“Boy Erased. Vite cancellate” di Garrard Conley

Penso che la casa editrice Black Coffee non abbia bisogno di presentazioni: pubblica autori nordamericani contemporanei in edizioni compatte e curate dal punto di vista grafico. Non solo non credo ci sia altro che io possa aggiungere sulla casa editrice, ma il libro stesso è abbastanza conosciuto, anche grazie alla sua recente trasposizione cinematografica. Quindi oggi parleremo di “Boy Erased. Vite cancellate” di Garrard Conley, uscito nel 2018 per le edizioni Black Coffee.

Trama: A diciannove anni Garrard, figlio di un pastore battista e devoto membro della vita religiosa di una piccola città dell’Arkansas, è costretto a confessare ai genitori la propria omosessualità. La loro reazione lo mette di fronte a una scelta che gli cambierà la vita: perdere la famiglia, gli amici e il dio che ama sin dalla nascita oppure sottoporsi a una terapia di riorientamento sessuale, o terapia riparativa, per “curarsi” dall’omosessualità, un programma in dodici passi da cui dovrebbe riemergere eterosessuale, ex-gay, purificato dagli empi istinti che lo animano e ritemprato nella fede in Dio attraverso lo scampato pericolo del peccato.
Quello di Garrard è un viaggio lungo e doloroso grazie al quale, tuttavia, trova la forza e la consapevolezza necessarie per affermare la sua vera natura e conquistarsi il perdono di cui ha bisogno. Affrontando a viso aperto il suo passato sepolto e il peso di una vita vissuta nell’ombra, in questo memoir l’autore esamina il complesso rapporto che lega famiglia, religione e comunità. Straziante e insieme liberatorio, Boy Erased è un’ode all’amore che sopravvive nonostante tutto.


Partiamo da un’informazione personale che influirà sulle mie osservazioni: non amo particolarmente i memoir. Ecco, l’ho ammesso, ora possono volare le pietre.
Ho scelto di fare un’eccezione per questo libro perché il tema che tratta mi interessa particolarmente e perché vivo nel continuo tentativo di superare le deludenti esperienze avute in materia di memoir in precedenza.
Aggiungo un’altra premessa: parlare di un libro di questo genere non è semplice, perché non si sta leggendo una storia astratta e lontana, ma la vita di una persona, la sua esperienza.
In “Boy Erased”, in particolare, si racconta l’esperienza traumatizzante delle terapie riparative, del crescere in una famiglia estremamente religiosa, dell’omofobia interiorizzata, della violenza sessuale e di altre tematiche dure e difficili. Questo è il motivo per cui buona parte delle mie impressioni sarà molto personale, invece che basata su tecniche narrative e su questioni più oggettive (per quante possano essercene in una recensione, certo).

Trascorse un minuto di silenzio e poi, consapevole di non poterlo nascondere, scoppiai a piangere e le dissi che era vero, che ero gay.

Molti aspetti di questo libro mi sono piaciuti. Prima di tutto il modo in cui si parla della terapia riparativa, tema portante del memoir. Non ci sono scene estreme o torture violente, ma non per questo ciò che succede è meno orribile. Anzi: invece di drammatizzare quello che è avvenuto, l’autore ci mostra le piccole torture quotidiane, le regole assurde e la pressione psicologica, restituendoci alla perfezione la sensazione soffocante di trovarsi nella sua situazione.
Gli approcci adottati prendono in prestito tecniche dalla psicologia e le distorcono per ottenere obiettivi malsani: vengono considerati rilevanti i rapporti con il padre, i “peccati” tramandati in famiglia (come l’alcolismo) e se ne fa una spiegazione per l’omosessualità, che quindi avrebbe delle radici rilevabili e – possibilmente – una cura. Proprio come se fosse una malattia.
Ecco, questo nel libro è mostrato bene, secondo me, e si capisce come queste terapie influenzino i comportamenti sessuali tramite manipolazione psicologica, ma non possano (proprio perché impossibile) cambiare l’orientamento sessuale.

«La prima cosa da fare è capire come siete diventati dipendenti dal sesso, da pensieri che non giungono da Dio» disse Smid. Eravamo al Primo Passo dei dodici previsti dal programma di Love in Action, i cui principi equiparavano i peccati di infedeltà, zooerastia, pedofilia e omosessualità a dipendenze quali l’alcolismo e il gioco d’azzardo.

Un altro tema che ho trovato trattato particolarmente bene è quello della religione. L’autore vuole che la terapia funzioni, si sottopone a tutto questo nella speranza di non perdere l’intero mondo che conosce, la sua famiglia, il loro supporto economico, la sua comunità. La fede è stata una compagna di vita, presente tanto quanto i genitori, e lui non vuole deludere dio proprio come non vuole deludere sua madre e suo padre.
Credo che anche questo getti in qualche modo una luce più intensa sulla questione delle terapie riparative. Siamo portati a pensare a persone che vengono mandate lì con la forza, mentre la realtà a volte è molto più complessa. L’autore potrebbe perdere tutto e quindi è forzato a prendere parte alla terapia, ma ha in sé anche una contraddittoria speranza che la sua famiglia abbia ragione e che una cura esista.
Non viene privato di questa verosimile complessità anche il rapporto con i genitori. L’autore riesce a comprenderli, vuole loro bene, e non mancano momenti di genuina felicità nei suoi ricordi. È pronto a rinnegare se stesso per non perderli ed è interessante seguire il percorso che parte da tutte queste premesse per arrivare alla conclusione del momoir. Senza fare spoiler di alcun tipo, anche il finale è complesso e sfumato, degno della realtà di un’esperienza invece che di una narrazione romanzata.

«Voglio cambiare» dissi. «Sono stufo di sentirmi così».
«Col tempo diventa più facile. Potresti trasferirti altrove, in una città più grande».
«Non voglio scappare. Voglio bene ai miei». Frasi patetiche. Parole infantili. Ma non riuscivo a trattenermi, era la verità.

Un aspetto che non mi è piaciuto di questa lettura è la forma che l’autore ha deciso di adottare. Prima di tutto, i fatti non sono in ordine cronologico, ma non appaiono neanche in un ordine che il lettore può rilevare o che ha un significato più profondo. Tutto è collegato quasi per associazione mentale, saltando dal passato remoto (con aneddoti su genitori e nonni) a quello più recente, passando per i momenti della terapia fino ad arrivare al presente. Sono frammenti di ricordi, pezzetti di vita, che invece di enfatizzare un racconto emotivo, tendono a disperderne l’intensità, a mio parere. Poteva funzionare, ma non sono certa lo faccia.

A casa ero in grado di recitare un’elegante preghiera, dire la mia sulla grazia di Dio, citare le scritture al momento giusto, sfoggiare il mio sorriso migliore. Era un sollievo tornare in un mondo noto, indulgere in luoghi comuni, placare il mio animo.

La narrazione risente poi delle continue divagazioni che l’autore fa e che rubano molto spazio a ciò che davvero sorregge il memoir. A volte, queste divagazioni sembrano servire a mostrare lo stile evocativo e poetico dell’autore (stile che amo quando è messo al servizio della storia e non viceversa), altre volte non si comprende bene il motivo di certi aneddoti che non aggiungono all’esperienza di cui stiamo leggendo, né per associazione né per contrasto.

I campi di cotone si estendevano a perdita d’occhio. Brillavano come di luce intermittente nella semioscurità mentre il cielo si chiudeva piano, come il coperchio di ceramica di una delle pignatte della nonna. Sposando la mamma, poco meno di un anno dopo, mio padre avrebbe ereditato tutto quel ben di Dio, anche se ancora non lo sapeva.

In conclusione: il romanzo non mi ha convinta fino in fondo, ma ne consiglio comunque la lettura a chiunque voglia saperne di più sulle terapie riparative senza drammatizzazioni o sensazionalismi, attraverso una testimonianza vera che non fa sconti sulla complessità della realtà, ma che perde un po’ di efficacia emotiva a causa della forma in cui è scritta e organizzata.

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