi sforzi, ottenuto alle tue condizioni. O magari l’hai già fatto e non è andata come pensavi, come volevi andasse; allora provaci di nuovo, persevera, non lasciare che la tua percezione del fallimento fagociti tutto il resto e neutralizzi i tuoi sforzi. Oppure, ancora, è andato tutto bene, hai il tuo libro e i tuoi lettori, e allora puoi annuire bonariamente a tutti quelli che ancora non sono arrivati proprio lì (fra cui io), dando pacche sulla schiena a chi ha qualche dubbio nel leggere i miei incoraggiamenti.


Ci sono persone che non capiscono perché lo faccio, perché mi sento in dovere di spronare tutti a scrivere se vogliono farlo (fino a diventare invadente, temo), perché chiedo di mandarmi stralci di storie e lascio volentieri il mio parere da lettrice, perché leggo altri emergenti e li pubblicizzo come se i loro libri fossero miei. Per me è ovvio: avrei voluto lo dicessero a me nei momenti bui in cui mi sembrava impossibile sentirmi realizzata o felice. Avrei voluto che qualcuno mi ricordasse che potevo farcela, che dovevo solo crederci, che potevo bastarmi per raggiungere i miei obiettivi. Qualcuno c’è stato, eventualmente, e mi ha dato una svegliata, ripescandomi dal torpore (la mia gratitudine non sarà mai abbastanza). Quelle persone mi hanno dato il via e poi ho costruito le mie fondamenta, accettando di voler scrivere e di volerlo fare seriamente, senza mezzi termini, per quanto la vita me lo avrebbe permesso. Sono soddisfatta, sono felice, e se sembra poca cosa ti assicuro che non lo è per chi ha fragilità come le mie (magari lo sai fin troppo bene, invece).


Avrei potuto aprire il blog in mille modi, presentando me stessa, parlando nel dettaglio del mio libro, evitando di essere facilmente additata come un’ingenua buonista (mi capita così spesso che potrei farne il mio slogan), invece eccomi qua a dire che, se sei un artista, un musicista, un lettore, un appassionato di cinema, un alieno, un androide e ami fare qualcosa, devi crederci e farlo.
Queste saranno le premesse del mio blog, questo sarà il modo in cui parlerò di libri, di scrittura, di lettura, di arte, di film e di serie, ma anche delle mie opinioni non richieste e delle mie disavventure. Come se fossimo io e te, da qualche parte, a chiudere il resto del mondo fuori.
Ora, immagina un tè freddo (è pur sempre estate), qualche biscotto, e raccontami in cosa ti butterai con tutt* te stess*…

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