La mia amica Patsy mi stava raccontando una cosa. «Sono al cinema» mi dice, «e ho appoggiato la giacca per benino sullo schienale della poltrona, quando arriva questo tizio…»
E qui io la fermo, perché su questa faccenda della giacca mi interrogo da sempre.
Sono nel bel mezzo della Mondadori in centro – parliamo di dieci anni fa, quando quella Mondadori era “nuova”– e ho gli occhi gonfi di pianto perché non sono riuscita a dare un esame. Alterno fasi di apatia a periodi di ansia incontrollabile da mesi, ormai. Non so cosa fare, quindi mi rifugio in libreria prima di tornare a casa.
Vago alla cieca, in realtà, perché non ho ancora sviluppato l’abitudine di avere una lista di acquisti mirati. Sfioro i libri, leggo qualche trama, valuto qualche prezzo. Poi vedo Van Gogh su una copertina e sono combattuta fra il rigetto – non solo non amo particolarmente le opere di Van Gogh, ma il mio indirizzo di studi, il motivo della mia ansia, riguarda proprio l’arte – e la curiosità – è un’opera quasi sconosciuta, un piccolo quadretto del 1885 intitolato “Cranio con sigaretta” che ritrae, sorpresa, un cranio che fuma.
Il libro si intitola “Quando siete inghiottiti dalle fiamme” e lo trovo particolarmente adatto al mio stato d’animo.
Sbircio e scopro che si tratta di una raccolta di racconti dalla penna – che ora so essere una macchina da scrivere – di David Sedaris.
Sedaris nasce a New York nel 1956 da una numerosa famiglia greca, e nella sua vita viaggerà ovunque e farà di tutto. Se un lavoro si può immaginare, lui l’ha fatto, compreso scrivere racconti pseudo-erotici per una rivista a tema “donne giganti” (questo ve lo dico io, non la quarta di copertina). Fumatore incallito quanto la madre, conclude la raccolta di racconti con un esperimento particolare: un viaggio in Giappone con il compagno con l’obiettivo, fra gli altri, di smettere di fumare. Da questo, immagino, deriva il cranio di Van Gogh.
Non è tanto la quarta di copertina ad attirarmi, però, con le sue specifiche sul contenuto del libro o i suoi aneddoti sulla vita dell’autore, ma le prime due pagine che leggo lì, in piedi, nel bel mezzo della “nuova” Mondadori.
Il primo racconto si chiama “È contagioso” e ha già tutte le caratteristiche di un racconto di Sedaris, anche se al tempo non lo sapevo. Parte da un momento curioso della sua vita per esplorare il grottesco che c’è nella vita di tutti, quel surreale che a raccontarlo sembra incredibile ma che è poi così vero, terribile e divertente allo stesso tempo.“È contagioso” mi fa ridere, per farla breve. Tanto forte che devo trattenermi perché sono in pubblico. E mi sforzo al punto che inizio a lacrimare per ben altri motivi rispetto a qualche minuto prima.
Cos’è “È contagioso”? Ancora oggi non lo so bene. Dalla germofobia di Patsy si passa al verme che ha vissuto nella gamba della suocera di Sedaris per poi approdare sull’ipocondria di sua sorella Lisa e concludere con il numero di bambini che ogni anno muoiono di spavento.
«Poveri bambini» ha detto Ma’Hamrick.
«E poveri genitori!» ha aggiunto Lisa. «Ve lo immaginate?»
Entrambi i gruppi sono tragici, ma io ho pensato ai bambini che sopravvivono, o peggio ancora, a quelli che rimpiazzano, allevati in un’atmosfera di sobrietà preventiva.
«Allora Caitlin II, quando arriveremo a casa un sacco di persone salteranno fuori da dietro i mobili e grideranno “Tanti auguri!”. Te lo dico adesso perché non voglio che ti agiti.»
Un viaggio assurdo che mi convince a prendere il libro e che mi costringe a leggerlo per tutta la mezz’ora di viaggio sul tram.
Ridere è diventato, da quel giorno, il mio rimedio omeopatico alle difficoltà emotive e psicologiche. Non cura i miei mali, ma mi forza in direzione opposta per un po’: rido e mi dimentico di essere triste per qualche ora; rido e non sto meglio, no, ma mi scordo per un po’ di stare male. Se sono insonne, guardo uno spettacolo comico e ne rido fino a stancarmi. Guardo Bo Burnham o Daniel Sloss e non penso ad altro che a quello che stanno facendo sul palco, quello che stanno dicendo, come lo stanno facendo.
Ecco, tutto inizia da Sedaris e non finisce con “Quando siete inghiottiti dalle fiamme”.
Dopo quel primo acquisto, infatti, recupero tutti gli altri titoli– “Diario di un fumatore”, “Holidays on ice”, perfino “Naked” in lingua originale – e fra questi leggo il bellissimo “Me parlare bello un giorno” che è ad oggi, se proprio devo scegliere, il mio preferito.
Lì Sedaris racconta, fra le altre avventure personali e familiari, della casa in Normandia del suo compagno e di come restaurarla sia la scusa per imparare il francese (Sedaris è un appassionato di lingue). Da questa premessa si snodano incidenti che hanno il potere di farmi ridere ancora oggi e che non posso, per nessuna ragione al mondo, leggere ad alta voce. Lo dico perché ci ho provato, per far conoscere Sedaris al mio ragazzo, e ho rischiato di morire soffocata dalle mie stesse risate. E l’ironia della questione non mi sfugge.
Non sono mai stato uno di quegli americani che disseminano i loro discorsi di espressioni francesi e offrono agli invitati taglieri di brie. Per me la Francia non era una meta precisa, premeditata. Finii in Normandia nello stesso modo in cui mia madre finì nel North Carolina: conosci un ragazzo, abbassi un filo la guardia, e un attimo dopo ti ritrovi con il mondo capovolto.
Sedarsi impara parole in francese da cartoncini pazientemente creati con la sua fedele macchina da scrivere e intrattiene i nuovi vicini con una “patetica sfilza di nomi comuni”, indicando oggetti come un bambino.
«Posacenere!»
«Sì» annuivano loro. «Quello è proprio un posacenere.»
«Martello? Cacciavite?»
«No, grazie. A casa ce l’abbiamo.»
Il metodo funziona poco, così Sedaris inizia a imparare le parole che gli piacciono. Il problema principale è che, come me, Sedaris è morboso. Così impara “esorcismo”, “tumefazione facciale”, “pena di morte”. Parole leggermente difficili da inserire in un contesto quotidiano.
Quindi cambia ancora strategia e memorizza termini dai giornali scandalistici.
«Mangiauomini» dicevo. «Cacciatrice di dote, stallone, pezzente.»
«Ma di chi stai parlando?» mi chiedevano i vicini. «Quale arrampicatore sociale? Dove?»
Per non parlare dell’esilarante odio della sua professoressa quando si decide finalmente a seguire un corso o della sua passione per gli oggetti d’antiquariato più lugubri di cui i mercatini francesi sembrano pieni, come vecchi ferri da chirurgo e uno scheletro che, per un intero racconto, diventa un memento mori inquietante e divertentissimo.
Tutto questo per consigliarvi un autore di cui vorrei ardentemente comprare l’ultimo libro, non costasse quello che costa (se volete farmi un regalo, “Calypso” mi renderebbe felice).
Probabilmente qualcuno ha preso in mano un suo libro e non l’ha trovato così divertente, o gli darà una possibilità in futuro e non capirà cosa mi ha attratto dei suoi libri. La verità è che condivido lo stesso umorismo macabro e dissacrante, che non sono in grado di fare ma che è l’unico tipo di comicità in grado di divertirmi davvero.
O forse, in modo molto più banale, ho conosciuto Sedaris nel momento in cui ne avevo bisogno. Quando ero inghiottita… dalla tristezza.