Questo AppuntaVenti non parte da una tesi, ma da una lettura. Durante questo novembre dedicato alla scrittura sto leggendo “In punta di penna. Riflessioni sull’arte della narrativa” curato da Blythe. Nella raccolta, alcuni autori americani si raccontano rispondendo alla domanda “Perché scrivi?”, di volta in volta in modo analitico o nostalgico, personale o tecnico.
Leggere questo libretto edito dalla Minimum Fax, la cui edizione originale risale al finire degli anni ’90, mi ha fatto riflettere sul motivo per cui le persone scrivono e poi, più a fondo, sul motivo per cui io lo faccio.
La prima risposta, la più banale e istintiva anche se non meno vera, è: perché non posso farne a meno. Quando si cerca di farlo sul serio, scrivere non è facile, e per continuare serve un’ostinazione tutta speciale. Lo stesso motivo per cui ci svegliamo, respiriamo, mangiamo. Non possiamo farne a meno e ci siamo intestarditi sull’idea di vivere. Ecco, scrivere, per me, funziona proprio così: tutt’attorno il mondo mi spinge a non farlo e io, banalmente, devo.
Questo non mi rende speciale. Non c’è del genio scapigliato in me, niente di così romantico. Ogni scrittore, da quanto ne so, funziona con questo stesso meccanismo alla base. Ecco, se c’è un aspetto interessante in questa raccolta, sono le connessioni fra autori diversissimi fra loro e il modo in cui queste connessioni hanno risuonato in me mentre leggevo. Sembra quasi esista una motivazione prima, originaria, per cui tutti noi raccontiamo storie. Oltre all’egocentrismo, ovviamente.
Scriviamo per vivere.
A questa base si aggiungono le motivazioni personali, quelle di cui non siamo del tutto consapevoli o lo siamo solo a posteriori. Per me, per esempio, scrivere esorcizza la violenza, la paura del dolore – emotivo e fisico –, il timore dell’abbandono e quello molto più umano della morte. Raccontare storie ha sempre avuto quest’effetto su di me, fin da bambina. Le mie bambole si lanciavano nel vuoto dall’armadio, venivano trovate in vicoli abbandonati dietro il letto, con gli arti contorti e i capelli spettinati; litigavano, urlavano, si amavano e si lasciavano con un abbandono degno di una soap opera.
Ed è dopo quest’istinto di sopravvivenza che arriva il lavoro manuale, la parte artigianale in cui ci si sporca le mani – o la mente – e che mi rende ogni parola un piccolo inferno su misura. Con tutti gli strumenti che ho costruito nel tempo e che continuerò a costruire, scavo e spolvero e scalfisco per arrivare a trasmettere una specifica emozione per cui esiste una specifica stringa di parole. Un tempo, quando ancora non avevo vivisezionato altri autori e iniziato a studiare per bene, era tutto più facile: potevo scrivere migliaia di parole in una serata e rileggere dopo mesi per ritrovare le stesse grezze emozioni. Ora è più complesso. Emozionare resta fondamentale, per me, ma c’è dell’altro. Mi ossessiona l’idea che il prodotto finale sia stratificato, che possa risucchiare a fondo. Che infesti il lettore mentre legge e, nei miei sogni più ambiziosi, anche dopo. Come se gli tenessi la testa e lo costringessi a guardare qualcosa di macabro e ripugnante.
“Guarda cosa siamo in grado di fare” gli dico.
Non so se ci sono ancora arrivata. Né so se sia possibile arrivare da qualche parte per davvero. So solo che voglio essere soddisfatta di quello che scrivo e le mie pretese aumentano più mi informo, leggo, conosco.
Durante la stesura, però, non penso a una moltitudine di facce chinate sulle pagine del libro che sto scrivendo. Un po’ perché pensare a un pubblico è irrealistico, vista la quantità di offerta che popola il mondo dei libri; un po’ perché tutte le mie energie sono rivolte a lavorare sodo sulla storia, e pensare al futuro di quello che sto facendo rischia di paralizzarmi. Se penso a qualcuno, è me stessa. Io sono il lettore della storia che scrivo, io la sto scoprendo, io sto conoscendo i personaggi e mi sto costringendo a guardare come si sabotano, come le loro relazioni si sfilacciano e si spezzano.
Perché scrivo?
Perché voglio leggere la storia che sto scrivendo.
Ed è stata una vera sorpresa scoprire che esistono persone, là fuori, con il mio stesso morboso interesse.
La verità è che le storie mi hanno salvata. Un’altra banalità. Se non avessi immaginato di essere altrove, di essere qualcun altro, forse sarei comunque viva ma non sarei io. Non sarei lucida e funzionale, non sarei tutta intera nonostante le ammaccature. Ho iniziato a farlo leggendo, poi non mi è più bastato. Dovevo inventare storie su misura, costruirmele addosso come un’armatura e lasciare che mi proteggessero.
Non serve ricevere chissà quali colpi dalla vita perché l’immaginazione ci salvi, però.
Serve una sensibilità. Serve essere così esposti da sentire in profondità perfino quello che ci sfiora. A volte tutto questo arriva dai traumi, senza dubbio, altre volte si è stimolati fin da piccoli o sarà un dono innato legato all’intelligenza e all’apertura mentale, alla capacità di accogliere gli altri dentro di sé, all’empatia. Però è questo “qualcosa” che permette di creare le storie che mi piacciono, quelle che leggo fino a incastrarmele dentro per riparare chi sono.
Quelle che provo a scrivere.
Ora, nel mio caso specifico, non posso giudicare la qualità delle storie che produco. Non funziona così, non ci si può guardare da dentro e da fuori allo stesso tempo. So solo quando sono soddisfatta di quello che scrivo e quando no, e questo è quanto. E sono soddisfatta quando scavo e scavo, strato dopo strato, fino a costringermi a fissare cosa si nasconde sul fondo. Fino a quando posso dirmi “guarda cosa siamo in grado di fare”.
Fino a qui, sembra quasi che io subisca quello che scrivo invece di controllarlo, ma è un gioco di ruolo. Il controllo è mio, lo spazio in cui esercito la violenza, la distruzione e la morte è uno spazio protetto, posso dire “basta” quando voglio, chiudere il file, prendermi una pausa. Un altro dei motivi per cui scrivo è che, per quanto possa fare male quando scava troppo a fondo, scrivere è sicuro. Posso perfino decidere la distanza da cui guardare, usare una persona o un tempo verbale che mettano me da una parte e tutto quello che succede dall’altra.
Scrivo perché quando scrivo sono in controllo.
La verità è che si tratta di una domanda complessa.
Perché scriviamo?
È una domanda esistenziale se la si guarda sotto una luce, oppure è un quesito pratico se si analizza da un’altra prospettiva. Le risposte sono tante quante le persone che scrivono o forse una sola. A volte la risposta dipende da chi siamo stati e da chi vogliamo essere, altre volte è legata al potere dell’immaginazione e all’atto sovversivo di creare in un mondo in cui tutto cambia ma nulla può essere davvero creato o distrutto. Un mondo, il nostro, che dà valore al materiale e al pratico, ma che è pieno di persone che hanno bisogno di creare per sopravvivere.
Io scrivo perché niente mi fa sentire come scrivere – viva, protetta, e orribilmente vicino all’oscurità umana senza il rischio di esserne travolta.