5 TRUCCHI PER STARE BENE MENTALMENTE

Sono tornata dalla mia estate di vacanza dai social (conta come vacanza vera?) e immagino di essere mancata terribilmente. Non temete, non solo sono qui, ma porto con me un’utilissima lista!

Però il titolo di questo articoletto è un’esca, devo ammetterlo. Clickbait, come dicono i più tecnologici. No, non c’è bisogno di chiuderlo e scappare, perché c’è davvero una lista in cinque punti e parlo davvero di come stare bene. Solo che non sono trucchi. I trucchi, mi dispiace dirlo, non esistono. Anzi… iniziamo dal primo punto.

1 – Non esistono trucchi per stare bene

Non basta mangiare bacche di goji (ancora non ho capito cosa dovrebbero fare, né perché costino come diamanti) o fare il saluto al sole ogni mattina; adottare un cucciolo oppure sistemare la propria stanza. Non basta pensare positivo o fare una lista di “cose belle che ci sono capitate durante la giornata”; sfogarsi con un amico o fare passeggiate nei boschi. Stare bene dal punto di vista emotivo e psicologico è un lavoro impegnativo che non finirà mai, soprattutto se avete costruito la vostra vita (come me) su fondamenta fragili. E se questo vi lancia in una crisi esistenziale sul lavoro che richiederà sopravvivere per altri cinquant’anni minimo (a patto che la terra sopravviva altrettanto): complimenti, siete umani! Ecco una stella dorata e ora tornate alla vostra giornata.

Il punto è che non esiste una cura miracolosa, ma tanti piccoli accorgimenti uniti a tante grandi decisioni. E quando si raggiunge un punto di equilibrio – che sia evitare di piangere davanti a un bicchiere che si rompe perché “vedete? Non valgo nulla, non so neanche tenere in mano un bicchiere” o evitare una scenata iraconda degna di una tragedia greca perché una vecchiettina ci supera alla cassa oppure, ancora, riuscire ad alzarsi dal letto senza trovarla un’impresa impossibile –, si deve essere consapevoli che non si è arrivati da nessuna parte. Un giorno si sta bene, il giorno dopo si potrebbe stare male, il giorno dopo chi può dirlo? È un percorso in cui il traguardo è continuare a percorrere. Una di quelle gite panoramiche in cui non si sa bene dove si sta andando e che all’inizio ci sembra l’inferno (non dovevamo ascoltare l‘agenzia di viaggi, no) ma che poi diventa quasi piacevole. Anzi, no, bella.

2 – Piangere sui limoni versati

Viviamo in un’epoca in cui siamo bombardati dalla positività, dall’antica televisione ai più moderni influencers.
“Pensate positivo!”
“Starete bene!”
“Pensate alla fortuna che abbiamo a esistere!”
“Siate forti!”
“Se la vita vi dà limoni…”

In questo contesto il mio messaggio è: “concediamoci di stare male”. E non perché stare male sia bello o particolarmente augurabile; semplicemente perché concedersi di abbracciare la negatività quanto la positività è importante. Fondamentale. Siamo umani (lo dice la nostra stella dorata di prima) e siamo fatti per provare emozioni e sentimenti di ogni tipo, da quelli positivi a quelli negativi. E poi è importante per tutta una serie di motivi validi che comporrebbero una sotto-lista degna di un articolo clickbait a sé:

– non possiamo controllare quello che proviamo, ma solo come agiamo;
– reprimere la negatività significa entrare in un circolo vizioso in cui ogni volta che emozioni, pensieri e sentimenti negativi si palesano ci sentiamo in colpa, alimentandoli invece di elaborarli;
– questo tipo di cultura nasce dalla vergogna verso il disagio mentale. Una vergogna immotivata e malsana, figlia delle generazioni precedenti e non certo della nostra, che rischia solo di isolare invece che spingere a cercare supporto.

A volte si sta male, chi più chi meno, e negarlo non fa sparire il malessere, anzi…
Insomma, se la vita ci dà limoni, niente ci vieta di piangere perché volevamo mele. L’importante è avere gli strumenti per elaborare quello che proviamo (ecco il perché del prossimo punto).

3 – Chiedere supporto professionale*

Abbracciare la negatività non significa abbandonarsi al malessere e rassegnarsi per sempre a non stare bene. Se il disagio persiste, consultare il medico, dicono. E non vale solo per gli antidolorifici che ingurgitiamo al minimo dolorino.

Questo punto è complesso e di certo il mio articoletto frizzantino non sarà abbastanza per coprire la questione in modo esaustivo, ma voglio parlare un po’ di terapia: la mia idea è che dovrebbe passarla la mutua alla nascita, a tutti, nessuno escluso. Perché lo scopo non è entrare in uno studio, sedersi e piangere (succede, ma non è lo scopo finale), bensì costruire degli strumenti per affrontare la vita nel modo più sano possibile, godendosi il viaggio invece che odiando ogni secondo di ogni giorno. Se si è fortunati, questi strumenti vengono dati dai genitori; nella maggior parte dei casi, però, le generazioni precedenti non sanno manco cosa voglia dire avere consapevolezza delle proprie emozioni, figurarsi tramandare questa consapevolezza ai figli. E qui arriva in soccorso la terapia, che ci fornisce stampelle adeguate per imparare a camminare da soli come non ci è mai stato insegnato prima.

L’idea che sia per pochi, per i pazzi, non solo è sbagliata, ma anche fuori moda. Sì, una moda può essere positiva ed è proprio questo il caso. Si scherza sempre che i millennial non riescano a fare un discorso senza citare il proprio terapeuta… beh, grazie al cielo, dico io.

E non solo la terapia: viva i farmaci quando sono necessari! Viva il progresso scientifico che ci permette di avere un supporto, temporaneo o a lungo termine che sia, per imparare a vivere nel miglior modo possibile. E sì, sono consapevole che non sempre trovare il farmaco giusto sia facile, né credo sia bello averne bisogno (soprattutto per tutta la vita, nei casi più complessi), né escludo la problematicità che l’argomento porta con sé. Credo solo sia necessario svecchiare un po’ l’approccio, altrimenti la lista non sarebbe completa.

“Però la terapia costa”, dicono.
“Però non ti sei informato”, rispondo io.
Esistono ospedali, associazioni, consultori. Esiste internet per trovare opinioni su tutto questo e sui rispettivi professionisti (internet fa anche cose buone, davvero). La soluzione c’è, anche se non è veloce come sborsare settanta euro a seduta. Basta chiedere…

*Postilla: il nostro migliore amico, la portinaia, nostro cugino non sono terapeuti. Possiamo sfogarci con loro? Sì, certo. Consapevoli, però, che non sono formati per aiutarci, che potrebbero dire la cosa sbagliata, che rischiamo anche di caricarli di una responsabilità che non dovrebbero avere: quella della nostra salute mentale. Chi ci sta attorno è una risorsa preziosa e deve supportarci, ma non può sostituire il lavoro con un professionista.

**Postilla alla postilla: vale anche se il nostro amico fa il terapeuta di mestiere. È nostro amico, è coinvolto. Smettetela di cercare una scappatoia alla mia lista!

4 – Multitasking

Quindi basta andare in terapia, pensare negativo e staremo tutti bene?
No (vedi il primo punto).

Aiuta, a volte è fondamentale, ma lo è solo insieme a tanto altro. Il lavoro inizia fuori dallo studio, quando dobbiamo prendere le piccole decisioni di tutti i giorni. Il che significa mangiare, fare attività fisica, avere abitudini sane, circondarci da persone che ci supportano, trovare gioia in quello che ci piace fare e ridurre al minimo indispensabile quello che odiamo fare, per quanto ci è possibile.

Questa è la parte difficile: accettare che mente e corpo non sono due entità separate, così come non lo siamo noi e il mondo che ci circonda. Tutto è collegato e tutto ha delle ripercussioni sul resto.

Quindi sì, se stiamo tappati in un ufficio tutto il giorno, forse il latte possiamo andare a comprarlo a piedi. Se facciamo un lavoro solitario, forse possiamo trascinare qualcuno fuori per un caffè di tanto in tanto, se mangiamo sempre sofficini in padella forse un’insalata la domenica sera non ci ucciderà. Scelte piccole, che sembrano irrilevanti, ma che sono un altro dei modi in cui possiamo prenderci cura di noi. Senza ossessionarci, ma facendoci caso.

5 – MarieKonda (o quasi) la tua vita

Perché dico “per quanto ci è possibile”? Perché non ho mai creduto fosse sano imporsi regimi eccessivamente restrittivi, né tutti possiamo permetterci di tagliare con quello che è dannoso nella nostra vita da un giorno all’altro.

Però si vive una volta sola e il pianeta sta ticchettando. Allora ha senso sprecare il nostro tempo? Ha senso uscire con quell’amico che è una presenza tossica solo perché siamo amici da molto tempo? Ha senso tenersi un lavoro che odiamo senza neanche provare a trovare qualcos’altro? Ha senso mettere da parte un sogno perché farne un progetto è faticoso? Ha senso restare in una relazione che non ci appaga e da cui l’ultima gioia l’abbiamo avuta il Natale dell’87?

Se il metodo Konmari prevede di disfarci di tutto quello che non dà gioia (e che, in un momento no, potrebbe essere davvero di tutto), credo sia invece meglio disfarci di quello che ci ostacola attivamente, che ci ferisce, che ci danneggia perché tossico.

Non è facile, realizzare che dipende tutto da noi. Non è facile perché le volte in cui non è vero, le volte in cui dipende dagli altri, dalla fortuna, da una serie di eventi casuali sono quelle che fanno più male e che ci ricordiamo di più. E abbiamo tutto il diritto di stare male e di arrabbiarci. Anche in quei casi, però, come decidiamo di usare quello che ci accade, come decidiamo di elaborarlo, come ci lavoriamo sopra… beh, spetta a noi.

E questo è quanto. Non sono regole assolute, né ho alcuna competenza professionale per dirvi quanto sia giusto o meno quello che ho scritto (vedi il terzo punto), ma ho passato un periodo difficile e volevo condividere come ne sono uscita.
Niente trucchi, niente miracoli, ma tante grandi, piccole scelte.

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