ALLENARE L’IMMAGINAZIONE: come passare da un’immagine alla trama

Ebbene sì, ritornano gli AppuntaVenti – discussioni e appunti di scrittura, il venti di ogni mese – per parlare dei meccanismi più o meno nascosti dietro alle storie che scriviamo.
In questo articolo ho provato a dissezionare il processo che solitamente mi porta da una singola immagine o scena a un’idea decisamente più approfondita per una storia.

Come ogni razionalizzazione di un processo che va per lo più a istinto (un istinto allenato da anni, certo, ma pur sempre tale), non è legge, non tratta di verità assolute e dogmi incrollabili. Né i suoi vari punti sono in ordine cronologico. Ogni persona che scrive è a sé, ha le sue specifiche esigenze e i suoi rituali. Si tratta più che altro di un’analisi del mio procedimento di brainstorming.

Lo scopo finale sarebbe, come da titolo, allenare l’immaginazione, arma principale nelle mani di chiunque voglia scrivere!

L’immagine

Quasi tutte le mie storie e quelle di moltə colleghə con cui ho la fortuna di parlare nascono da un piccolo dettaglio. A volte quest’idea è un concetto, una dinamica, un trope, ma molte altre è un’immagine. Un singolo fotogramma che ci arriva alla mente mentre stiamo andando al lavoro, pulendo casa, portando fuori il cane. O nel momento in cui chiudiamo gli occhi per dormire e abbiamo bisogno di una storia della buonanotte inventata da noi.

Tutte queste più-o-meno-tediose attività quotidiane sono perfette per sognare a occhi aperti e allenare l’immaginazione. È importante però che le idee che il nostro cervello mette insieme non restino chiuse nella nostra testa. Il consiglio è quindi quello di appuntarsi sempre l’immagine. Bastano poche parole salvate sui nostri onnipresenti telefoni o su uno degli innumerevoli quaderni che noi scribacchinə siamo solitə collezionare. Non deve avere troppo senso, non dev’essere già una trama, non ha bisogno di specifiche: si scrive quello che si vede al solo scopo di non perderlo via fra la lista della spesa e l’appuntamento dal dentista.

Ora, per me le storie partono dai personaggi. Però mi rendo conto che non tutte queste singole genesi arrivano alla mente già popolate. Quindi un ottimo primo passo potrebbe essere quello di abitarle con una coscienza. Dico così perché potrebbe essere una persona, sì, ma anche un fantasma nella piccola finestra del nostro castello gotico, un animale nel mezzo della nostra foresta, un mostro in una palude, qualsiasi cosa di senziente che possa avere una vita da personaggio.

Per la versione definitiva de “Il corpo che indosso” (dopo la sua genesi come giallo di cui non parleremo più, promesso) una delle prime immagini era quella di due adolescenti che parlavano su un balcone di notte, la luce calda che arrivava dalla posrta-finestra alle loro spalle. Tutto qui.

I dettagli

Non resta che dissezionare l’immagine, esplorandone ogni minimo dettaglio.
Per farlo basta continuare a porsi domande sull’immagine: chi sono le persone che la abitano? che emozione trasmette? come ne descriverei l’atmosfera? che colori posso vedere o che suoni posso sentire? che odori, che temperatura? che luogo è? che ragione hanno queste persone per trovarsi lì? cosa sta succedendo?

Lo so che suona molto banale, ma la natura di questo procedimento non è niente di fantascientifico: più si scava, più la nostra immaginazione se ne verrà fuori con altre idee, con collegamenti e motivazioni.
Di solito io non mi metto ad appuntare ogni singola parte di questo procedimento, perché questa fase è malleabile e fumosa, sempre soggetta ad aggiustamenti istintivi, ma le mappe mentali e le liste sono sempre uno strumento utile se sognare a occhi aperti non basta!

Per il mio libro, sapevo già che le due persone nell’immagine erano Gio ed Elia (al tempo con altri nomi), due personaggi di un’altra storia (sì, il giallo) che mi stavano tormentato per avere un romanzo tutto loro. Non erano gli adulti di quella prima versione, però, ma due adolescenti, quindi in un punto totalmente diverso delle loro vite. La luce alle loro spalle era “casa”, un luogo sicuro, ma loro erano fuori, nell’aria fresca della notte, immersi in un’atmosfera calma ma in qualche modo malinconica.
Due dettagli hanno poi fatto da base per scene future: i capelli di Elia e la sigaretta di Gio.

Le persone

Come ho scritto all’inizio, però, le mie storie nascono dai personaggi. E quindi gran parte della mia immaginazione finisce per concentrarsi su questo. Dall’immagine, infatti, si può intuire già molto di quello che finirà per caratterizzare le persone al centro delle nostre storie. Sappiamo vagamente come appaiono e chi sono perché abbiamo scavato nell’immagine, ma per dare loro spessore dobbiamo capire cosa vogliono, di cosa hanno bisogno, che ostacolo interiore dovranno affrontare, che “fatal flaw” hanno, eccetera.

Insomma, è il momento in cui gli strumenti della narratologia possono venire in nostro soccorso, sia che siano applicati istintivamente che razionalmente, in base alle nostre predisposizioni. Può essere un procedimento estremamente strutturato, con schede personaggio e simili, oppure un’esplorazione tutta interna in cui li conosceremo sempre meglio più indirizzeremo l’immaginazione a costruirli (QUI parlo più nello specifico di alcune idee per caratterizzare i personaggi).

È anche il momento di capire in che punto del loro arco si colloca la nostra immagine: sono all’inizio del loro cammino, sono nel momento più buio della loro storia, sono alla fine quando il cambiamento (salvo casi speciali) è già avvenuto?

Per “Il corpo che indosso” sono arrivata alla conclusione che quel momento sul balcone fosse un momento di transizione per entrambi i personaggi. Elia con le sue fragilità (sommate a quelle tipiche dell’adolescenza) che finalmente trova in sé un po’ di assertività, Gio con la sua paura dell’abbandono e la sua protettività verso Elia, costretto a mettere tutto da parte e ascoltarlo.
Mi sono chiesta da dove arrivassero, questi due, cosa li avesse resi chi erano, e dove potevano finire. Così sono nati tanti altri personaggi, come le loro famiglie e i loro amici. Così sono nate la nonna di Gio, Libera, e la sorella di Elia, Eleonora.

Il mondo

Per me questo è uno degli ultimi punti quando parto dalla mia immagine per arrivare a una storia, per altre persone probabilmente il primo, sta di fatto che i personaggi non aleggiano nel vuoto. La nostra immagine, come abbiamo già esplorato grazie all’analisi dei suoi dettagli, ci restituisce un’ambientazione.

Può essere fantastica o realistica, può essere un singolo luogo specifico in cui i nostri personaggi si troveranno o un intero mondo di cui stiamo vedendo uno scorcio. Ma, anche qui, continuare a esplorare l’immagine con la nostra mente può farci accumulare informazioni sull’ambientazione della nostra storia, ottimo punto di partenza sia che il nostro mondo sia enorme e necessiti di successiva costruzione e ricerca (penso al fantasy o alla fantascienza), sia che si tratti del mondo che viviamo e abitiamo tutti i giorni.

A volte, sono proprio i piccoli dettagli a rendere realistico un universo, e di dettagli da esplorare potrebbero essercene a decine nella nostra immagine di partenza. Avremo così idea di atmosfera, colori, architettura, arredamenti, flora, fauna, ecc.

“Il corpo che indosso” ha un’ambientazione molto, molto specifica. La finestra da cui esce la luce calda della mia immagine aveva qualcosa di rassicurante: “casa”, come ho detto. Mi sono chiesta di chi fosse, quanta importanza avesse per i personaggi, come fosse dentro, cosa rappresentasse, quali cambiamenti la aspettassero. È così che è nato l’Appartamento di Libera, il luogo dove si svolge l’interezza della storia di Elia e Gio, con tutta la sua simbologia emotiva.

Il conflitto e il cambiamento

Ma se i personaggi e il mondo sono punti fondamentali, le storie sono niente senza conflitti e cambiamenti.

La nostra immagine può ancora esserci utile, in questo senso: possiamo cercare il conflitto fra le persone che la popolano, o fra le persone e il loro mondo, fra elementi diversi dell’ambientazione che possiamo scorgere o grazie a dettagli in cui è possibile trovare della tensione. Possiamo, insomma, scavare sempre più a fondo, domanda dopo domanda, alla ricerca di un conflitto o di un potenziale cambiamento.
Lo scopo finale è, come sempre, riuscire ad andare da quest’idea a una storia.

C’è chi a questo punto è prontissimo a buttare giù le prime pagine (forse perfino prima) e chi ha bisogno di usare una struttura per “plottare” l’intera storia, chi scoprirà man mano gli eventi e chi è pronto ad appuntare ogni snodo fondamentale. L’importante è ricordarsi che ai nostri cervelli piace il cambiamento, che è il motivo per cui si insiste spesso sulla necessità di un’incidente scatenante che cambi la situazione di partenza della storia, di ostacoli che la rendano interessante e di punti di tensione che tengano il lettore immerso nelle vicende.

Anche qui, si tratta di capire più o meno quale metodo sia il più adatto alle nostre inclinazioni (un video che adoro è questo di Ellen Brock, perché credo abbia trovato una buona categorizzazione su cui è possibile costruire un metodo adatto a noi).

Io amo immaginare i conflitti fra personaggi. Sapevo già che la relazione fra i due della mia immagine aveva alcuni tratti della co-dipendenza, sapevo che erano cresciuti insieme, sapevo che le due personalità così diverse che stavo iniziando a esplorare erano destinate a non capirsi fino in fondo. Eppure, in qualche modo, sapevo anche che erano perfetti per stare insieme… poteva trattarsi solo della necessità di crescere, maturare, trovare un proprio equilibrio.

Per concludere…

Spero che questo articoletto possa essere lo spunto per fare un esercizio mentale a partire da un’immagine trovata su Pinterest, o venga usato per affinare una storia su cui magari siete bloccatə ripartendo dalla sua idea iniziale o che vi dia semplicemente una spintarella a pensare meglio un’idea con cui state giocando da un po’ nella vostra testa.

È stato interessante per me vivisezionare questo procedimento e vedere come a volte può funzionare la mia immaginazione.

E ora… buona scrittura!

INTRATTENIMENTO E LETTERATURA: uno sterile dibattito (italiano)

“La letteratura d’intrattenimento non è letteratura”
Se gli intellettuali e i critici marciassero per le strade, questa scritta sarebbe su almeno dieci cartelli, e far passare questo messaggio sarebbe l’obiettivo dell’intera protesta. Perché questo è un dibattito vecchio quanto la scrittura che, soprattutto in Italia – dove la tradizione della letteratura di genere è meno legittimata, ed è storicamente forte la produzione di narrativa generale – non smette mai di auto-alimentarsi.
“Intrattenimento” diventa una parola sporca, legata al soddisfare un prurito estemporaneo come potrebbe fare la televisione (anche qui, perché in Italia abbiamo iniziato a sviluppare un senso di qualità del prodotto televisivo solo di recente, dato che prima la qualità era propria solo di un certo tipo di cinema impegnato). Insomma, per nessuna ragione un concetto da avvicinare all’arte.
Una visione semplicistica e superficiale che non dovrebbe appartenere agli ambienti intellettuali – se proprio per l’intelletto questi ambienti si distinguono –, ma che esiste e di cui vorrei parlare in questo articolo.

Intrattenere
Partiamo dalle ovvietà: la narrativa generale non esclude l’intrattenimento, e viceversa. Se smettessimo di pensare a compartimenti stagni, mettendo qui il bello e lì il brutto, e apprezzassimo le sfumature senza la paranoia di perdere le definizioni (e quindi le nostre certezze), la vita sarebbe molto più semplice. Perché, diciamolo, far rientrare la vita nelle nostre costrizioni è molto più complicato che accettarla così com’è. Ma sto filosofeggiando. Il punto è questo: nella “vera letteratura” l’intrattenimento è sempre stato presente, perché l’arte tutta è potenzialità di fruizione. Altrimenti non esisterebbe produzione letteraria, cinematografica, figurativa, e tutte le opere se ne starebbero ad ammuffire in cassetti e soffitte. Un pubblico è previsto, è preso in considerazione, e uno degli scopi è sempre tenerlo lì, a fruire di qualcosa.
Intrattenere, quindi, come tenere lì, tenere occupati, senza limitarsi all’accezione del termine che associamo al divertimento.

La “vera letteratura”
Molti di quelli che oggi consideriamo autori di “vera letteratura” sono stati, a loro tempo, qualcosa di molto simile all’intrattenitore: mentre la letteratura andava sdoganandosi e non era più materiale per soli intellettuali, fioccavano i romanzi d’appendice. Romanzi che, ad oggi, sono grandi classici della letteratura inglese, francese, russa.
Qual è la differenza?
Perché una differenza c’è, è ovvio.
Dickens, Flaubert, Dostoevskij e tutti i loro simpatici amici sono stati in grado di resistere alla prova del tempo invece di essere dimenticati, perché le loro opere hanno qualcosa di universale e profondamente umano che continuerà a parlare ai lettori anche in futuro. Non importa se stiamo cercando di portare a casa la pagnotta (o di pagarci il vizietto del gioco, vero Fëdor?), l’importante è metterci l’anima, puntare al meglio che si possa creare, tenere a mente che anche la più banale esperienza umana può essere narrata in modo che parli all’anima. Intrattenere, quindi, una parte più profonda di noi che va oltre la soddisfazione di una voglia superficiale.

L’importanza (ignorata) della qualità
A questo punto può sorgere spontaneo chiedersi come spingersi più a fondo e se sia davvero necessario farlo.
Sulla seconda domanda, la mia risposta è semplice: sì. L’obiettivo non dovrebbe mai essere, scrivendo, “voglio che la mia storia sia dimenticabile”. Le autrici e gli autori che conosco, quelli di cui posso sperimentare indirettamente il processo creativo, non si pongono il problema del loro pubblico quando ideano una storia, ma non sputano sulla carta tutto quello che esce dal loro cervello senza selezionare o ragionare e, in seguito, rivedere e sistemare. Questo significa che il loro obiettivo è – anche involontariamente – quello di fare bene il loro mestiere, in modo da essere letti e apprezzati (per quanto possibile, com’è sempre ovvio quando si parla di processi creativi e percezione da parte del pubblico).
Ricordati, quindi.
Con questa predisposizione mentale, si risponde anche alla seconda domanda: perfino nella dinamica più scontata (mi si passi il termine denigratorio) – ad esempio “lui e lei si incontrano” –, se esploriamo i personaggi, le circostanze, gli ostacoli e i motivi delle scelte, possiamo trovare spunti per far sorgere domande, riflessioni e pensieri involontari. Non è necessario filosofeggiare e dispensare grandi verità, quando si scrive, ma fare bene il proprio compito di scrittori. Il resto viene da sé.
Pare ovvio, seguendo questo ragionamento, che la vera distinzione non dovrebbe riguardare la letteratura di genere e la narrativa generale, ma la qualità del singolo libro e le capacità del singolo autore. A mio parere si dibatte mancando il punto per l’ennesima volta.

Scrivere per scrivere, non scrivere per vendere
Tutta l’arte è commercio. Bisogna scendere a patti con questa materialistica verità.
Però, come accennato sopra, a mio parere non è vendere lo scopo con cui l’arte dovrebbe nascere. La narrativa (di genere o generale che sia), dovrebbe partire dal desiderio di scrivere, di raccontare al meglio una storia, e porsi il problema del pubblico solo in modo collaterale.
Quando commerciare prevale sul creare, si dà fondamento al pregiudizio che affligge la narrativa di genere: la sua scarsa qualità.
Se il nostro obiettivo è vendere, infatti, tenderemo a restare entro le regole del genere di riferimento e a rispettarne i paradigmi, in modo da proporre qualcosa di familiare e facile da acquistare. Se siamo abituati a comprare carote arancioni, difficilmente compreremo carote viola, per intenderci; se vendiamo carote, quindi, meglio produrle arancioni e farla semplice.
Il problema è che non stiamo facendo bene il nostro mestiere di scrittore (al contrario di chi vende carote, che può venderle un po’ come gli pare). Anzi, non lo stiamo facendo affatto.
Evitare i cliché, imparare le regole e infrangerle, raccontare le banalità della vita con uno sguardo diverso, sono le caratteristiche che faranno ricordare a qualcuno la nostra storia, che la faranno amare, che sia una storia d’amore, di pirati, di serial killer poco importa.

Un invito per chi legge
Questa piccola analisi – che come ogni venti del mese nasce dalla voglia di chiacchierare di un tema specifico e, magari, conoscere le opinioni altrui in merito – non ha lo scopo di sminuire chi legge scritti di scarsa qualità per la voglia divertirsi un paio d’ore e poi passare oltre. Io vivo secondo il motto che si può leggere ciò che si vuole, senza eccezioni.
Vorrei solo far notare, però, come credo si possa ottenere questo e qualcosa in più cercando meglio e non accontentandosi. Leggere un thriller, un giallo, un romance non significa farsi andare bene una pessima qualità perché “questo passa il convento”. Di opere che possono intrattenere e stimolare allo stesso tempo, infatti, il mondo dei libri è pieno. Siamo solo pigri. Siamo solo bulimici. Siamo solo fermamente convinti che si debbano leggere “Guerra e pace” oppure “Cinquanta sfumature”, o l’uno o l’altro, o l’opera letteraria per eccellenza o l’intrattenimento di qualità infima che solletica una voglia estemporanea.
Non è così.
Anzi, questo lo pensa chi è d’accordo con gli intellettuali di cui ho parlato in apertura, anche se lo fa senza la consapevolezza di farlo ed è schierato dalla parte bistrattata (quella dell’intrattenimento, della letteratura di genere). In questo specifico caso, schierarsi significa credere in questa contrapposizione e rinforzarla.

Un invito per chi analizza
Se chi legge ha piena libertà decisionale su quello che legge, meno libertà dovrebbero avere i critici, gli intellettuali, i giornalisti letterari. Il pregiudizio, lo snobismo e l’elitarismo non dovrebbero essere accettati come la norma. Anche questi sono un accontentarsi, infatti, un farsi andare bene l’opinione comunemente accettata senza porsi davvero delle domande, senza scavare più a fondo. Si sta facendo male il proprio mestiere, esattamente come lo scrittore che si accontenta di scrivere opere mediocri allo scopo di vendere. Denigrare la letteratura di genere per essere accettati come competenti non ci rende davvero tali. I libri sono un modo per creare connessioni fra esseri umani (come tutta l’arte), accomunandoli attraverso le storie che leggono e le emozioni che queste storie suscitano; non un modo per creare distanze e differenze o, peggio, umiliazioni.
Vorrei leggere di intellettuali in grado di sfidare l’opinione diffusa nei loro ambienti e dar vita a dubbi e dibattiti. Vorrei un mondo dove parlare di letteratura non significhi fare copia e incolla di visioni vecchie di decenni che forse è arrivato il momento di mettere alla prova.

Un invito per chi scrive
A chi scrive, invece, va la mia chiusura. Il bisogno di vendere c’è ed è innegabile, perché vivere di scrittura è il sogno di (quasi) tutte le persone che scrivono, ma non bisogna dimenticare che lo avevano anche molti dei grandi nomi del passato e che questo non gli ha impedito di svolgere bene il loro lavoro. Alcuni sono morti poveri, certo, e la qualità delle loro opere è stata riconosciuta solo dopo, altri sono riusciti a sopravvivere e ottenere la fama. La qualità, però, è il denominatore comune, il fondamento, il punto di partenza. Se ce ne disinteressiamo, stiamo facendo del male a un mondo che non ha proprio bisogno che gli vengano inferti altri colpi; un universo – quello della letteratura – che ha già tante difficoltà, senza bisogno che venga alimentato il pregiudizio su una sua buona parte.
Scriviamo di quello che più ci piace, ma facciamolo bene.

ESSERE EMERGENTI SUL WEB: come NON comportarsi fra netiquette e promozione

Gli autori emergenti sono maleducati
Questa frase circola ovunque, nell’ambiente della scrittura underground (sì, l’ho ribattezzata come la musica) e, da esponente del gruppo preso d’assalto, vorrei poter dichiarare a gran voce quanto sia falsa.
Il problema è che, proprio da esponente di tale gruppo, non mi sento di difenderci a spada – o penna – tratta. Certo, è una generalizzazione, è un estremismo e io non sono né per gli uni, né per gli altri, ma è innegabile che sul web circolino soggetti in grado di far guadagnare una pessima reputazione all’intera categoria. L’animale-emergente assume diverse forme, spesso è educato, gentile, disponibile, altre volte è un po’ narcisista e si rapporta al prossimo con la delicatezza di un rullo asfaltatore.
A chiunque legga faccio un personale appello: le considerazioni che seguono non nascono dal desiderio di sangue, dalla voglia di scatenare flame e guerre di categoria fra autori e blogger, o autori e editori, o autori e altri autori. Sono, come vorrei fossero tutti gli articoli di questa rubrica, delle riflessioni più estese e approfondite su temi che mi appassionano. Per renderli accessibili a chiunque voglia dar loro un’occhiata, inoltre, tendo a spiegare anche questioni che per gli addetti ai lavori non hanno bisogno di essere spiegate.

L’animale-emergente
Chi è un “emergente” e perché le virgolette? Si tratta di autore che si avvia a una certa notorietà, almeno secondo le definizioni ufficiali. Non è ancora lì, ma è sulla strada che ce lo porterà, se sarà abbastanza – per non dire straordinariamente – fortunato e abile.
In realtà questa spiegazione fa storcere un po’ il naso. Prima di tutto, perché si concentra sulla fama, mentre esistono autori che da anni scrivono e vengono pubblicati da case editrici medio-piccole e che di certo farebbe ridere considerare ancora emergenti, pur senza una notorietà da prime pagine di Robinson. In secondo luogo, perché il termine sta iniziando a imprigionare una realtà varia e multiforme – come spesso accade con le etichette quando portate alle estreme conseguenze – che si ramifica nel self oltre che nell’editoria tradizionale e che spesso ha successo in modi alternativi. Infine, in certi ambiti sta assumendo un’accezione quasi negativa, distante perfino dalla definizione ufficiale: emergente come ingenuo, incapace, mr. nessuno, l’ennesima meteora.
Io mi considero un’autrice emergente senza troppi problemi, perché tendo a considerare l’emergente come qualcuno che sta muovendo i primi passi nelle pubblicazioni, che si sta facendo le ossa, che sta imparando come funziona il mondo della scrittura a un gradino più alto della sola passione. E poi perché, se sto emergendo, da qualche parte dovrò pur spuntare, come i funghi. Insomma, mi cullo nell’implicita speranza di questa definizione.

“Ti piacerà sicuramente”
Succede che scrivere è un’arte, in linea di massima. Oppure, se vogliamo – e a volte dobbiamo – essere più modesti, è una forma di intrattenimento. Come arte o intrattenimento, la scrittura prevede quindi una fruizione, ossia che qualcuno la prenda e ne goda. Per farla semplice: si scrive per essere letti, per quanto sia importante scrivere qualcosa che ci appassioni in prima persona. E qui credo risieda l’origine del primo comportamento dannoso con cui mi è capitato di scontrarmi in questi anni di attività fra gli autori del web: il caso del “ti piacerà sicuramente”.
È capitato a me, che non sono blogger o booktuber nel senso stretto dei termini, non immagino quante volte possa essere capitato a chi aderisce perfettamente a queste due categorie. Inizia sempre con un messaggio privato di qualche tipo, magari perfino copia-incollato un miliardo di volte, e finisce sempre nello stesso modo: “questo è il link per comprare il mio libro, leggilo, ti piacerà sicuramente”. A volte la frase cambia, ma la sostanza è la stessa.
Chiariamoci, magari mi piacerà davvero, magari è il mio genere nello stile che adoro, ma questa non è sicurezza in sé, questo è puro ego e non piace a nessuno. O ci si conosce da anni, oppure non si può sapere cosa piacerà all’interlocutore. Di certo non si può saperlo sicuramente.
Il problema è che neanche interessa, perché il meccanismo è “l’ho scritto io, a me piace, piacerà anche a te”, unito a quel “ho bisogno di lettori” che ci riporta all’idea che la scrittura, in quanto espressione, voglia un suo pubblico.
Avere passione per quello che si scrive è importante, fondamentale, ma non deve farci perdere il contatto con la realtà, né l’accortezza nel considerare i gusti e gli spazi degli altri. Né questo è il modo corretto per attirare i lettori, che invece alzeranno gli occhi al cielo e ignoreranno il nostro invito alla lettura – se di invito si può parlare quando si usano gli imperativi.

Lo spam, il volantinaggio della rete
Quella di cui ho appena scritto è una forma di spam, una pubblicità non richiesta e invasiva, ma non ne è la forma più disprezzata. Infatti l’autore del “ti piacerà sicuramente” tende a fare questo discorso a chi può recensirlo o a persone che ha incrociato nel mondo dei gruppi e delle pagine Facebook apposite. Insomma, un aggancio con il mondo dei libri c’è e lui lo sfrutta nel modo sbagliato.
Una forma di promozione sgarbata più subdola è la risposta “c’è il mio libro” ai post che chiedono consigli di lettura: se non è spam nel senso stretto del termine, è quantomeno di cattivo gusto. Siamo tutti tentati di dare questa risposta, perché quello è un potenziale lettore, ma rischia di far storcere un po’ il naso e suonare bisognoso. Anticipo per un istante un discorso che farò più avanti: in questi casi, approfittiamone per consigliare il libro di un emergente che ci piace e con cui, magari, abbiamo creato un legame professionale (o d’amicizia, perché no), magari spendendo due paroline sulla trama invece di limitarci a copiare il link. Ovviamente, diverso è il caso in cui la richiesta di consigli di lettura riguardi i libri scritti dagli utenti del gruppo o della pagina, perché in quel caso è lecito rispondere promuovendosi.
Un discorso a parte lo meritano proprio i gruppi, in cui spesso compaiono figuri in grado di infrangere manciate di regole tutte in un colpo solo. La condivisione di link d’acquisto si può fare solo il mercoledì, riguardo a specifici argomenti? Ed eccolo di lunedì a fare pubblicità al suo libro, senza neanche curarsi del tema previsto. Così non si guadagnano lettori e l’unico risultato sarà di essere cacciati dai gruppi, che sono invece uno strumento fondamentale per la promozione sana dei nostri libri. Supponendo che chi scrive sia in grado di leggere, direi che sorbirsi mezza paginetta di regolamento è meglio che privarsi di un canale che non solo ci permette di farci conoscere, ma anche di creare le connessioni di cui discuterò più avanti.
La promozione aggressiva peggiore, però, è il tag di massa, fatto con tutti, indistintamente. “Esce il mio libro”, con una bella immaginona della copertina e il numero massimo di persone che è possibile citare in una foto contro la loro volontà. Sembra una leggenda metropolitana, ma è capitato, spesso da parte di persone che si sono approcciate tardi ai social e che, quindi, hanno poca confidenza con l’etichetta del web.

Complotti e drammi emotivi
Esistono poi autori che vivono per essere al centro di complicati meccanismi che finiscono per soffocare l’opera e porre l’attenzione solo sulla persona. Litigi, frecciatine, fraintendimenti, veri e propri complotti ai loro danni… funziona, è innegabile, perché l’essere umano sul web è attirato dai flame e dagli scontri più di quanto non lo sia nella vita di tutti i giorni, ma bisogna essere davvero abili per uscirne con la reputazione professionale intatta. Se alcuni lettori verranno attirati, altri si stancheranno presto del teatrino e si allontaneranno, e il rischio che i secondi siano più dei primi è reale.
Allo stesso modo, non colgo i risvolti positivi in tutti quei meccanismi volti a suscitare compassione, sperando che questo comporti letture e vendite da parte dei passanti. “Non mi legge nessuno” è capitato anche a me di dirlo, come capita a tutti di sfogarsi nei momenti di sconforto, né dev’essere sempre e comunque vietato. Bisogna però cercare di mediare, di razionalizzare, di capire quando si sta usando il pietismo come arma promozionale e quando è puro e semplice sfogo emotivo. Il lettore si renderà presto conto della frequenza con cui ci si lamenta, con cui si additano come colpevoli quelli che non comprano e non leggono, e potrebbe lasciarci ad annegare nel nostro bisogno di attenzioni per rivolgersi a chi adotta metodi promozionali più professionali.
Peggio, forse, sono solo quelli che hanno sempre qualcosa da ridire sui colleghi, che criticano e correggono dall’alto delle loro competenze. Certo, un lettore ha sempre il diritto di criticare ed esprimersi, ma per uno scrittore la realtà è più complessa. In questo caso, ci viene difficile comprendere che tanto più ci poniamo su un piedistallo, tanto più dovremo dimostrare di meritarlo. Non verremo letti dai nostri colleghi con un occhio chiuso, perché in fondo “è la prima opera”, “siamo tutti emergenti”, “qualche refuso scappa”, ma verremo letti per come ci siamo posti: pretendiamo perfezione dagli altri, dobbiamo dimostrare che le nostre opere sono all’altezza. Talk the talk, walk the walk, come dicono oltreoceano.

Creare connessioni e raccontare storie
Come promuoversi, allora, se tutto è vietato?
I social sono un’arma affilata che, maneggiata bene, colpisce dritta il bersaglio. Tutto sta nel non darsela sui piedi e amputarsi gli alluci, ecco.
Conoscere altri emergenti, conoscere i potenziali lettori, è il punto di partenza e per farlo il segreto è esserci. Partecipare ai gruppi, quindi, sempre leggendo il regolamento e senza limitarsi al mero spam nei giorni prestabiliti; avere una presenza diffusa e costante, almeno su Facebook e Instagram (per i più svergognati, come la sottoscritta, vale anche YouTube); se si ha tempo per coltivarli, può andare bene anche crearsi una pagina (con il nostro nome, non il titolo dell’opera) o un blog.
Cosa fare di tutti questi mezzi sta alle nostre inclinazioni personali. Io sono per l’essere se stessi, con moderazione. I lettori, idealmente, non sono amici che vi perdoneranno l’essere sopra le righe a ogni costo, per esempio, anche quando è un tratto della vostra personalità. Non fingere, quindi, ma sapersi mettere in luce nel modo giusto. L’ideale, quando si parla di social, è condividere storie, far trasparire emozioni, connettersi all’altro toccandolo in punti che lo fanno sentire compreso.
Il passo dopo a “esserci” è “esserci per gli altri”: iniziamo a leggere i colleghi, magari condividendo quelli che ci colpiscono e spiegando perché ci piacciono, consigliando, chiacchierando, discutendo. I social sono connessione, nascono per creare comunità, e sarebbe bene approfittarne per crescere come autori e come persone, fra la condivisione di un gattino e l’altra (gattini che sono un diritto sacrosanto e inalienabile di tutti).
Visto il bagaglio culturale italiano, sorgerà spontanea in noi la domanda “cosa ce ne viene?” e la risposta è che – se quello che scriviamo è valido e curato in modo adeguato – gli altri potrebbero fare lo stesso con noi.

Ipocrisie, buonismi, opportunismi
Come per tutto, anche le opinioni che ho appena esposto hanno le loro estreme conseguenze. C’è chi dice che questa sia ipocrisia, che condividere gli altri sia solo un modo per ricevere in cambio qualcosa. Non credo sia così.
Personalmente non penso sia il caso, né sia salutare, promuovere tutti quelli con cui entriamo in contatto, senza curarci della qualità e del nostro personale apprezzamento per chi stiamo condividendo. Leggo una quantità indecente di emergenti, come dico spesso, ma in passato ho parlato solo di una manciata di loro. Sono quelli che mi sono piaciuti tanto da consigliarli e con alcuni ho poi creato, per stima e curiosità, anche rapporti personali per cui mi sento tutt’ora una persona molto fortunata.
Attaccati sono anche i blogger che non vogliono fare recensioni negative quando si trovano davanti prodotti di emergenti che le meriterebbero. Ipocrisia, per me, sarebbe parlarne positivamente, in modo che il blog non abbia problemi e continui ad avere pubblico anche grazie all’autore che condividerà volentieri l’articolo. Più corretto, invece – sempre se non si è a proprio agio con l’idea di fare una stroncatura –, decidere di evitare di pubblicarla, magari contattando l’autore per esporgli il parere in modo che ci sia comunque confronto e crescita, senza la pubblica ghigliottina che potrebbe annientare qualsiasi possibilità futura di chi magari è stato ingenuo e inesperto (“emergente” nella nuova e opinabile accezione negativa del termine). Certo, se ci si mette in gioco bisogna saper giocare e ogni blog ha la sua linea d’azione; da autori, è nostro compito imparare almeno a comprendere le critiche, per poi decidere se accettarle per crescere o ignorarle perché inutili. Anche in questo caso, è necessario prendere le distanze, razionalizzare, analizzare.

Conclusione
Non esiste una regola perfetta per stare sul web da emergenti, come non esiste una regola perfetta per stare al mondo nel modo giusto. Ci sono direzioni, però, che si possono seguire per dare e ottenere il meglio, restando fedeli a se stessi e promuovendosi allo stesso tempo. È un gioco da equilibristi che a volte può sembrare complesso, ma che è tutta questione di allenamento. Un passo alla volta, un errore e una correzione, e si può prendere la via giusta, magari emergendo per davvero.
E sì, tutto quello che ho scritto vale anche per me.

CAMPNANOWRIMO 2018

Ebbene sì, anche questo aprile mi sono lanciata nell’avventura del CampNaNoWriMo. Ne caso vi stiate chiedendo “di cosa diavolo parli?”, qui c’è un articolo in cui spiego di cosa si tratta.
Quindi oggi andiamo al sodo e sorvoliamo sulle introduzioni: come sta andando il mio personale CampNaNoWriMo?

Non in modo eccellente, ad essere onesti. Sapevo che aprile sarebbe stato un po’ un incubo, per via dell’uscita imminente di “Denti e ossa, carne e sangue”, per via delle commissioni grafiche, per via del tempo che manca sempre quando ci si imbarca in tremila attività come fa la sottoscritta. Però, come sempre, questi eventi di scrittura permettono di scrivere più di quanto si farebbe senza di loro. Aprile l’avrei passato ignorando completamente il mio progetto (progetto con cui sto pensando di fare un passo in territorio sconosciuto, ossia mandarlo a qualche CE una volta finito, per la prima volta nella mia vita), invece mi ci sto dedicando un pochino ogni giorno, avanzando piano ma avanzando comunque.

La realtà è che eventi di questo tipo sono utili per chi, come la sottoscritta, è un underwriter, uno scrittore che sputa fuori poche parole sul foglio e tutte a fatica. Sono ben sotto la soglia di parole prevista per questa prima settimana, quindi, ma sono fiera di aver comunque scritto.
Inoltre non si possono affrontare i vari NaNoWriMo e CampNaNoWriMo senza gruppi in cui confrontarsi, parlarsi, sfidarsi. È il mio caso, per fortuna, visto che sono circondata da altre scrittrici e altri scrittori con cui ho sviluppato delle belle amicizie e con cui continuo a farmi forza!

Questo è quanto per la prima settimana…
Per i curiosi, ecco l’incipit del progetto (che potrebbe non sopravvivere a revisioni ed editing, ma che intanto è lì e volevo condividere con chi passerà da queste parti).

Venne al mondo davvero per colpa di una maglietta rosa che gli andava un po’ stretta, che gli abbracciava le costole e i fianchi come una seconda pelle. Peggio, venne al mondo per un colore, ed Elia pensò che i colori non si possono neanche toccare.
Fu un pensiero fugace, che con il tempo avrebbe trovato ridicolo, ma la paura gli aveva riempito la testa del battito rapido del cuore e non c’era stato spazio per la logica. Erano rimasti solo pensieri goffi e scoordinati, proprio come il suo corpo.
I colori non si possono toccare.
«Toglitela.»
Avrebbe ricordato i loro nomi, come succede sempre quando si condividono le prime volte con qualcuno. Quei tre ragazzi poco più grandi gli strapparono via una verginità mentale che non ci sarebbe stato modo di recuperare: l’idea che indossare una maglietta rosa non significasse nulla se non che quella specifica maglietta, di quello specifico colore, gli fosse piaciuta e l’avesse quindi chiesta in prestito a sua sorella. Niente di più semplice.
Invece era rosa. Era stretta, certo, ma era rosa. E il fatto che non capisse la portata di quel dettaglio come lo vedevano quei ragazzi, era il risultato di un’ingenuità per cui non ci sarebbe stato più spazio, dopo.
«Toglitela.»

10 IDEE REGALO PER SCRITTORI

Ah, il natale. Zenzero e cannella, neve e decorazioni, regali e… regali. Sì, ho uno spirito natalizio molto materialista: cibo, scuse per stare a casa invece di socializzare e regali, regali, regali!

Ecco una lista di dieci idee da cui attingere per accontentare gli amici scrittori o da condividere per mandare un messaggio sottile a chi di dovere, nel caso gli scrittori siate voi!

(Tutti i prezzi e i link si riferiscono al momento in cui ho scritto l’articolo).

1 – Taccuini

Ebbene sì, lo scrittore, per definizione, scrive. O, almeno, ci prova. Con questo regalo non potete sbagliare. Siamo nell’era della tecnologia, certo, ma uno scrittore deve (DEVE) poter sempre appuntare le idee. Ecco quindi grandi classici come i taccuini della Moleskine e i Leuchtturm1917 (questi ultimi perfetti per un bullet journal) che spaziano dai 12 ai 30 €. Oppure taccuini più fantasiosi come quelli della Legami o di Mr.Wonderful che vanno dai 10 ai 20 € circa.

2 – Penne

Cos’è un taccuino senza una penna? Un taccuino, è lapalissiano. In ogni caso, se volete completare il regalo o se volete fare un piccolo pensiero, le penne sono sempre un’ottima idea! Potete andare sul divertente, come per questa penna che recita “what would a unicorn do?” (7 €), oppure sul pratico, come per questo set da quattro penne della Faber-Castell (11 €) che è nella mia lista desideri perché ottimo per il bullet journal.

Sempre dalla mia personale lista di preferenze, ci sono anche gli Zebra Mildliner (17 €), evidenziatori delicati per cui ho una vera e propria ossessione.

Infine, per i più pratici o per chi vuole spendere davvero poco per completare un regalo, ecco un porta-penna da taccuino (3 €), perché “details make all the difference” (oh, lo dice il porta-penna, mica io).

Certo, se siete ricchi, non fatevi problemi a regalare una Montblanc!

3 – Foglietti adesivi

Sempre per idee, annotazioni, liste della spesa che lo scrittore non ha tempo di ricordare, un’altra possibilità carina e spesso economica sono i post-it, ottimi per completare un regalo più corposo. Da quelli eleganti e minimali della Moleskine (8 €) a quelli più in tema, come questi a forma di macchina da scrivere  (4 €).

4 – Planners da scrivania

Come detto, lo scrittore non ha tempo per ricordare. Inoltre, la sua attività lo obbliga a tenere traccia di tutto quello che deve pubblicare, pubblicizzare, consegnare, compilare… insomma, ci siamo capiti.
In suo aiuto possono arrivare i planners da scrivania, ossia blocchetti appositi per organizzare la propria vita. La Legami ne ha in varie fantasie, sia come tappetini del mouse, sia lunghi (6 €), mentre Mr.Wonderful ha le sue versioni carine dai colori tenui (7 €).

5 – Lavagne magnetiche

Quando viene il momento di concentrarsi sulla trama, nulla è più utile di una bella lavagna su cui spostare, collegare, appuntare ogni passaggio!
Ecco tre esempi da diverso budget: Quartet (9 €), AmazonBasics (da 14 a 50 € in base alla misura) e Sigel (sui 70 €).

Certo, non possono mancare i magneti abbinati: tondi (10 €), colorati (da 5 a 10 € in base alla quantità) o fantasiosi, come questi a forma di panda (13 €).

6 – Accessori tecnologici

D’accordo, cedo anche io al nostro secolo e vi lascio qualche consiglio che non maltratti i nostri amati alberi. Perché ormai gli scrittori hanno a che fare con i computer più che con le persone (non che la questione dispiaccia, sia chiaro), quindi ecco qualche idea in merito!

– Chiavette USB per non perdere i nostri preziosi documenti. Alcune sono davvero carine come questa 3.0 a forma di zampa di gattino (9 €), questa 3.0 a forma di clessidra (14 €) o quelle della Mr.Wonderful (20 €) a unicorno, nuvola e muffin.

– Tappetini del mouse con poggia-polso, sia decorati come questi (10 €) sia minimali come questo (7 €), per non farci venire il tunnel carpale prima del tempo (perché ci verrà, ci verrà…)

– Tastiere in stile macchina da scrivere, sia più economiche come questa (30 €) che davvero costose, ma molto belle, come questa (140 €).

7 – Gadgets

Veniamo ai consigli inutili! Non tutto può essere funzionale, nella vita, e se l’amico/a scrittore/scrittrice ha già tutto, potete optare per qualcuno di questi pensieri.

– Action figures di autori vari come Jane Austen, Shakespeare o Edgar Allan Poe (25 €).

– Poster da appiccicare in zona computer per ricordarci che qualcuno ce l’ha fatta come questo con King (15 €) o questo con una citazione di Wilde (18 €); oppure altri per motivarci con frasi tipo “get shit done” (un utile promemoria per gli scrittori) come questi (25 €).

8 – Tisane, tè, caffè…

Si sa, il sostentamento di uno scrittore è pura caffeina (anche nella sua variante teina), quindi consiglio una scorta di buste, foglie e capsule di vario genere (fra i tè che preferisco, quelli clipper). Certo, se avete soldi da sperperare (sopratutto per la spedizione), ci sono i tè letterari della novelteas, a tema grandi classici della letteratura.

Potete anche scegliere fra varie idee necessarie a chiunque sia dipendente dalle bevande calde.
Una bottiglia per fare le infusioni (25 €)
Infusori per tè in foglie (5 €), come questo a forma di teschio che mi è stato regalato per natale (13 €).
– Tazze, tazze, tazze! Che dicano qualcosa dell’animo dello scrittore, mentre fissa con disperazione il fondo annerito dal caffè. Quindi ecco una tazza con scritto “I am very busy – doing nothing in particular” (12 €), una con la definizione di book-lover (12 €), una che recita “carpe that fucking diem” (13 €) e una tazza da viaggio con un unicorno (17 €), perché non ci sono mai abbastanza oggetti a tema unicorno nella vita delle persone!

9 – Libri

Non potete sbagliar…
No, d’accordo, potete sbagliare. Regalare un libro a un lettore è sempre un azzardo se non lo conoscete bene o se non ha esplicitamente stilato per voi una lista. Per questo i miei consigli tengono in conto che vi informiate come agenti della CIA.

Per uno scrittore, consiglio qualche libro sulla scrittura (lo so, sorprendente). Ne esistono a milioni, ma ecco qualche titolo.
– Consigliatissimo come regalo “Scrittori. Grandi autori visti da fotografi” che desidero con l’intensità di mille soli. (10 €).
– Il classico (e per questo rischioso, perché probabilmente già in possesso) “On writing” di Stephen King (18 €).
“Il mestiere dello scrittore” di Murakami Haruki (10 €)
“Né per fama, né per denaro” di Anton Čechov (6 €)
“Scrivere pericolosamente. Riflessioni su vita, arte, letteratura” di James Joyce (7 €).

10 – Programmi e classi

Se conoscete un po’ meglio lo scrittore (così da sapere se potrà apprezzarli o se li possiede già) e desiderate fare un regalo utile, potete sempre optare per programmi come Scrivener (qui come regalarlo) o Scapple.

Consiglio finale: i corsi online! Consigliati sopratutto quelli sul marketing su cui, ahimè, gli scrittori (self e non) alle prime armi tendono ad essere carenti (come la sottoscritta). Corsi interessanti possono essere trovati su skillshare o su masterclass ed entrambi i siti permettono di regalarli!

Spero che questa lista possa esservi utile e vi auguro di trovare tanti bei regali sotto l’albero.
Emh, volevo dire, vi auguro buone feste!

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