ALLENARE L’IMMAGINAZIONE: come passare da un’immagine alla trama

Ebbene sì, ritornano gli AppuntaVenti – discussioni e appunti di scrittura, il venti di ogni mese – per parlare dei meccanismi più o meno nascosti dietro alle storie che scriviamo.
In questo articolo ho provato a dissezionare il processo che solitamente mi porta da una singola immagine o scena a un’idea decisamente più approfondita per una storia.

Come ogni razionalizzazione di un processo che va per lo più a istinto (un istinto allenato da anni, certo, ma pur sempre tale), non è legge, non tratta di verità assolute e dogmi incrollabili. Né i suoi vari punti sono in ordine cronologico. Ogni persona che scrive è a sé, ha le sue specifiche esigenze e i suoi rituali. Si tratta più che altro di un’analisi del mio procedimento di brainstorming.

Lo scopo finale sarebbe, come da titolo, allenare l’immaginazione, arma principale nelle mani di chiunque voglia scrivere!

L’immagine

Quasi tutte le mie storie e quelle di moltə colleghə con cui ho la fortuna di parlare nascono da un piccolo dettaglio. A volte quest’idea è un concetto, una dinamica, un trope, ma molte altre è un’immagine. Un singolo fotogramma che ci arriva alla mente mentre stiamo andando al lavoro, pulendo casa, portando fuori il cane. O nel momento in cui chiudiamo gli occhi per dormire e abbiamo bisogno di una storia della buonanotte inventata da noi.

Tutte queste più-o-meno-tediose attività quotidiane sono perfette per sognare a occhi aperti e allenare l’immaginazione. È importante però che le idee che il nostro cervello mette insieme non restino chiuse nella nostra testa. Il consiglio è quindi quello di appuntarsi sempre l’immagine. Bastano poche parole salvate sui nostri onnipresenti telefoni o su uno degli innumerevoli quaderni che noi scribacchinə siamo solitə collezionare. Non deve avere troppo senso, non dev’essere già una trama, non ha bisogno di specifiche: si scrive quello che si vede al solo scopo di non perderlo via fra la lista della spesa e l’appuntamento dal dentista.

Ora, per me le storie partono dai personaggi. Però mi rendo conto che non tutte queste singole genesi arrivano alla mente già popolate. Quindi un ottimo primo passo potrebbe essere quello di abitarle con una coscienza. Dico così perché potrebbe essere una persona, sì, ma anche un fantasma nella piccola finestra del nostro castello gotico, un animale nel mezzo della nostra foresta, un mostro in una palude, qualsiasi cosa di senziente che possa avere una vita da personaggio.

Per la versione definitiva de “Il corpo che indosso” (dopo la sua genesi come giallo di cui non parleremo più, promesso) una delle prime immagini era quella di due adolescenti che parlavano su un balcone di notte, la luce calda che arrivava dalla posrta-finestra alle loro spalle. Tutto qui.

I dettagli

Non resta che dissezionare l’immagine, esplorandone ogni minimo dettaglio.
Per farlo basta continuare a porsi domande sull’immagine: chi sono le persone che la abitano? che emozione trasmette? come ne descriverei l’atmosfera? che colori posso vedere o che suoni posso sentire? che odori, che temperatura? che luogo è? che ragione hanno queste persone per trovarsi lì? cosa sta succedendo?

Lo so che suona molto banale, ma la natura di questo procedimento non è niente di fantascientifico: più si scava, più la nostra immaginazione se ne verrà fuori con altre idee, con collegamenti e motivazioni.
Di solito io non mi metto ad appuntare ogni singola parte di questo procedimento, perché questa fase è malleabile e fumosa, sempre soggetta ad aggiustamenti istintivi, ma le mappe mentali e le liste sono sempre uno strumento utile se sognare a occhi aperti non basta!

Per il mio libro, sapevo già che le due persone nell’immagine erano Gio ed Elia (al tempo con altri nomi), due personaggi di un’altra storia (sì, il giallo) che mi stavano tormentato per avere un romanzo tutto loro. Non erano gli adulti di quella prima versione, però, ma due adolescenti, quindi in un punto totalmente diverso delle loro vite. La luce alle loro spalle era “casa”, un luogo sicuro, ma loro erano fuori, nell’aria fresca della notte, immersi in un’atmosfera calma ma in qualche modo malinconica.
Due dettagli hanno poi fatto da base per scene future: i capelli di Elia e la sigaretta di Gio.

Le persone

Come ho scritto all’inizio, però, le mie storie nascono dai personaggi. E quindi gran parte della mia immaginazione finisce per concentrarsi su questo. Dall’immagine, infatti, si può intuire già molto di quello che finirà per caratterizzare le persone al centro delle nostre storie. Sappiamo vagamente come appaiono e chi sono perché abbiamo scavato nell’immagine, ma per dare loro spessore dobbiamo capire cosa vogliono, di cosa hanno bisogno, che ostacolo interiore dovranno affrontare, che “fatal flaw” hanno, eccetera.

Insomma, è il momento in cui gli strumenti della narratologia possono venire in nostro soccorso, sia che siano applicati istintivamente che razionalmente, in base alle nostre predisposizioni. Può essere un procedimento estremamente strutturato, con schede personaggio e simili, oppure un’esplorazione tutta interna in cui li conosceremo sempre meglio più indirizzeremo l’immaginazione a costruirli (QUI parlo più nello specifico di alcune idee per caratterizzare i personaggi).

È anche il momento di capire in che punto del loro arco si colloca la nostra immagine: sono all’inizio del loro cammino, sono nel momento più buio della loro storia, sono alla fine quando il cambiamento (salvo casi speciali) è già avvenuto?

Per “Il corpo che indosso” sono arrivata alla conclusione che quel momento sul balcone fosse un momento di transizione per entrambi i personaggi. Elia con le sue fragilità (sommate a quelle tipiche dell’adolescenza) che finalmente trova in sé un po’ di assertività, Gio con la sua paura dell’abbandono e la sua protettività verso Elia, costretto a mettere tutto da parte e ascoltarlo.
Mi sono chiesta da dove arrivassero, questi due, cosa li avesse resi chi erano, e dove potevano finire. Così sono nati tanti altri personaggi, come le loro famiglie e i loro amici. Così sono nate la nonna di Gio, Libera, e la sorella di Elia, Eleonora.

Il mondo

Per me questo è uno degli ultimi punti quando parto dalla mia immagine per arrivare a una storia, per altre persone probabilmente il primo, sta di fatto che i personaggi non aleggiano nel vuoto. La nostra immagine, come abbiamo già esplorato grazie all’analisi dei suoi dettagli, ci restituisce un’ambientazione.

Può essere fantastica o realistica, può essere un singolo luogo specifico in cui i nostri personaggi si troveranno o un intero mondo di cui stiamo vedendo uno scorcio. Ma, anche qui, continuare a esplorare l’immagine con la nostra mente può farci accumulare informazioni sull’ambientazione della nostra storia, ottimo punto di partenza sia che il nostro mondo sia enorme e necessiti di successiva costruzione e ricerca (penso al fantasy o alla fantascienza), sia che si tratti del mondo che viviamo e abitiamo tutti i giorni.

A volte, sono proprio i piccoli dettagli a rendere realistico un universo, e di dettagli da esplorare potrebbero essercene a decine nella nostra immagine di partenza. Avremo così idea di atmosfera, colori, architettura, arredamenti, flora, fauna, ecc.

“Il corpo che indosso” ha un’ambientazione molto, molto specifica. La finestra da cui esce la luce calda della mia immagine aveva qualcosa di rassicurante: “casa”, come ho detto. Mi sono chiesta di chi fosse, quanta importanza avesse per i personaggi, come fosse dentro, cosa rappresentasse, quali cambiamenti la aspettassero. È così che è nato l’Appartamento di Libera, il luogo dove si svolge l’interezza della storia di Elia e Gio, con tutta la sua simbologia emotiva.

Il conflitto e il cambiamento

Ma se i personaggi e il mondo sono punti fondamentali, le storie sono niente senza conflitti e cambiamenti.

La nostra immagine può ancora esserci utile, in questo senso: possiamo cercare il conflitto fra le persone che la popolano, o fra le persone e il loro mondo, fra elementi diversi dell’ambientazione che possiamo scorgere o grazie a dettagli in cui è possibile trovare della tensione. Possiamo, insomma, scavare sempre più a fondo, domanda dopo domanda, alla ricerca di un conflitto o di un potenziale cambiamento.
Lo scopo finale è, come sempre, riuscire ad andare da quest’idea a una storia.

C’è chi a questo punto è prontissimo a buttare giù le prime pagine (forse perfino prima) e chi ha bisogno di usare una struttura per “plottare” l’intera storia, chi scoprirà man mano gli eventi e chi è pronto ad appuntare ogni snodo fondamentale. L’importante è ricordarsi che ai nostri cervelli piace il cambiamento, che è il motivo per cui si insiste spesso sulla necessità di un’incidente scatenante che cambi la situazione di partenza della storia, di ostacoli che la rendano interessante e di punti di tensione che tengano il lettore immerso nelle vicende.

Anche qui, si tratta di capire più o meno quale metodo sia il più adatto alle nostre inclinazioni (un video che adoro è questo di Ellen Brock, perché credo abbia trovato una buona categorizzazione su cui è possibile costruire un metodo adatto a noi).

Io amo immaginare i conflitti fra personaggi. Sapevo già che la relazione fra i due della mia immagine aveva alcuni tratti della co-dipendenza, sapevo che erano cresciuti insieme, sapevo che le due personalità così diverse che stavo iniziando a esplorare erano destinate a non capirsi fino in fondo. Eppure, in qualche modo, sapevo anche che erano perfetti per stare insieme… poteva trattarsi solo della necessità di crescere, maturare, trovare un proprio equilibrio.

Per concludere…

Spero che questo articoletto possa essere lo spunto per fare un esercizio mentale a partire da un’immagine trovata su Pinterest, o venga usato per affinare una storia su cui magari siete bloccatə ripartendo dalla sua idea iniziale o che vi dia semplicemente una spintarella a pensare meglio un’idea con cui state giocando da un po’ nella vostra testa.

È stato interessante per me vivisezionare questo procedimento e vedere come a volte può funzionare la mia immaginazione.

E ora… buona scrittura!

Uno sfogo su “Seminario sui luoghi comuni” di Francesco Pacifico

Di rado mi esprimo sul contenuto di libri che non ho finito, ma in questo caso, a un centinaio di pagine o poco meno dalla fine, penso di aver bisogno di mettere da qualche parte i miei pensieri in modo da strapparli dalla mia mente come erbacce e non pensarci più. Premetto che quello che segue è un parere personalissimo e questo libro potrebbe fare al caso di altri. Io non sono in modo più assoluto il target di questo prodotto, e penso che il motivo emergerà leggendo quanto segue.

Trama:
Come si scrive un incipit? Di cos’è fatta la struttura di un romanzo? Come riuscire a dare un vero spessore a un personaggio letterario? Quali sono gli ingredienti di una scena madre che porti in visibilio il lettore senza trascinarlo nei territori della retorica? Da Gogol’ a Nabokov, da Camus a Tolstoj, da Gadda a Proust a Philip Roth, Seminario sui luoghi comuni è il più godibile ed efficace manuale di scrittura creativa che si possa immaginare perché composto proprio con «l’aiuto» dei grandi scrittori.
Con sagacia, ironia, profondità, Francesco Pacifico analizza 37 passi celebri di altrettanti giganti della letteratura attraverso i quali imparare a scrivere, ma prima ancora a entrare con più consapevolezza dentro i libri che hanno segnato il nostro immaginario. In questo modo, ad esempio, potremo prima leggere una celebre e godibilissima scena di Colazione da Tiffany, e subito dopo ci verrà chiesto di prestare attenzione a una serie di dettagli e meccanismi ai quali forse non avevamo mai fatto caso ma che costituiscono il «vero segreto» della scena in questione, il suo «dietro le quinte». Così facendo non solo familiarizzeremo come non credevamo di poter fare coi ferri del mestiere, ma proveremo un amore tutto nuovo per romanzi e racconti che ci eravamo illusi di conoscere fino in fondo.


L’esperimento è la ragione per cui ho deciso di acquistarlo: riscrivere passaggi di grandi nomi della letteratura per sviscerare su carta cosa potrebbe renderli tali. Ora, non è tanto la questione “grandi della letteratura” ad attrarmi, perché è un concetto che qui in Italia consideriamo sacro e io col sacro tendo ad avere rapporti difficili, soprattutto negli ultimi anni (smontare tutto quello che credevo sacro mi ha fatto crescere tantissimo). È più la questione di mettersi lì e riportare su carta un processo che spesso è tutto mentale, soprattutto per chi scrive, magari con la conoscenza tecnica necessaria a estrapolare e fare propri i meccanismi nascosti di un testo.

La rubrica si chiamava “Seminario sui luoghi comuni” a indicare come alla fine tutti scrivessero sempre delle stesse cose, di cose di tutti, di cose per lo più ovvie, come il denaro, la malattia, le faccende di una giornata impegnativa, i rapporti con gli altri.

Peccato che le conclusioni siano solo travestite da approfondimento. Vanno poco oltre la superficie, niente di più, tutte concentrate a sembrare brillanti più che a esserlo. E quello che si dovrebbe imparare dagli estratti riguarda più spesso i temi cari agli autori che non interessanti spunti sullo scrivere. Dimmi come quell’autore veicola i suoi temi, che armi usa per colpire proprio dove pensi volesse colpire, invece di dirmi cosa comunica, dai. Il cosa ha tanto del soggettivo, per quanto un autore si possa studiare in base ai suoi intenti e alla sua storia. Quella fra le pagine è l’interpretazione di Pacifico, con il suo retroscena culturale, la sua visione, i suoi valori, mentre la mia potrebbe essere ben diversa, così come quella di ogni singola persona che si approccia al testo. Tutte queste interpretazioni, di certo, lasciano il tempo che trovano, ma è un vizio di molti (uomini?) credere che il loro approccio sia l’Approccio, con un’universalità che fa il giro e diventa estremamente particolare, perché intere categorie di persone… just can’t relate, buddy.

Ho sperato si andasse oltre il cosa finché non ho realizzato che non sarebbe mai accaduto. E niente mi toglie dalla testa che questo approccio sia dovuto all’idea che, in fondo in fondo, la scrittura non si possa imparare ma sia un’arte mistica, che nasce in noi di suo o per volontà di un qualche dio (maschio) della parola. Nel primo capitolo quest’idea viene smentita con ironia, ma io non mi baso solo sulle intenzioni, perché le esecuzioni sono importanti.

Per concludere questa parte, a volte si intravede qualche barlume, ma non abbastanza perché questo libro valga il tempo che chiede.

Le parole sono importanti. Qualcosa ci dice che sono in rapporto troppo diretto con il nostro uso più comune e quotidiano delle cose, e quindi, anche nei più ispirati voli dell’immaginazione, il linguaggio deve avere una grammatica fondata nella realtà.

Vero motivo per cui ho interrotto la lettura, però, è la mentalità che emerge dalle scelte che vengono fatte.

Prima di tutto, donne non pervenute. C’è la Woolf, che pare venga letta senza però degnarsi di capirla (altrimenti qualche donna in più sarebbe sbucata fuori, secondo me) e basta. Una. Una sola su una quarantina.

Dalle scrittrici, dopotutto, cosa ci sarà mai da imparare? Niente, dico bene, litbros?

Eppure le donne non sono grandi assenti: sono l’oggetto (un oggetto?). Sono presenti in molti passaggi, scritte dal pugno di vari autori, in modi più o meno consoni al tempo del testo da cui i passaggi sono tratti (oggi, quindi, invecchiati non benissimo). Non che esempi virtuosi manchino in letteratura, anzi, ma qui le scelte sono ricadute su altro. Non si potevano selezionare passaggi diversi? No, meglio che agli autori venga continuamente insegnato, più o meno esplicitamente, a scrivere male le donne, e ai lettori a considerarlo normale.

Attenzione, ribadisco che non si tratta di un sessismo esplicito e ben riconoscibile quello di questo romanzo(per quanto valga fare questa distinzione), ma un sessismo nascosto appunto dietro le scelte: alla fine le autrici non ci sono e se si deve fare un esempio come il seguente, alle donne saranno attribuite doti in cucina, al resto delle persone soldi e proprietà.

Per estendere il discorso e fare un inventario di temi da romanzo, si può penare ai soldi o alla casa di proprietà dei nostri genitori; alle abilità di cuoca di nostra sorella o della nostra compagna/fidanzata/moglie; alla casa al mare di nostro cognato, da farci prestare l’estate prossima.

In più punti, poi, il disprezzo verso la letteratura di genere è evidente. Questione, questa, tutta italiana e ormai vecchissima, che puzza di intellettualoide che piange perché l’editoria va male senza rendersi conto che va male anche, in una certa parte, perché si glorifica e si pubblica in continuazione, da secoli, lo stesso libro: uomo bianco eterosessuale triste cerca se stesso e il suo ruolo nella società, storia spesso condita da uno o più interessi amorosi che riducono la donna a creatura angelica o a oggetto sessuale, di volta in volta.

Intere e vastissime categorie di romanzi, storie incredibili e autorə con capacità sbalorditive, il tutto ridotto a una distrazione solo per ignoranza.

Perciò, [Boccaccio] invece di essere il nostro vero autore nazionale, pare una sorta di scrittore di genere, una distrazione letteraria invece che la vera foce dell’immaginazione italiana, il vero esperto del nostro carattere nazionale, il tassonomo della doppia morale.

Infine, ma di non poca rilevanza, un uso nel migliore dei casi superficiale, nel peggiore ignobile, della parola. Non sottolineo quanto sia discordante in un libro del genere (e intanto lo sottolineo).

“Autistico” per descrivere qualcosa di “strano” (“vagabondaggi rigorosi, un po’ mistici, deliranti, autistici”), uno slur per parlare di un uomo gay (unico “marito” del passaggio, che quindi poteva essere benissimo definito “il marito”, invece che “il marito f****o”, ma qua bisogna essere frizzantini e irriverenti, no?).

Boh, sarò io, ma non è solo questione di offensivo – perché lo è, a discapito di quelli che piangono nel cuscino ogni notte perché “il politicamente corretto ha rovinato la mia libertà di insultare gli altri wee wee” –, ma di poco fantasioso, di poco abile, di poco attento. Fa schifo, non solo concettualmente, ma anche dal punto di vista letterario.

Siamo vecchi.

Siamo vecchi, quando parliamo di letteratura in Italia, e si sente. Gli concedo l’essere un libro che ormai ha dieci anni (quindi i contenuti ne hanno pure di più), ma invecchiare così male e così in fretta – senza contare che certe scelte facesse schifo leggerle pure dieci anni fa, anche se lo si diceva meno e a volume più basso – non è un buon segno, per un saggio che invita a imparare a scrivere (e a leggere) con i classici.

L’OUTSIDER A TUTTI I COSTI: quando essere speciali diventa banale

In un mondo ideale, tutti i protagonisti dovrebbero essere interessanti da leggere per qualche motivo. Nell’appuntaventi di oggi, parleremo di quando quel motivo è la loro personalità “diversa” o “particolare”, e di come non scrivere un personaggio fastidioso che il lettore farà fatica a digerire.

Sì, perché il rischio con un protagonista che ha un carattere, una visione del mondo e una filosofia di vita da “outsider” è quello di scrivere un personaggio che si dice speciale, che viene indicato come speciale, ma che non lo è affatto. E il lettore, invece di reagire connettendo con lui, finirà per irritarsi per la discrepanza fra ciò che viene mostrato e ciò che viene raccontato.

Spero che le mie riflessioni in questo appuntaventi possano essere utili, ma ci tengo a precisare che io stessa non sono esule dal rischio di scrivere personaggi “diversi a tutti i costi”!

“Diversi per la società” vs “diversi a tutti i costi”

Partiamo da un’esclusione: non mi riferisco a personaggi percepiti come diversi dalla società – e quindi emarginati – per la loro sessualità, per la loro etnia, per il genere, per il neurotipo, per credo religioso, o per malattie mentali oppure fisiche; ma a personaggi che incarnano il trope del “diverso” o “outsider” per caratteristiche di personalità o di pensiero.

Trovo che sia una specifica da fare, perché i personaggi che vengono etichettati come diversi dalla società trovano ostacoli esterni posti dal mondo che li circonda, e spesso vorrebbero che la diversità non venisse percepita come distanza ma come varietà… un po’ il contrario del personaggio di cui parleremo, che della sua diversità si fa a volte scudo, a volte vanto.

“Personaggi volutamente fastidiosi” vs “personaggi diversi a tutti i costi”

Vorrei sottolineare due principali ragioni per cui fare attenzione quando scriviamo questo tipo di personaggio:

  • Il personaggio si dice diverso e indica tutti gli altri come banali o stupidi per modi di pensare, comportarsi, agire… fra cui, potenzialmente, il lettore.
  • Il personaggio si dice diverso e poi è come decine e decine di persone che conosciamo, noi compresi. Invece di farci connettere con lui per le somiglianze (come un personaggio ben scritto potrebbe fare), il suo dirsi continuamente “diverso” ci appare fastidioso e immotivato.

C’è una differenza fra un personaggio che vuole risultare antipatico (molto difficile da scrivere bene al punto che il lettore voglia continuare la lettura) e un personaggio involontariamente fastidioso.
Attraverso diversi accorgimenti, una storia può comunicare esattamente quello che lo scrittore vuole, sfumature d’interpretazione a parte. Quindi la consapevolezza dell’autore sulla costruzione del personaggio gioca un ruolo fondamentale e arriverà al pubblico, che sarà più incline ad apprezzare il primo tipo di personaggio e a rifiutare il secondo.
Ricordiamoci che i lettori non sono stupidi e colgono dalla pagina anche i sottotesti e, di conseguenza, le involontarietà.

Siamo davvero così speciali? Una riflessione personale

Parentesi personalissima: tutti crediamo di essere speciali, ma pochi di noi lo sono davvero. E il bello è anche questo: abbracciare che siamo umani, che abbiamo le nostre particolarità, certo, ma che questo non ci rende unici sulla faccia della terra. Va bene così. Chi ci amerà o ammirerà lo farà per come ci comportiamo e per ciò in cui crediamo, non per le nostre particolarità e basta.
Anzi, credere di essere ammirabili solo perché speciali tende a produrre individui con grossi difetti di carattere, che per di più si rifiutano di migliorare (non la ricetta perfetta per un personaggio, insomma).

Idealmente, vogliamo che il lettore ami il nostro personaggio per chi è, per cosa fa e per ciò in cui crede, non solo perché “diverso dagli altri”. I personaggi eccentrici, i “diversi a tutti i costi”, gli incompresi che sono i primi a non volersi far comprendere tendono a stancare in fretta e, se scritti senza consapevolezza di ciò che si sta facendo, a risultare abbastanza bidimensionali.

Dieci suggerimenti per evitare questo tipo di personaggio

Come evitare il “diverso” che crede di esserlo ma non lo è, e come scrivere personaggi diversi che siano interessanti da leggere, quindi?
Ecco alcuni punti che sono stati utili a me, in passato (quando quello che scrivevo era popolato da questi irritanti individui):

  1. Non rendere tutti i personaggi secondari delle macchiette che esistono solo per calcare la differenza fra il protagonista e il mondo.
    Se popolate il mondo di cartonati, ovviamente il protagonista risulterà diverso (e migliore) degli altri, ma i lettori più attenti si accorgeranno del trucco! Questo capita soprattutto con antagonisti di vario livello: bulli dalla personalità di cartongesso, familiari ostili che sanno solo ringhiare e dire che il protagonista è brutto e cattivo, ecc.
  2. Non creare personaggi secondari che continuano a sottolineare quanto il protaognista sia unico (magari dicendosi anche loro unici, così che si possa essere unici in due).
    Interessi amorosi, amici e amiche, persone vicine di qualsiasi tipo che esistono al solo scopo di dire al personaggio principale “ma quanto sei diverso e speciale”. Sono interessanti da leggere? No. Diamogli una personalità o poniamo fine alle loro esistenze inutili.
  3. Se la protagonista è una ragazza o è di genere femminile in generale, state alla larga dal caratterizzarla come “not like other girls”.
    Leggere invece di truccarsi non è rivoluzionario e, pensate un po’, è pure possibile fare entrambe le cose. Non interessarsi alla moda, non essere estroverse, non essere atletiche, non essere magre, non essere sessualmente attive non sono tratti unici. L’universo femminile è composto da persone; sì, proprio persone fatte e finite, varie, tridimensionali!
    Se proprio si vuole fare della critica sociale, che la si faccia consapevolmente e che si identifichi il vero colpevole di certi stereotipi. Il problema non sono le altre donne in generale o le donne che rientrano in certi canoni!
    Come evitare quindi di cadere in questa trappola sessista? Beh, per esempio inserendo altri personaggi femminili ben sviluppati e tridimensionali, oltre a rendere tridimensionale la protagonista prima di tutto.
    (Questo punto meriterebbe un discorso lunghissimo a parte, che forse un giorno farò).
  4. Non calcare la mano sulla diversità caratteriale del protagonista.
    Se è davvero diverso, il lettore lo percepirà e non ci sarà un bisogno continuo di farlo dire e pensare al personaggio, o farlo ribadire dagli altri riga dopo riga, capitolo dopo capitolo.
    Ma il problema di questi personaggi sta proprio qui: tolte le parole, siamo sicuri che ci sia qualcosa di speciale da mostrare?
  5. Non caratterizzare la sua personalità solo in base alle sue passioni e ai suoi passatempi “particolari”.
    Uno le virgolette (di cui abuso, lo so, lo so), perché spesso le passioni di questi personaggi vorrebbero essere speciali, ma sono molto diffuse: la passione per la lettura, l’essere geek, disegnare sconosciuti, band musicali e film di nicchia, immaginare le vite dei passanti e così via. Anche solo a scrivere questa lista mi sono venute in mente manciate di personaggi che fanno queste cose.
    Insomma, ci dev’essere altro nel vostro protagonista oltre a un hobby frizzantino (che non è sbagliato in sé, ma è sbagliato quando viene indicato come ciò che rende il protagonista diverso dagli altri).
  6. Stratificare.
    L’essere umano è fatto di contraddizioni (purtroppo per noi?) A volte un personaggio che si distanzia dal mondo è solo un personaggio che dal mondo è stato rifiutato, ma vorrebbe disperatamente farne parte. Un personaggio che se ne frega di quello che pensano gli altri può essere un personaggio che in realtà ha bisogno di attenzione, anche quando è negativa. Un personaggio cinico usa spesso questo approccio alla vita per celare un idealismo ferito.
    Insomma, se proprio volete scrivere questo “outsider”, quantomeno che sia tridimensionale, abbia dietro una costruzione solida, sia fatto di sfumature.
  7. Far evolvere.
    A volte un personaggio che si dice speciale, che fa cose speciali e pensa cose speciali può essere digeribile se ha un arco di evoluzione per cui capisce di essere come molti altri, e che questo non lo rende meno valido o meno interessante. Oppure può rendersi conto che è causa del suo stesso male e decidere di lavorare su se stesso. Oppure la risoluzione di un problema (il superamento di un ostacolo) può cambiare la sua prospettiva sul mondo.
    Insomma, la premessa è chiara, questo personaggio è specialissimo, d’accordo… e poi cosa gli succede? Di opzioni ce ne sono a dozzine, basta pensarci!
  8. Non romanticizzare malattie mentali o fisiche.
    Non inserirle solo perché “interessanti” e poi fermarsi lì. C’è il rischio di raccontarle con superficialità, ingenuità o disinformazione, e questo approccio arriverà al lettore, soprattutto se quel lettore sta vivendo sulla sua pelle quello di cui scrivete (ricordatevi che il vostro pubblico è idealmente vario).
    Come evitarlo, quindi? Informandosi, chiedendo a chi vive quotidianamente certe esperienze o ai professionisti che le hanno studiate.
    E, se raccontate di una vostra malattia o di un vostro disagio, fate attenzione al rischio di farne uno strumento (per giustificare oppure incolpare il protagonista in tutto quello che fa) o di idealizzarlo. Ma questi sono rischi del self-insertion in generale, di cui parlerò alla fine di questo elenco.
  9. Non raccontare il personaggio solo attraverso ciò che non è.
    “Non è popolare, non è come gli altri, non è estroverso, non è affascinante”. Se usata con moderazione, la comparazione può essere utile a descrivere qualcuno, ma abusata rende il personaggio vuoto.
    Anche perché il mondo non è fatto solo di opposti, e il fatto che alla vostra protagonista non piaccia andare in discoteca come a sua cugina, non significa che lei passi tutto il suo tempo sola e non le piaccia, per esempio, andare al pub con gli amici per una birra.
  10. Non aver paura di scrivere un personaggio “noioso” a cui però accadono cose speciali. Alla fine ne uscirà cambiato e il suo essere speciale sarà stato visto dal lettore, invece che spiegato.

Self-insertion, una delle cause principali del personaggio “diverso a tutti i costi”

Chiudiamo con la parte più scomoda di quest’analisi: il self-insertion.
Ebbene sì, buona parte dei personaggi “diversi” che ho descritto sono frutto di questa tecnica: lo scrittore si inserisce in modi più o meno sottili in un personaggio del suo libro, spesso con le sembianze del protagonista. Non sto parlando, ovviamente, di un’autobiografia esplicita, né di come tutto ciò che scriviamo ci riflette, in qualche modo; sto parlando di una vera e propria proiezione di sé nel protagonista.
Ora, a prescindere dalla mia personale avversione per questa pratica – preferisco di gran lunga che l’autore sia sparso in giro per la storia e per i personaggi; che si trovi fra le righe, insomma – non è un crimine in sé. Quanti scrittori alcolisti con il blocco ha scritto Stephen King? Abbastanza. Le storie piacciono lo stesso? Sì.

Il problema nasce dal fatto che non siamo oggettivi con noi stessi e non potremo mai esserlo, quindi non lo saremo mai fino in fondo con ciò che facciamo fare e dire al protagonista. L’immedesimazione può essere un bene, ma non a scapito di uno sguardo d’insieme, di un punto di vista esterno, soprattutto quando quel personaggio lo strutturiamo e studiamo, che sia in corso d’opera o in fase di pianificazione.

Insomma, il self-insertion va fatto responsabilmente, ma è molto difficile farlo in questo modo, proprio per il nostro legame con il personaggio. Chi si vede davvero tutti i difetti? E tutti i pregi? Chi riesce a non giustificare mai quello che fa? O a non accusarsi in modo esagerato?
E sì, tutte queste cose si possono immaginare, ma siamo sicuri di riuscire ad attribuirci la giusta quantità di caratteristiche positive e negative? Non lo so, io non ne sono sicura, ma aspetto i pareri di chi leggerà questo appuntaventi!

Conclusione

Ci sono tanti modi per rendere interessante un protagonista, ma – come per le persone vere – sono gli altri (in questo caso, i lettori) a trarre questa conclusione. Se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, concorderanno con noi nel trovare il protagonista interessante; se dobbiamo imboccargli quest’idea a forza, probabilmente non siamo sicuri che il messaggio sia in grado di arrivare da sé e, di conseguenza, è possibile che il nostro lavoro non sia stato fatto per benino.

Quante volte alziamo gli occhi al cielo quando sentiamo qualcuno dire “eh, ma io sono stran*” o “faccio questa cosa perché sono particolare” e frasi simili? Ecco, immaginiamoci il lettore farlo ogni volta che abbiamo la tentazione di dire o sottolineare che il nostro personaggio è diverso dagli altri.

Forse, con quest’immagine a tormentarci, riusciremo a creare un personaggio che sia davvero speciale!

Perché scrivi? Domande e risposte sull’atto sovversivo di creare (e sopravvivere)

Questo AppuntaVenti non parte da una tesi, ma da una lettura. Durante questo novembre dedicato alla scrittura sto leggendo “In punta di penna. Riflessioni sull’arte della narrativa” curato da Blythe. Nella raccolta, alcuni autori americani si raccontano rispondendo alla domanda “Perché scrivi?”, di volta in volta in modo analitico o nostalgico, personale o tecnico.

Leggere questo libretto edito dalla Minimum Fax, la cui edizione originale risale al finire degli anni ’90, mi ha fatto riflettere sul motivo per cui le persone scrivono e poi, più a fondo, sul motivo per cui io lo faccio.

La prima risposta, la più banale e istintiva anche se non meno vera, è: perché non posso farne a meno. Quando si cerca di farlo sul serio, scrivere non è facile, e per continuare serve un’ostinazione tutta speciale. Lo stesso motivo per cui ci svegliamo, respiriamo, mangiamo. Non possiamo farne a meno e ci siamo intestarditi sull’idea di vivere. Ecco, scrivere, per me, funziona proprio così: tutt’attorno il mondo mi spinge a non farlo e io, banalmente, devo.

Questo non mi rende speciale. Non c’è del genio scapigliato in me, niente di così romantico. Ogni scrittore, da quanto ne so, funziona con questo stesso meccanismo alla base. Ecco, se c’è un aspetto interessante in questa raccolta, sono le connessioni fra autori diversissimi fra loro e il modo in cui queste connessioni hanno risuonato in me mentre leggevo. Sembra quasi esista una motivazione prima, originaria, per cui tutti noi raccontiamo storie. Oltre all’egocentrismo, ovviamente.
Scriviamo per vivere.

A questa base si aggiungono le motivazioni personali, quelle di cui non siamo del tutto consapevoli o lo siamo solo a posteriori. Per me, per esempio, scrivere esorcizza la violenza, la paura del dolore – emotivo e fisico –, il timore dell’abbandono e quello molto più umano della morte. Raccontare storie ha sempre avuto quest’effetto su di me, fin da bambina. Le mie bambole si lanciavano nel vuoto dall’armadio, venivano trovate in vicoli abbandonati dietro il letto, con gli arti contorti e i capelli spettinati; litigavano, urlavano, si amavano e si lasciavano con un abbandono degno di una soap opera.

Ed è dopo quest’istinto di sopravvivenza che arriva il lavoro manuale, la parte artigianale in cui ci si sporca le mani – o la mente – e che mi rende ogni parola un piccolo inferno su misura. Con tutti gli strumenti che ho costruito nel tempo e che continuerò a costruire, scavo e spolvero e scalfisco per arrivare a trasmettere una specifica emozione per cui esiste una specifica stringa di parole. Un tempo, quando ancora non avevo vivisezionato altri autori e iniziato a studiare per bene, era tutto più facile: potevo scrivere migliaia di parole in una serata e rileggere dopo mesi per ritrovare le stesse grezze emozioni. Ora è più complesso. Emozionare resta fondamentale, per me, ma c’è dell’altro. Mi ossessiona l’idea che il prodotto finale sia stratificato, che possa risucchiare a fondo. Che infesti il lettore mentre legge e, nei miei sogni più ambiziosi, anche dopo. Come se gli tenessi la testa e lo costringessi a guardare qualcosa di macabro e ripugnante.
“Guarda cosa siamo in grado di fare” gli dico.
Non so se ci sono ancora arrivata. Né so se sia possibile arrivare da qualche parte per davvero. So solo che voglio essere soddisfatta di quello che scrivo e le mie pretese aumentano più mi informo, leggo, conosco.

Durante la stesura, però, non penso a una moltitudine di facce chinate sulle pagine del libro che sto scrivendo. Un po’ perché pensare a un pubblico è irrealistico, vista la quantità di offerta che popola il mondo dei libri; un po’ perché tutte le mie energie sono rivolte a lavorare sodo sulla storia, e pensare al futuro di quello che sto facendo rischia di paralizzarmi. Se penso a qualcuno, è me stessa. Io sono il lettore della storia che scrivo, io la sto scoprendo, io sto conoscendo i personaggi e mi sto costringendo a guardare come si sabotano, come le loro relazioni si sfilacciano e si spezzano.
Perché scrivo?
Perché voglio leggere la storia che sto scrivendo.

Ed è stata una vera sorpresa scoprire che esistono persone, là fuori, con il mio stesso morboso interesse.

La verità è che le storie mi hanno salvata. Un’altra banalità. Se non avessi immaginato di essere altrove, di essere qualcun altro, forse sarei comunque viva ma non sarei io. Non sarei lucida e funzionale, non sarei tutta intera nonostante le ammaccature. Ho iniziato a farlo leggendo, poi non mi è più bastato. Dovevo inventare storie su misura, costruirmele addosso come un’armatura e lasciare che mi proteggessero.

Non serve ricevere chissà quali colpi dalla vita perché l’immaginazione ci salvi, però.
Serve una sensibilità. Serve essere così esposti da sentire in profondità perfino quello che ci sfiora. A volte tutto questo arriva dai traumi, senza dubbio, altre volte si è stimolati fin da piccoli o sarà un dono innato legato all’intelligenza e all’apertura mentale, alla capacità di accogliere gli altri dentro di sé, all’empatia. Però è questo “qualcosa” che permette di creare le storie che mi piacciono, quelle che leggo fino a incastrarmele dentro per riparare chi sono.
Quelle che provo a scrivere.
Ora, nel mio caso specifico, non posso giudicare la qualità delle storie che produco. Non funziona così, non ci si può guardare da dentro e da fuori allo stesso tempo. So solo quando sono soddisfatta di quello che scrivo e quando no, e questo è quanto. E sono soddisfatta quando scavo e scavo, strato dopo strato, fino a costringermi a fissare cosa si nasconde sul fondo. Fino a quando posso dirmi “guarda cosa siamo in grado di fare”.

Fino a qui, sembra quasi che io subisca quello che scrivo invece di controllarlo, ma è un gioco di ruolo. Il controllo è mio, lo spazio in cui esercito la violenza, la distruzione e la morte è uno spazio protetto, posso dire “basta” quando voglio, chiudere il file, prendermi una pausa. Un altro dei motivi per cui scrivo è che, per quanto possa fare male quando scava troppo a fondo, scrivere è sicuro. Posso perfino decidere la distanza da cui guardare, usare una persona o un tempo verbale che mettano me da una parte e tutto quello che succede dall’altra.
Scrivo perché quando scrivo sono in controllo.

La verità è che si tratta di una domanda complessa.
Perché scriviamo?
È una domanda esistenziale se la si guarda sotto una luce, oppure è un quesito pratico se si analizza da un’altra prospettiva. Le risposte sono tante quante le persone che scrivono o forse una sola. A volte la risposta dipende da chi siamo stati e da chi vogliamo essere, altre volte è legata al potere dell’immaginazione e all’atto sovversivo di creare in un mondo in cui tutto cambia ma nulla può essere davvero creato o distrutto. Un mondo, il nostro, che dà valore al materiale e al pratico, ma che è pieno di persone che hanno bisogno di creare per sopravvivere.

Io scrivo perché niente mi fa sentire come scrivere – viva, protetta, e orribilmente vicino all’oscurità umana senza il rischio di esserne travolta.

ORIGINALITÀ E BANALITÀ: fra scelte e competenze

“QUESTO ROMANZO NON È ORIGINALE”
Con molta più diplomazia e capacità retorica, questa frase si può trovare ovunque, fra le recensioni di Goodreads e Amazon. La risposta automatica – spesso da parte di chi ha il cattivo gusto di difendersi dalle recensioni negative – è che non esistono storie originali.
Nell’articoletto di oggi vorrei spiegare perché non sono d’accordo né con la critica, né con la risposta. Come sempre, esporrò la mia personale opinione e l’articolo sarà una scusa per ricordare anche a me stessa alcuni di questi punti.

L’ORIGINALITÀ ESISTE
Se si cerca sul web o si leggono manuali di scrittura creativa (soprattutto se scritti oltreoceano, dove sembrano amare le liste numerate) si troveranno svariate trame di base: c’è chi ne identifica sette, chi venti, chi altre quantità arbitrarie; c’è perfino chi vede nell’archetipo del viaggio dell’eroe la forma base di tutte le storie. In fondo, ridotte all’osso, tutte le narrazioni riguardano un personaggio, un desiderio, degli ostacoli (esterni o interni).
Quindi niente è davvero originale?
Non credo. Se una storia fosse fatta di sola trama, se un’idea si esaurisse in se stessa, allora sì. Ma una storia e un’idea hanno senso solo quando sono raccontate. Anche se si dovesse arrivare a un risultato scontato riducendo un’opera intera a una sola frase, quella singola frase non varrà mai tutta la storia.
In una narrazione, infatti, ha un peso non indifferente scegliere come esporre la storia, quali vie prendere per arrivare al lettore, perfino con un’idea semplice e dall’apparenza scontata. A rendere interessante un’idea che è già circolata, poi, c’è di certo anche il chi: lo sguardo di chi racconta la storia, il suo punto di vista, la sua specifica sensibilità. Per non parlare del momento in cui viene scritta e diffusa, del perché si è deciso di raccontarla, del mezzo attraverso cui viene fruita, e tanti altri dettagli che possono – a seconda delle circostanze – rendere interessante l’idea più ovvia.
Scrivere una groundbreaking novel non è semplice e non tutti hanno la folgorazione che porta a un romanzo in grado di riscrivere i confini della letteratura (sì, strano ma vero, non tutti sono Joyce). Quello che conta davvero, quindi, non è essere originali a ogni costo, ma evitare di essere banali.

COSA RENDE UNA STORIA BANALE?
Potrebbe sembrare – e in certi contesti è così – che l’originalità e la banalità siano poli opposti.
Se è vero che una storia originale non potrà mai essere banale e viceversa, però, non è sempre vero che una storia sarà banale se non è originale. Mi spiego: l’originalità assoluta è propria di pochi, ma non per questo tutto il resto della produzione letteraria mondiale è scontata. Proprio per quello che ho scritto prima, le storie possono essere interessanti non tanto per la loro idea di base, quanto per come vengono esposte, per il punto di vista particolare che quell’autore ha sul mondo, per le tecniche usate, per il modo in cui si tratteggia la psiche del protagonista, e così via.
Un romanzo o un racconto sono scontati quando non sappiamo usare le tecniche narrative in modo adeguato, quando non riusciamo a sfruttare la costruzione dei personaggi a nostro vantaggio per interessare il lettore a seguirli durante il loro viaggio, quando tutto l’universo che una storia può essere si riduce a una pila di cliché.
Specifico: utilizzare i cliché che ci piacciono non è un peccato mortale, ma ci rende il lavoro più complicato. Per fare in modo che la nostra storia non si confonda fra altre che utilizzano la stessa identica dinamica, dobbiamo conoscere gli strumenti tecnici della scrittura e utilizzarli per fare in modo che sia interessante leggere tutto quello che gira attorno ai cliché da noi tanto amati.

IL PROCESSO CREATIVO
A volte ho letto di persone che definivano i propri lavori assolutamente originali, non influenzati da letture, visioni, altri prodotti creativi. Credo che questa percezione di se stessi e di ciò che si produce manchi di una certa consapevolezza. Sono infatti convinta che le persone creative siano spugne in grado di assorbire non solo dal mondo che le circonda, ma anche dalla fruizione di altri prodotti creativi. Non è per forza un percorso voluto (da questo, forse, deriva la mancanza di consapevolezza), ma le idee tendono a spuntare fuori rimescolando gli stimoli ricevuti.
A volte esce qualcosa di incredibilmente originale, altre volte esce qualcosa di interessante.
Altre volte ancora il risultato sarà banale. Magari perché ci è piaciuta molto un’idea e vorremmo averla scritta noi, altre volte perché pecchiamo di superbia e pensiamo che fra le nostre mani quell’idea possa avere una vita migliore, altre ancora dobbiamo allenare di più la nostra immaginazione. Insomma le ricette per il disastro sono infinite, in realtà, e non sto neanche parlando dei casi di plagio spudorati (quelli sono un discorso a parte che con il processo creativo non ha nulla a che fare).

IL PUBBLICO
Concentrarsi troppo su che pubblico vogliamo è una delle vie che potrebbe portarci alla banalità (sempre parlando per generalizzazioni), ed è più rischioso che guardarsi attorno o lasciarsi ispirare dai prodotti creativi altrui.
Questi, infatti, sono pensieri che sarebbe bene avere a prodotto finito. Non completo, ma finito. Dopo la prima bozza, quando è il momento dei primi – grandi – aggiustamenti, ci possiamo chiedere se la storia ha un suo pubblico dal momento che, nel migliore dei casi, ci toccherà renderla vendibile. Farlo prima potrebbe comportare un caso di prodotto-fotocopia, creato per essere consumato piuttosto che per sfogare la creatività: vediamo un pubblico e decidiamo di scrivere qualcosa indirizzato proprio a lui, creato su misura per quella domanda. È una scelta remunerativa, nessuno lo mette in dubbio, ma non è una scelta creativa. Solitamente quel pubblico consuma prodotti in modo quasi bulimico, andando sul sicuro nei suoi acquisti perché quella storia l’ha già letta in altre versioni e sa che gli piace. Chiuso il libro, spento il reader, se ne dimenticherà e passerà alla successiva.
Se ricorderà una storia, sarà quella che è stata creata così per istinto personale dell’autore, non quella creata così per il pubblico, per le vendite, perché il nostro nome giri fra i lettori. Non sostengo ci siano più storie proprie della prima categoria e meno storie scritte spontaneamente per lo stesso pubblico; credo solo che nelle prime si percepirà meno originalità che nelle seconde, per quanto la sostanza – sempre se ridotta all’osso – sia la stessa.

IL GENERE
Stesso discorso per il genere. “Voglio scrivere un romanzo fantasy” oppure “voglio scrivere un romance” non sono pensieri sbagliati di per sé, ma non sono necessari alla creazione. Meglio abbandonarsi al processo creativo (che sia pianificato o spontaneo) e pensare a prodotto finito – come per il pubblico – all’etichetta da appiccicarci sopra. Se partiamo con un’idea così rigida di quello che vogliamo, rischiamo di intrappolarci nelle regole dei generi, di seguirle come dogmi invece che come indicazioni, e di diventare banali per non rischiare di trasgredire e, magari, non piacere ai lettori di quel genere.
Certo, vale sempre la regola che tutto può essere reso interessante con il giusto approccio, ma ha senso imporsi limiti quando non sono necessari a scrivere una bella storia?

LE FANFICTION
Le fanfiction sono un esempio di storie interessanti anche se non originali per forza di definizione. Non vale per tutte le fanfiction, visto che molte sono i prodotti-fotocopia di cui ho scritto sopra (che è il motivo per cui certa produzione con standard qualitativi tipici della gratuità da fanfiction non dovrebbe essere pagato, a mio parere), ma quelle ben scritte sono un esercizio di creatività. Per trovare qualcuno che legga le nostre fanfiction, infatti, dobbiamo rendere interessante qualcosa di già conosciuto al lettore. Come? Incredibilmente (per chi non conosce questo universo, almeno), utilizzando gli strumenti della scrittura. La forza delle fanfiction sta nella capacità di utilizzare stile, punti di vista, analisi dei personaggi e tecniche narrative per ridare forza a qualcosa di già esistente. Non solo: i tag e gli avvertimenti non sono altro che i cliché propri della scrittura in generale (le famose trame di base), ma rielaborati e rivisti nella singola fanfiction avranno il potere di renderla interessante.

IL PREGIO DELL’ORIGINALITÀ, IL PROBLEMA DELLA BANALITÀ
Uno scritto creativo è come una torta. Che è una similitudine scontata (tanto per restare in tema), ma rende l’idea.
L’originalità è una decorazione sulla nostra torta, una glassa: un di più che può rendere il dolce delizioso e che sarà la parte preferita di molti, ma che non è strutturale.
Gli strumenti della scrittura, le tecniche narrative, sono invece la base, il pan di spagna. Difficile che da soli siano gustosi (per quanto ad alcuni piacciano), ma sono necessari, tengono tutto in piedi e danno una forma riconoscibile alla nostra torta. La banalità sta lì, quando non abbiamo un buon impasto del pan di spagna, quando le nostre difficoltà in cucina si ripercuotono sulla parte fondante della torta.
Per recensire criticamente (che poi dovrebbe essere un po’ l’unico modo di recensire, quello fatto con sguardo critico), la differenza è fondamentale. Così come è fondamentale per comprendere una recensione negativa che tira in ballo l’originalità.

CONCLUSIONE
Quando si critica un romanzo per mancanza di originalità si sta dicendo, in realtà, che è banale. L’originalità dell’idea non è propria di tutti e sarà un valore aggiunto per la storia. La banalità, invece, è un problema strutturale, di fondamenta, di incapacità nel maneggiare le tecniche. Si può essere interessanti senza essere originali, ma per curare la banalità bisogna scavare molto più a fondo, ripensare il nostro rapporto con la tecnica e con il processo creativo. Non tanto perché raccogliamo gli stimoli esterni – che trovo facciano parte della creatività – quanto perché li subiamo invece che rimescolarli e sfruttarli. Certo, scegliere di vendere, di partire da un pubblico alla ricerca di una specifica storia, da un genere entro cui incasellarsi, da percorsi fatti “al contrario”, non è sbagliato di per sé. Il rischio, però, è che qualcuno possa trovare la nostra storia banale e scriverci “questo romanzo non è originale”.

INTRATTENIMENTO E LETTERATURA: uno sterile dibattito (italiano)

“La letteratura d’intrattenimento non è letteratura”
Se gli intellettuali e i critici marciassero per le strade, questa scritta sarebbe su almeno dieci cartelli, e far passare questo messaggio sarebbe l’obiettivo dell’intera protesta. Perché questo è un dibattito vecchio quanto la scrittura che, soprattutto in Italia – dove la tradizione della letteratura di genere è meno legittimata, ed è storicamente forte la produzione di narrativa generale – non smette mai di auto-alimentarsi.
“Intrattenimento” diventa una parola sporca, legata al soddisfare un prurito estemporaneo come potrebbe fare la televisione (anche qui, perché in Italia abbiamo iniziato a sviluppare un senso di qualità del prodotto televisivo solo di recente, dato che prima la qualità era propria solo di un certo tipo di cinema impegnato). Insomma, per nessuna ragione un concetto da avvicinare all’arte.
Una visione semplicistica e superficiale che non dovrebbe appartenere agli ambienti intellettuali – se proprio per l’intelletto questi ambienti si distinguono –, ma che esiste e di cui vorrei parlare in questo articolo.

Intrattenere
Partiamo dalle ovvietà: la narrativa generale non esclude l’intrattenimento, e viceversa. Se smettessimo di pensare a compartimenti stagni, mettendo qui il bello e lì il brutto, e apprezzassimo le sfumature senza la paranoia di perdere le definizioni (e quindi le nostre certezze), la vita sarebbe molto più semplice. Perché, diciamolo, far rientrare la vita nelle nostre costrizioni è molto più complicato che accettarla così com’è. Ma sto filosofeggiando. Il punto è questo: nella “vera letteratura” l’intrattenimento è sempre stato presente, perché l’arte tutta è potenzialità di fruizione. Altrimenti non esisterebbe produzione letteraria, cinematografica, figurativa, e tutte le opere se ne starebbero ad ammuffire in cassetti e soffitte. Un pubblico è previsto, è preso in considerazione, e uno degli scopi è sempre tenerlo lì, a fruire di qualcosa.
Intrattenere, quindi, come tenere lì, tenere occupati, senza limitarsi all’accezione del termine che associamo al divertimento.

La “vera letteratura”
Molti di quelli che oggi consideriamo autori di “vera letteratura” sono stati, a loro tempo, qualcosa di molto simile all’intrattenitore: mentre la letteratura andava sdoganandosi e non era più materiale per soli intellettuali, fioccavano i romanzi d’appendice. Romanzi che, ad oggi, sono grandi classici della letteratura inglese, francese, russa.
Qual è la differenza?
Perché una differenza c’è, è ovvio.
Dickens, Flaubert, Dostoevskij e tutti i loro simpatici amici sono stati in grado di resistere alla prova del tempo invece di essere dimenticati, perché le loro opere hanno qualcosa di universale e profondamente umano che continuerà a parlare ai lettori anche in futuro. Non importa se stiamo cercando di portare a casa la pagnotta (o di pagarci il vizietto del gioco, vero Fëdor?), l’importante è metterci l’anima, puntare al meglio che si possa creare, tenere a mente che anche la più banale esperienza umana può essere narrata in modo che parli all’anima. Intrattenere, quindi, una parte più profonda di noi che va oltre la soddisfazione di una voglia superficiale.

L’importanza (ignorata) della qualità
A questo punto può sorgere spontaneo chiedersi come spingersi più a fondo e se sia davvero necessario farlo.
Sulla seconda domanda, la mia risposta è semplice: sì. L’obiettivo non dovrebbe mai essere, scrivendo, “voglio che la mia storia sia dimenticabile”. Le autrici e gli autori che conosco, quelli di cui posso sperimentare indirettamente il processo creativo, non si pongono il problema del loro pubblico quando ideano una storia, ma non sputano sulla carta tutto quello che esce dal loro cervello senza selezionare o ragionare e, in seguito, rivedere e sistemare. Questo significa che il loro obiettivo è – anche involontariamente – quello di fare bene il loro mestiere, in modo da essere letti e apprezzati (per quanto possibile, com’è sempre ovvio quando si parla di processi creativi e percezione da parte del pubblico).
Ricordati, quindi.
Con questa predisposizione mentale, si risponde anche alla seconda domanda: perfino nella dinamica più scontata (mi si passi il termine denigratorio) – ad esempio “lui e lei si incontrano” –, se esploriamo i personaggi, le circostanze, gli ostacoli e i motivi delle scelte, possiamo trovare spunti per far sorgere domande, riflessioni e pensieri involontari. Non è necessario filosofeggiare e dispensare grandi verità, quando si scrive, ma fare bene il proprio compito di scrittori. Il resto viene da sé.
Pare ovvio, seguendo questo ragionamento, che la vera distinzione non dovrebbe riguardare la letteratura di genere e la narrativa generale, ma la qualità del singolo libro e le capacità del singolo autore. A mio parere si dibatte mancando il punto per l’ennesima volta.

Scrivere per scrivere, non scrivere per vendere
Tutta l’arte è commercio. Bisogna scendere a patti con questa materialistica verità.
Però, come accennato sopra, a mio parere non è vendere lo scopo con cui l’arte dovrebbe nascere. La narrativa (di genere o generale che sia), dovrebbe partire dal desiderio di scrivere, di raccontare al meglio una storia, e porsi il problema del pubblico solo in modo collaterale.
Quando commerciare prevale sul creare, si dà fondamento al pregiudizio che affligge la narrativa di genere: la sua scarsa qualità.
Se il nostro obiettivo è vendere, infatti, tenderemo a restare entro le regole del genere di riferimento e a rispettarne i paradigmi, in modo da proporre qualcosa di familiare e facile da acquistare. Se siamo abituati a comprare carote arancioni, difficilmente compreremo carote viola, per intenderci; se vendiamo carote, quindi, meglio produrle arancioni e farla semplice.
Il problema è che non stiamo facendo bene il nostro mestiere di scrittore (al contrario di chi vende carote, che può venderle un po’ come gli pare). Anzi, non lo stiamo facendo affatto.
Evitare i cliché, imparare le regole e infrangerle, raccontare le banalità della vita con uno sguardo diverso, sono le caratteristiche che faranno ricordare a qualcuno la nostra storia, che la faranno amare, che sia una storia d’amore, di pirati, di serial killer poco importa.

Un invito per chi legge
Questa piccola analisi – che come ogni venti del mese nasce dalla voglia di chiacchierare di un tema specifico e, magari, conoscere le opinioni altrui in merito – non ha lo scopo di sminuire chi legge scritti di scarsa qualità per la voglia divertirsi un paio d’ore e poi passare oltre. Io vivo secondo il motto che si può leggere ciò che si vuole, senza eccezioni.
Vorrei solo far notare, però, come credo si possa ottenere questo e qualcosa in più cercando meglio e non accontentandosi. Leggere un thriller, un giallo, un romance non significa farsi andare bene una pessima qualità perché “questo passa il convento”. Di opere che possono intrattenere e stimolare allo stesso tempo, infatti, il mondo dei libri è pieno. Siamo solo pigri. Siamo solo bulimici. Siamo solo fermamente convinti che si debbano leggere “Guerra e pace” oppure “Cinquanta sfumature”, o l’uno o l’altro, o l’opera letteraria per eccellenza o l’intrattenimento di qualità infima che solletica una voglia estemporanea.
Non è così.
Anzi, questo lo pensa chi è d’accordo con gli intellettuali di cui ho parlato in apertura, anche se lo fa senza la consapevolezza di farlo ed è schierato dalla parte bistrattata (quella dell’intrattenimento, della letteratura di genere). In questo specifico caso, schierarsi significa credere in questa contrapposizione e rinforzarla.

Un invito per chi analizza
Se chi legge ha piena libertà decisionale su quello che legge, meno libertà dovrebbero avere i critici, gli intellettuali, i giornalisti letterari. Il pregiudizio, lo snobismo e l’elitarismo non dovrebbero essere accettati come la norma. Anche questi sono un accontentarsi, infatti, un farsi andare bene l’opinione comunemente accettata senza porsi davvero delle domande, senza scavare più a fondo. Si sta facendo male il proprio mestiere, esattamente come lo scrittore che si accontenta di scrivere opere mediocri allo scopo di vendere. Denigrare la letteratura di genere per essere accettati come competenti non ci rende davvero tali. I libri sono un modo per creare connessioni fra esseri umani (come tutta l’arte), accomunandoli attraverso le storie che leggono e le emozioni che queste storie suscitano; non un modo per creare distanze e differenze o, peggio, umiliazioni.
Vorrei leggere di intellettuali in grado di sfidare l’opinione diffusa nei loro ambienti e dar vita a dubbi e dibattiti. Vorrei un mondo dove parlare di letteratura non significhi fare copia e incolla di visioni vecchie di decenni che forse è arrivato il momento di mettere alla prova.

Un invito per chi scrive
A chi scrive, invece, va la mia chiusura. Il bisogno di vendere c’è ed è innegabile, perché vivere di scrittura è il sogno di (quasi) tutte le persone che scrivono, ma non bisogna dimenticare che lo avevano anche molti dei grandi nomi del passato e che questo non gli ha impedito di svolgere bene il loro lavoro. Alcuni sono morti poveri, certo, e la qualità delle loro opere è stata riconosciuta solo dopo, altri sono riusciti a sopravvivere e ottenere la fama. La qualità, però, è il denominatore comune, il fondamento, il punto di partenza. Se ce ne disinteressiamo, stiamo facendo del male a un mondo che non ha proprio bisogno che gli vengano inferti altri colpi; un universo – quello della letteratura – che ha già tante difficoltà, senza bisogno che venga alimentato il pregiudizio su una sua buona parte.
Scriviamo di quello che più ci piace, ma facciamolo bene.

NANOWRIMO 2018

Ci risiamo, è novembre, e come ogni anno i miei amici che non hanno a che fare con la scrittura si chiedono di cosa diavolo io stia continuando a parlare sui social.
Sì, perché novembre è il mese del NaNoWriMo, il National Novel Writing Month: un evento lungo trenta giorni e aperto a tutti in cui chi scrive si pone l’obiettivo di buttare su carta cinquantamila parole (possibilmente la bozza base di un romanzo).
Questo sarà il mio terzo anno e, assieme alla sfida principale novembrina, mi sono impegnata in quasi tutti i campeggi virtuali associati. Due volte all’anno, infatti, ci si sfida di nuovo, questa volta stabilendo il proprio obiettivo personale, immaginando di ritirarsi in campeggio per dedicarsi solo e soltanto alla scrittura.

Certo, come ho già scritto negli articoli passati (qui e qui) il NaNoWriMo non è per tutti, mentre i campeggi – essendo più elastici – possono adattarsi a molte più persone (per esempio, l’obiettivo personale di un CampNaNoWriMo può essere “scrivere un’ora al giorno”).
Credo però di non aver mai parlato un po’ più nel dettaglio di come funziona, di chi – secondo me – farebbe meglio a evitarlo e di chi, invece, potrebbe trarne beneficio.
Prima di tutto, come ogni evento online con un sito, ci si iscrive dando un indirizzo email, una password e un nickname. Non è richiesta alcuna quota di partecipazione, ma si può decidere liberamente di donare per sostenere il progetto.
Fatto questo primo passo, c’è chi compila il profilo nei minimi dettagli (la sottoscritta) e chi lo lascia con le informazioni di base fornite all’iscrizione. Non è un problema, l’importante è annunciare il proprio romanzo o, per dirla con parole non rubate direttamente al sito (che è in inglese), caricare il titolo. Sì, basta il titolo, ma si può decidere di postare anche una sinossi, un estratto e una copertina, per quanto provvisoria.

Fatti questi primi passi, il sito permette di aggiornare il conteggio delle parole ogni volta che si vuole, che siano le parole totali dell’intero progetto o le parole della singola sessione di scrittura. La quota si riflette su un “simpatico” grafico e su una serie di statistiche che permettono di tenere d’occhio i progressi. Non mancano poi, nella posta del proprio profilo sul sito, i messaggi motivazionali di scrittori più o meno celebri e partecipanti al NaNoWriMo che “ce l’hanno fatta”.

 

Per chi è utile il NaNoWriMo, quindi?
Per chi vuole provare qualcosa di nuovo, prima di tutto, dopo un periodo in cui la scrittura è diventata un po’ stagnante; per gli underwriters (quelli che scrivono quantitativamente poco, al contrario degli overwriters) in cerca di una spintarella per buttare le parole sulla carta – ok, sullo schermo; per chi vuole costruirsi una routine e non sa da dove partire; per chi ha un’idea da tempo, ma trova una scusa o un’altra per non sedersi al computer e concretizzarla in un romanzo.
Sconsigliato, invece, per chi prova ansia ponendosi un obiettivo difficile da raggiungere, per gli overwriters che cinquantamila parole le raggiungono fin troppo facilmente, per chi ha già una routine consolidata che non è il caso di stravolgere (magari sincronizzata con un lavoro che tiene troppo occupati per scrivere quote giornaliere e consente solo lunghe sessioni nel week end).
In entrambi i casi, si tratta della mia visione dell’evento. Non è detto che un overwriter non possa partecipare e trarre beneficio dal NaNoWriMo, né che chi è ansioso non debba provare almeno una volta, e così via.
Ha i suoi lati positivi, quindi, ma non è un rito di passaggio obbligato che si adatta a tutti. Né è il caso di denigrarlo se non fa al caso nostro, come mi è capitato di sentire in giro per il web (“se si vuole fare gli scrittori si scrive tutto l’anno, mica solo a novembre”; certo, ma scrivere il resto dell’anno non esclude di poterlo fare a novembre con altre persone all’interno di un evento, no?). Dipende dalla situazione, dal tipo di scrittore, dal tipo di progetto, com’è ovvio che sia. Io ci ho scovato alcune delle persone con cui mi ritrovo più spesso a scrivere e scambiarmi opinioni sulla scrittura, quindi non posso che apprezzarlo. Inoltre sono una dannatissima underwriter e mi servono tutte le spinte possibili per sputare fuori le parole.

Questo novembre tornerò alle origini e proverò a finire il progetto dal nome in codice “Numero Zero” (che prima o poi dovrà essere battezzato, lo so). Ne ho parlato qui e qui, per rendere l’idea di quanto sia cambiata l’idea nel tempo, ma ho anche creato una playlist (triste, anzi tristissima) che mi tiene compagnia mentre scrivo e una bacheca pinterest per motivarmi e ispirarmi con qualche immagine. Due attività che consiglio, nelle pause dalla scrittura, a chi partecipa al NaNoWriMo (o a chi scrive in generale e cerca di restare motivato e ispirato, appunto).
Novembre è un mese pieno, ma quest’anno ancora di più perché, se tutto va bene, a fine NaNoWriMo sarò nella nuova casa!

PERSONAGGI FEMMINILI FORTI: UN DIBATTITO

Introduzione: cos’è una “badass chick”
Come da titolo, oggi voglio affrontare un argomento che viene ampliamente discusso su blog e canali di lettura, soprattutto made in USA. La questione della badass chick, il personaggio femminile tanto “cazzuto” (non uso casualmente questo termine, che personalmente non gradisco) da essere uno stereotipo che mal rappresenta il mondo femminile. I personaggi di questo tipo sono forti – anzi fortissimi – sono abili – no, abilissimi – e sono duri, non hanno bisogno di niente e di nessuno, tanto meno delle emozioni. Si appropriano di caratteristiche tradizionalmente associate al mondo maschile solo perché appropriarsi di quelle associate al mondo femminile è visto come degradante (supponendo che le une e le altre caratteristiche esistano, cosa di cui sono personalmente poco convinta, come spiegherò più avanti).
Questi, insomma, i principali attributi di tali personaggi e, di conseguenza, i temi del dibattito.

Reazione estrema alla Mary Sue
La genesi del personaggio femminile stereotipicamente forte può trovarsi in reazione a un altro tipo di personaggio-stereotipo: la Mary Sue. Quindi, per capirlo davvero, forse è necessario ricordare un attimo cosa si intende quando si parla del suo predecessore.
La Mary Sue è il personaggio che ha caratteristiche tradizionalmente femminili nel senso più antiquato del termine, e possiede una serie di attributi che di queste caratteristiche fondanti sono una diretta conseguenza. È, insomma, l’evoluzione – anacronistica; no, proprio andata a male – dell’angelo celeste stilnoviano.
La Mary Sue è vergine o, quando deflorata, è convinta sostenitrice dell’accoppiamento solo in caso di grandi, strabilianti amori. Qualunque altro personaggio femminile che non adotti questa filosofia di vita è etichettato dalla stessa come una poco di buono dalla morale traballante.
La Mary Sue è bella, ma non lo sa, quindi non si trucca e non si acconcia i capelli, perché sarebbe una perdita di tempo. Soprattutto perché curarsi, nel suo mondo, ha il solo scopo di piacere agli uomini o, meglio, a uno specifico uomo di cui è follemente innamorata.
La Mary Sue non ha la capacità di reagire alle situazioni, tantomeno agli abusi a cui la sottopone la sua controparte romantica (a cui “reagire” è di per sé difficile), e la trama le succede abbastanza passivamente.
Ovviamente, tutto questo comporta dei gravi problemi non solo di tipo letterario, ma anche di tipo concettuale. Da qui nasce la basass chick, generata per rinnegare tutto quello che è sbagliato nella Mary Sue, senza però riuscire davvero a superare i suoi limiti, sia letterari che concettuali.

Su cosa si focalizza il dibattito
La discussione su questo personaggio-stereotipo, per come vi ho assistito io fino ad ora, ha alcuni punti che mi piacerebbe approfondire.
Il primo argomento spesso affrontato riguarda l’incapacità della badass chick di provare emozioni e di mostrare fragilità, tanto che la sua intera personalità si esaurisce nella sua forza fisica e mentale.
Il secondo punto riguarda invece proprio le sue capacità fisiche, spesso caratterizzate dalla forza bruta senza alcun tipo di preparazione. Una forza innata che, sempre per chi dibatte, è propria solitamente degli uomini.
Infine, ultimo punto, questi personaggi non sono femminili e, in questa mancanza di femminilità, sembrano voler dichiarare che i tratti ad essa associati siano debolezze da cancellare.
Sebbene le obiezioni mi siano apparse inizialmente sensate, vi ho poi intravisto delle estremizzazioni e delle contraddizioni interne che rendono ai miei occhi l’intero dibattito controproducente o, a tratti, proprio limitato.

Personaggi femminili ed emozioni
Il mio problema con la prima argomentazione riguarda la sua associazione specifica ai personaggi femminili.
Mi spiego meglio: se un personaggio non prova emozioni e non ha fragilità, non è un “pessimo esempio di personaggio femminile”, ma un pessimo esempio di personaggio e basta, a prescindere dal suo genere. Se si attribuisce della problematicità alla questione solo nel caso in cui riguardi personaggi femminili, allora si dà per scontato – almeno nel sotto-testo dell’argomentazione – che i sentimenti, le emozioni e le fragilità siano proprie delle donne; visione superata da tempo che, a mio parere, necessita di essere sradicata dalle nostre convinzioni.
Se ci fossero le stesse osservazioni in merito a personaggi maschili o di altro genere, potrei fingere che è solo questione di attinenza (ossia: “si sta parlando di donne in questo contesto, per questo mi riferisco al caso specifico”); visto però che nessuno si lamenta mai del piattume emozionale dei personaggi maschili tanto da creare un’etichetta che ne identifichi tale stereotipo, non riesco a vedere quest’argomentazione come valida nell’ambito di una corretta rappresentazione femminile. I personaggi vanno creati con  luci e ombre a prescindere dal loro genere, proprio come in un disegno, altrimenti non si sta facendo un buon lavoro.

Forza fisica e lotta
Seguendo sempre lo stesso ragionamento, trovo controproducente affidarsi all’idea che esistano caratteristiche innate in base al genere di riferimento (idea nata dal limitante “binarismo di genere”, che ignora la realtà e le sue sfumature con forza e convinzione), soprattutto quando si parla di una corretta rappresentazione dei personaggi femminili.
Prendiamo l’esempio della forza fisica e delle capacità nella lotta, di qualsiasi tipo essa sia. Prima di tutto, queste due caratteristiche non sono prerogativa degli uomini e, di conseguenza, non rinnegano la “femminilità”. Sono prerogativa, invece, di chi si allena e si prepara, a prescindere dal suo genere. Il problema, ancora una volta, non risiede – a mio parere – negli attributi “rubati” dal personaggio femminile, ma nella sua povera scrittura come personaggio e basta: per lottare e sviluppare forza, ogni persona deve fare un percorso in tale direzione, anche nelle opere di finzione. Oppure, se l’universo letterario lo consente, tale caratteristica innata può essere frutto di situazioni particolari – magiche, magari – che al lettore devono essere comunicate, più o meno esplicitamente.
Ancora una volta, non si fa lo stesso discorso per i personaggi maschili: se un uomo letterario si appropria di caratteristiche tradizionalmente femminili – cucinare, crescere figli, pulire e tutte le altre attività tristemente relegate alle donne dalle frange reazionarie della società – nessuno sembra insorgere. Nessuno si lamenta del softass buddy, perché quest’etichetta non esiste. In fondo, anche nei dibattiti contro gli stereotipi, all’uomo è concesso essere un po’ quello che vuole, mentre la donna deve essere “qualcosa” di specifico.

Iper-femminilità come femminilità
L’ultimo punto ha per me dell’assurdo in generale. Se da una parte vedo la problematicità nel rinnegare trucco, vestiti e qualsiasi altra caratteristica associata all’universo delle donne (sempre per convinzioni sociali che non condivido) perché “troppo femminile” e quindi inadatta a una lottatrice – come se il truccarsi e il curare il proprio vestiario siano onte terribili –, dall’altra non trovo affatto che questi personaggi siano davvero, in tutto e per tutto, dei distruttori dello stereotipo femminile che tanto ci urta nella Mary Sue. Non sono armadi di due metri per due tutti muscoli. Non sono rasate e ferite dagli scontri. Non sono sepolte sotto chili di armature da guerriero.
Semplicemente, non sono iper-femminili. E, per questo dibattito, sembra quasi che tutto ciò che non sia iper-femminile sia un affronto, una negazione dell’essere donna.
Il problema di questo approccio, per me, sta nell’idea che un tipo di femminilità sia più o meno adeguata, più o meno accettabile. Non è così. Si è donne quando ci si identifica come tali, punto. Questo concetto aiuta, quando si deve scrivere un personaggio che si identifica così, perché tanto dovrebbe bastargli ad essere una vera donna™. Se è uno stereotipo è perché è scritto male in generale, non perché non è donna come dovrebbe esserlo, dal momento che non esiste un modo giusto di farlo.
E qui torna il paragone con gli uomini: anche loro soffrono di un “idea di mascolinità”, di uno standard da raggiungere per essere veri uomini™, ma il dibattito sui personaggi che non raggiungono tale livello non è mai efferato e implacabile quanto quello che riguarda le donne. Anzi: se un personaggio maschile rinnega tutte le fantomatiche caratteristiche tipiche degli uomini, anche a costo di trasformarsi in una macchietta, nessuno si lamenta della mascolinità negata. Come sempre, l’uomo difficilmente perde il suo essere uomo, perché a lui basta davvero identificarsi come tale per essere visto così.

Le estreme conseguenze
Un altro problema che ho con il discutere continuo su come dovrebbero essere i personaggi forti quando sono donne sta nelle sue estremizzazioni.
Ripeto: sono convinta che il vero nocciolo della questione risieda nell’incapacità di scrivere, perché l’utilizzo di uno stereotipo, dei personaggi-maschere in generale, è problematico per la storia e per chi quella storia la fruisce; sono convinta che non esista un modo corretto di essere donna, anche se si è un personaggio; sono convinta che il dibattito sia impietoso solo con i personaggi femminili e lasci campo libero a quelli maschili, anche quando scritti davvero male.
Eppure, se anche tutto questo non mi facesse sorgere dei dubbi sulla qualità della discussione, ci si mette chi fa rientrare nella categoria badass chick anche personaggi che non lo sono affatto.
Esempi? Katniss Everdeen dalla saga Hunger Games o Buffy Summers dalla serie Buffy.
Entrambe sono ottimi personaggi, hanno una personalità ben strutturata, hanno punti di forza e debolezze, hanno una storia alle spalle e un’evoluzione davanti; sono forti o hanno abilità particolari, certo, ma per ragioni coerenti con l’universo in cui si muovono o per un trascorso valido di cui il lettore è a conoscenza; provano emozioni più volte nel corso della narrazione, e non solo per amore.
Sono nominate spesso da chi parla della badass chick come uno stereotipo negativo, però, e questo mi fa credere che il problema siano le donne dai tratti forti in generale, più che l’utilizzo di uno stereotipo che appiattisce il personaggio. Se è così, allora non andrà mai bene nulla, dobbiamo esserne consapevoli. Non andranno bene neanche personaggi femminili con caratteristiche tradizionalmente associate al loro universo, anche se ben scritti, perché accorpabili sotto l’etichetta “Mary Sue”. Non andrà bene la donna che lavora, né quella che sta a casa con i figli: l’una troppo indipendente, l’altra anti-femminista.
Se si parte dal presupposto che non c’è un modo corretto di essere donna, invece (o, meglio, che si ha la libertà di essere donna come più ci piace), allora si avranno personaggi scritti male – stereotipi nel senso di “personaggi scritti rifacendosi a convinzioni antiquate della società”, ma anche “personaggi abusati in un particolare genere”, perché no – e personaggi scritti bene, ben strutturati, ben raccontati al lettore.
Inoltre, piccola parentesi, nessuno si lamenta di Peeta Mellark quando decora torte e si strugge per amore. Ancora una volta, avere il pene dà diritto a infinite uscite gratis dall’etichetta “stereotipo”.

Conclusione
Non credo, in nessun caso, che il confronto sia sbagliato in sé, ma il modo in cui si decide di argomentare un dibattito può esserlo.
Da una parte trovo degli spunti interessanti nella discussione che, se approfonditi, potrebbero essere stimolanti e su cui ho dei punti di vista e delle opinioni precise, anche se non ho potuto dar loro troppo spazio in questa analisi. Per esempio cosa si intende quando si parla di “femminilità” e se questo concetto è ormai antiquato o se considerarlo tale svalorizzi uno dei modi di essere donna. Cosa si intende quando si parla di caratteristiche innate e cosa, invece, quando si parla di caratteristiche acquisite. E, soprattutto, quanto sia dannoso un possibile stereotipo, sia concettualmente che letterariamente, se non ha alle spalle secoli di consolidamento sociale come invece accade per la Mary Sue (quest’ultima, infatti, attinge a una visione sociale dalle radici antiche e, a volte, dalle terribili conseguenze, che è davvero problematica per le donne in carne e ossa); cosa che non si può dire, per esempio, per la badass chick.
D’altra parte, però, penso anche che la stessa analisi critica vada rivolta ai personaggi maschili, che delle distinzioni fra personaggi femminili forti e personaggi stereotipati vada fatta, che sia necessario abbracciare l’idea che non esiste un modo corretto di essere – e quindi di “scrivere di” – donne.

CAMPNANOWRIMO 2018

Ebbene sì, anche questo aprile mi sono lanciata nell’avventura del CampNaNoWriMo. Ne caso vi stiate chiedendo “di cosa diavolo parli?”, qui c’è un articolo in cui spiego di cosa si tratta.
Quindi oggi andiamo al sodo e sorvoliamo sulle introduzioni: come sta andando il mio personale CampNaNoWriMo?

Non in modo eccellente, ad essere onesti. Sapevo che aprile sarebbe stato un po’ un incubo, per via dell’uscita imminente di “Denti e ossa, carne e sangue”, per via delle commissioni grafiche, per via del tempo che manca sempre quando ci si imbarca in tremila attività come fa la sottoscritta. Però, come sempre, questi eventi di scrittura permettono di scrivere più di quanto si farebbe senza di loro. Aprile l’avrei passato ignorando completamente il mio progetto (progetto con cui sto pensando di fare un passo in territorio sconosciuto, ossia mandarlo a qualche CE una volta finito, per la prima volta nella mia vita), invece mi ci sto dedicando un pochino ogni giorno, avanzando piano ma avanzando comunque.

La realtà è che eventi di questo tipo sono utili per chi, come la sottoscritta, è un underwriter, uno scrittore che sputa fuori poche parole sul foglio e tutte a fatica. Sono ben sotto la soglia di parole prevista per questa prima settimana, quindi, ma sono fiera di aver comunque scritto.
Inoltre non si possono affrontare i vari NaNoWriMo e CampNaNoWriMo senza gruppi in cui confrontarsi, parlarsi, sfidarsi. È il mio caso, per fortuna, visto che sono circondata da altre scrittrici e altri scrittori con cui ho sviluppato delle belle amicizie e con cui continuo a farmi forza!

Questo è quanto per la prima settimana…
Per i curiosi, ecco l’incipit del progetto (che potrebbe non sopravvivere a revisioni ed editing, ma che intanto è lì e volevo condividere con chi passerà da queste parti).

Venne al mondo davvero per colpa di una maglietta rosa che gli andava un po’ stretta, che gli abbracciava le costole e i fianchi come una seconda pelle. Peggio, venne al mondo per un colore, ed Elia pensò che i colori non si possono neanche toccare.
Fu un pensiero fugace, che con il tempo avrebbe trovato ridicolo, ma la paura gli aveva riempito la testa del battito rapido del cuore e non c’era stato spazio per la logica. Erano rimasti solo pensieri goffi e scoordinati, proprio come il suo corpo.
I colori non si possono toccare.
«Toglitela.»
Avrebbe ricordato i loro nomi, come succede sempre quando si condividono le prime volte con qualcuno. Quei tre ragazzi poco più grandi gli strapparono via una verginità mentale che non ci sarebbe stato modo di recuperare: l’idea che indossare una maglietta rosa non significasse nulla se non che quella specifica maglietta, di quello specifico colore, gli fosse piaciuta e l’avesse quindi chiesta in prestito a sua sorella. Niente di più semplice.
Invece era rosa. Era stretta, certo, ma era rosa. E il fatto che non capisse la portata di quel dettaglio come lo vedevano quei ragazzi, era il risultato di un’ingenuità per cui non ci sarebbe stato più spazio, dopo.
«Toglitela.»

5 (inusuali) LEZIONI SULLA SCRITTURA IMPARATE DALLE SERIE TV

Lo so cosa state pensando: è una scusa per guardare le serie tv invece che scrivere. E sì, in parte avete perfettamente ragione. In parte, però, si può anche usare un appassionante passatempo come le serie tv per imparare qualcosa, traendo dell’utile dal dilettevole.
No, d’accordo, è solo una scusa.

Ho scritto “inusuali” perché anche le serie si scrivono, proprio come i libri, ma quelle che ho elencato non sono le classiche lezioni su trama e personaggi, quanto un punto di vista forse un po’ più personale.
Quindi, se siete reduci da una maratona su Netflix che vi ha fatto dimenticare anche come vi chiamate, ecco cos’ho imparato sparandomi ore e ore di episodi.

1 – Scrivere per scrivere (Hannibal)

Cercherò di essere abbastanza superficiale da farla breve. Viviamo in un’epoca in cui il messaggio che si lancia con un’opera creativa è importante. Non c’è modo di nascondersi da questa realtà. Io sono sempre un po’ perplessa davanti all’accostamento fra un prodotto artistico e la morale, perché non credo che i due campi abbiano molto in comune. Certo, ricordando sempre che l’autore deve sapere quando sta infrangendo qualche “regola morale”, deve esserne consapevole, per usare questa infrazione nella sua opera in modo fruttuoso, interessante e – perché no – intelligente.
Una delle lezioni che ho imparato da Hannibal è questa: ricordarsi che l’obiettivo, quando si scrive, è produrre qualcosa che abbia valore creativo e/o che intrattenga. Formulandola meglio: scrivere non ha obiettivi, non ha scopi che non siano altro che lo scrivere e il farsi leggere. Perché, per quanto si possa dire “scrivo per me” è anche vero che un’opera diventa tale nell’atto della fruizione, ossia quando qualcuno la legge o guarda.
Non fatevi scrupoli a rendere affascinante un seriel killer cannibale, quindi, se lo fate con la consapevolezza che si sta parlando di un serial killer cannibale.
È finzione, non è realtà.

2 – Un po’ di rappresentazione non fa male a nessuno (Sense8)

Se è vero che un’opera, per quanto mi riguarda, non deve obbligatoriamente farsi carico di messaggi morali, è anche vero che un po’ di varietà non guasta. Non tanto per la giustizia sociale che questo comporta (tematica rilevante che qui non approfondisco), quanto perché l’arte riflette il mondo e la scrittura non è da meno. Quando leggo romanzi in cui ogni singolo personaggio è bianco e etero sento che manca qualcosa, anche solo per il fatto che il mondo che mi circonda non è fatto solo di eterosessuali caucasici, la mia cerchia di amici non è fatta solo di eterosessuali caucasici, la mia città non è popolata solo da eterosessuali caucasici. Sense8 ha fatto un lavoro magistrale, a mio parere, da questo punto di vista, inserendo personaggi di ogni etnia, estrazione sociale, sessualità e genere senza che ciò risulti forzato o per il solo scopo di rappresentare.
Insomma, ci siamo capiti: si può scrivere guardandosi anche attorno, non solo dentro.

3 – Non trattare da stupidi i tuoi lettori (Sherlock)

Lo so, questa è un po’ acida. Il problema è che, a un anno dalla messa in onda della quarta stagione, ho tirato un po’ le somme e ho capito che il mio problema con Sherlock ha radici più profonde della pessima, ultima serie. Sì, perché quando si scrive, il lettore non dev’essere trattato come un idiota, soprattutto se lo abbiamo spinto noi alle conclusioni a cui arriva, se l’abbiamo punzecchiato e gli abbiamo rifilato indizi su indizi per farlo arrivare a specifiche domande. Non possiamo lamentarci se si interessa a uno specifico punto della nostra trama, se siamo stati noi a dare attenzione a quel punto della trama; né ci possiamo lamentare se riceviamo critiche per non aver spiegato un passaggio, quando siamo stati noi a creare aspettative su quel passaggio e, di conseguenza, sulla sua spiegazione. Dobbiamo essere consapevoli di quello che scriviamo, consapevoli di dove vogliamo andare a finire, consapevoli di dove stiamo facendo focalizzare l’attenzione del lettore. Altrimenti stiamo scrivendo per il puro gusto di continuare a punzecchiare e, quando sarà il momento di tirare le somme, non avremo niente su cui costruire le nostre conclusioni.

4 – Non aver paura di evocare (The OA)

Si ha sempre un po’ paura di risultare pretenziosi quando si cerca di evocare invece che di descrivere e narrare. O, almeno, io vivo questo contrasto interiore (suono come un poeta maledetto, lo so). Ecco, secondo me non è sbagliato, nelle giuste dosi, rifarsi all’evocazione. In questo senso The OA mi sembra un ottimo esempio, tanto che Netflix ha fatto ruotare l’intero trailer della serie sull’incapacità di spiegarne il contenuto, nonostante il contenuto ci sia eccome. Fra sogni, memorie, narrazioni, The OA mi ha ricordato che scrivere può anche voler dire sperimentare, lasciarsi andare, superare i limiti di quello che è tradizionalmente accettato e regolato, per poter trovare i propri spazi e, in questo processo, magari scoprire anche la propria “voce”.

5 – Qualità prima di tutto (Supernatural)

Da Supernatural si possono trarre centinaia di consigli, che possono essere riassunti con un “fai il contrario di quello che fanno gli sceneggiatori di Supernatural e vai sul sicuro” (d’accordo, anche questa era acida). Difatti ho continuato a pensare a quale lezione, fra le molte che la serie può dare, infilare in questa lista inusuale. Clizia ha suggerito anche un sempre vero “non uccidere personaggi che non sai dove infilare”, che cito perché lo reputo uno fra i migliori consigli estrapolabili dagli episodi (qui un mio video in proposito, perché se non mi auto-pubblicizzo almeno una volta poi passo per una persona decente).
Il fatto è che, fra tutte le lezioni, quella che preferisco è che non importa se vogliamo scrivere una serie da trecento volumi o un romanzetto da cento pagine, l’importante è che ci si ricordi di essere soddisfatti del prodotto finale, di essere convinti del suo valore, di reputarlo di qualità. Noi per primi, a prescindere dalla veridicità finale di questa convinzione. Dobbiamo impegnarci per scrivere bene una buona storia, ricordandoci da dove siamo partiti con i nostri personaggi e la nostra trama, e sapendo dove vogliamo finire. Perché sì, alla fine magari avremo anche i nostri lettori, che si affezioneranno pure a quello che abbiamo scritto e ai nostri personaggi (Supernatural è ancora vivo per questa sua forza d’attrazione e non nego assolutamente che la eserciti anche su di me e in grande misura), ma saremo noi, poi, a dover rispondere con noi stessi della qualità del nostro lavoro. Io non mi perdonerei mai, se la pigrizia e la consapevolezza di essere letta comunque mi facessero pubblicare un lavoro pessimo che so essere tale.

Questo è quanto. Se volete condividere o commentare con qualche altra lezione tratta dalle serie tv, mi trovate qui o sui social (sono praticamente ovunque come @donniescrive).
Alla prossima!

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