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“Carmilla” di Joseph Sheridan Le Fanu

Ho letto questo celebre romanzetto di Le Fanu per la sfida #readingthedarkchallenge, proposta dai profili louchobi e sonosololibri su Instagram. Il prompt per il mese di novembre era la lettura di un’opera gotica pubblicata prima del ‘900 e questa mi è sembrata la scelta più ovvia, visto che la prima pubblicazione risale al 1872, visto che volevo leggerlo da tempo e visto che Violante Rune lo ha letto e consigliato sul suo profilo.

Trama:

Una misteriosa e affascinante fanciulla dal nome Carmilla viene affidata dalla madre alle cure di Laura e del ricco padre, nel loro antico castello in Stiria, isolato e immerso in un paesaggio incantato. Tutti nel castello rimangono affascinati dalla straordinaria bellezza della giovane, ma le sue abitudini insolite e il comportamento enigmatico cominceranno presto a suscitare curiosità e inquietudine. Nel frattempo, un morbo sconosciuto sta mietendo vittime nel villaggio circostante: gli abitanti terrorizzati e superstiziosi temono il ritorno dell’upir, il vampiro che nei vecchi racconti si narrava infestasse quei luoghi.


Partiamo dal presupposto che io non so parlare di classici di nessun tipo senza sentire un pressante senso di inadeguatezza (su cui non mi dilungo, anche se sarebbe un discorso interessante da approfondire). Di certo, quindi, ci saranno molti sottotesti e molti simbolismi che sono sfuggiti alla mia semplice lettura e che richiederebbero uno studio più approfondito di questo piccolo gioiellino.

Vi era, reputavo, una freddezza non consona alla sua età nel suo sorridente, malinconico e persistente rifiuto di accordarmi anche un solo scampolo di quanto di lei non risultasse evidente nella quotidianità del suo prolungato soggiorno presso di noi.

“Carmilla” è un racconto impregnato di mistero e sensualità (tanta, tanta sensualità), in cui l’ambientazione è un contorno inquietante non solo per ciò che di oscuro accade nel castello e nel paese, ma anche per ciò che di oscuro – se così vogliamo definirlo – si agita nell’animo umano.
Specialmente quando si parla di passione.

Quello che io provavo per lei è difficile da spiegare: provavo una forte, illogica attrazione e, allo stesso tempo, repulsione. E tuttavia, nonostante questo ambiguo intimo sentire, l’attrazione prevaleva.

E forse è stato questo a piacermi così tanto, a parte le atmosfere dei luoghi descritti dall’autore. I vampiri sono spesso simboli di sensualità e di ciò che veniva considerato proibito; sono esseri carnali e sanguigni, che rincorrono il piacere senza curarsi di questioni come la moralità o – peggio – la religione. In questo senso, sono naturali più dell’uomo, perché rispondono agli istinti. Naturali come la malattia (è di una malattia, infatti, che si parla in paese), perché come questa infettano e corrompono, almeno secondo la visione del tempo.
Ma se si legge quest’opera con gli occhi di oggi, c’è un che di liberatorio nel modo in cui le vittime rinnegano le restrizioni e si limitano a sentire, provare, abbandonarsi.
Non voglio romanticizzare la coercizione dai tratti soprannaturali che viene raccontata, né ovviamente lo fa mai l’autore attraverso la voce di Laura, ma questo elemento liberatorio l’ho percepito con gli occhi del nostro tempo e lo riporto, con la consapevolezza di tutte le problematicità che comporta.

«Questa malattia che miete vittime ha origini naturali e la natura risponde solo a se stessa, non è così, forse? Da parte mia, credo fermamente che tutto ciò che sta in cielo, in terra e sotto i nostri piedi agisca come natura dispone.»

E di problematicità ce ne sono, per lo più dovute al contesto storico e culturale attorno all’opera. Carmilla affascina giovani donne, instaura rapporti intimi e appassionati fatti di dichiarazioni d’amore e di intimità fisica, e quindi il suo ruolo deve essere – per le logiche del tempo – quello dell’antagonista. Deve rappresentare il male. Così come deve andare incontro a un destino non proprio fortunato chi cede alle sue lusinghe. È il motivo per cui abbiamo avuto (e abbiamo ancora oggi, purtroppo) molti antagonisti queer-coded, ossia con un più o meno pesante sottotesto queer a caratterizzarli, nonché il terribile trope bury your gays che vede i personaggi queer cadere come mosche in libri, serie e film. Insomma, questo approccio ha lasciato un’eredità pesante da superare.
Ecco, tutto questo c’è, ma leggendo l’opera oggi non si può che provare tutt’altro. C’è del fascino malinconico nella figura di Carmilla e c’è una certa tristezza nel modo in cui il racconto si conclude. Passione e morte come due estremi legati dalla figura del vampiro, che li abbraccia senza rimorsi di coscienza, fino in fondo.

«La vita e la morte sono condizioni misteriose e sappiamo ben poco di entrambe.»

Non bisogna aspettarsi una storia piena di colpi di scena e con un ritmo serrato. Sono certa che al tempo avrà lasciato molti a bocca aperta, visto anche di quanto ha preceduto altre celebri narrazioni sui vampiri, ma oggi gustarlo credo possa lasciare tutt’altro stato d’animo. A me ha lasciato addosso solo una leggerissima inquietudine e, come ho detto, una certa malinconia.

«Voi siete mia, sarete mia, noi saremo una sola cosa, sempre.»

Insomma, consigliato a chi vuole leggere un piccolo racconto gotico dalle atmosfere buie e languide, non tanto per i risvolti inquietanti quanto per le dinamiche fra i personaggi e le bellissime dichiarazioni “d’amore e morte” di Carmilla.

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“Silver in the wood” di Emily Tesh

Lo ammetto, in questo periodo mi sto lasciando influenzare. Seguo canali e profili e blog e lascio che le letture altrui influenzino le mie. Non è sempre un’imitazione: a volte m’invaghisco di un titolo che all’influencer non è piaciuto poi troppo. È il caso di “Silver in the wood” di Emily Tesh, pubblicato nel 2019. Un romanzo breve che potete trovare in inglese su Amazon.

Trama:
There is a Wild Man who lives in the deep quiet of Greenhollow, and he listens to the wood. Tobias, tethered to the forest, does not dwell on his past life, but he lives a perfectly unremarkable existence with his cottage, his cat, and his dryads.
When Greenhollow Hall acquires a handsome, intensely curious new owner in Henry Silver, everything changes. Old secrets better left buried are dug up, and Tobias is forced to reckon with his troubled past—both the green magic of the woods, and the dark things that rest in its heart.


Come sempre, partiamo dalla copertina: non mi vergogno di ammettere che è uno dei motivi principali per cui ho deciso di acquistare questo libro, oltre alle atmosfere che prometteva e alle tematiche lgbt+ presenti. Ha qualcosa che mi ha catturata dall’inizio e la trovo perfetta per quello che si trova fra le pagine del libro, con quel profilo di un uomo tutt’uno con la natura.

«Is that what you did?» said Bramble. «You are much bigger than any other human. Did you plant yourself?»
Tobias caught his breath on a painful laugh. «Not exactly,» he said. «But maybe that’s close enough.»

Per il contenuto del romanzo, invece, sarò di certo più breve che in altre occasioni. Faccio più fatica a valutare la bellezza stilistica di una lingua che non è la mia e che non leggo abbastanza, per quanto la capisca senza problemi. La scrittura di Emily Tesh trova però un innegabile punto di forza nelle atmosfere che riesce a richiamare, nella costruzione di immagini vivide della natura e del soprannaturale che vi è legato. I dialoghi sono verosimili, le descrizioni si intrecciano bene con le azioni, le gestualità richiamano alla perfezione i personaggi. Inoltre, da amante delle scene che si chiudono in modo incisivo, non ho potuto fare a meno di notare e apprezzare questo particolare per tutto il corso del romanzo breve.

A long, long time, that was what. A long time, whispered the low rustle of the breeze in the leaves outside. A long time, sang the drip-drip-drip of rainwater, softly, as Tobias sat clear-eyed and sleepless in the dark, listening to the wood.

La dinamica fra i personaggi è una delle mie preferite, fatta di differenze e resistenze. Tobias, il guardiano del bosco, è un uomo silenzioso tanto quanto è grande, dai gesti e dalle parole misurate alla perfezione; Silver è giovane, pieno di curiosità verso il soprannaturale, istintivo e, a tratti, spericolato.
E, se questa caratterizzazione aiuta a immedesimarsi e desiderare di sapere come finirà la storia, ciò che mi ha davvero attratta in “Silver in the wood” è il modo in cui le atmosfere sanno farsi inquietanti. Non si tratta mai di vera paura e, perfino quando vengono descritti dettagli macabri, non c’è mai orrore; piuttosto si ha la continua sensazione che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato e oscuro ad abitare dentro Greenhollow.

Time had softened around him the way it so often did. Maybe that was the wood’s version of pity.

La storia inizia piano, quasi in punta di piedi, come a restituire al lettore la quiete del bosco, ma si lascia divorare in fretta quando gli eventi vengono messi in moto. Mi sono ritrovata a volte commossa dal punto di vista di Tobias, a volte spaventata per il destino dei personaggi, a volte in ansia per ciò che incombe voltata la pagina. E, per quanto la storia possa risentire di un’eccessiva linearità, non sono mancate le pieghe inaspettate in grado di sorprendermi.

«I still say all’s well that ends well.»
Silver laughed suddenly. «Of course you do. You must be the most forgiving man alive.»

Insomma, consiglio questo romanzo breve a chiunque voglia una storia atmosferica, un po’ inquietante, con personaggi interessanti le cui vicende si intrecciano con il soprannaturale che abita il bosco, nel bene e nel male.

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“Fornace” di Livia Llewellyn

Le edizioni Hypnos pubblicano e importano romanzi particolarissimi, di genere fantastico e weird (recuperando classici o pubblicando voci moderne) e le ho scoperte grazie alla passione del mio ragazzo per questi generi.
Ho preso in prestito proprio dalle sue letture il libro “Fornace” di Livia Llewellyn (uscito nel 2016 e pubblicato in italiano nel 2018) perché volevo leggere qualcosa di adatto alla stagione. Lo potete trovare sul sito della casa editrice, negli store online e nella vostra libreria di fiducia.

Trama:
Dopo gli oscuri recessi di Obsidia in “Profondità”, torna Livia Llewellyn con la sua raccolta di racconti più importante, quattordici storie che si insinuano nei più profondi e torbidi meandri dell’essere umano, con una prosa oscura, commovente e disturbante, come una lama che affonda nella carne, in un cruento e sensuale viaggio sulla scia di autori quali Edgar Allan Poe, Clive Barker e Caitlín R. Kiernan.


Scrivere una recensione per “Fornace” è un po’ un’impresa. Prima di tutto perché è un genere che non ho mai, mai letto: è il mio primo romanzo weird e, come dicevo al mio ragazzo, temo di essermi buttata di testa da una scogliera quando sarebbe stato meglio iniziare gradualmente a immergermi dalla spiaggia.
Secondo, perché “Fornace” è… un’esperienza.

Lo chiamiamo il sorriso delizioso, perché stiamo per trovare qualcosa di strano e delizioso, per lacerarlo e prosciugarlo. È un’altra cosa che fa impazzire i nostri genitori, perché non sembra per niente un sorriso.

Partiamo dall’aspetto, come sempre. Le edizioni Hypnos sono particolarmente curate, da questo punto di vista, e qui esprimono tutta la capacità di inquietare. Ho dovuto tenere il libro voltato quando lo posavo da qualche parte perché far cadere lo sguardo sulla copertina rischiava di spaventarmi ogni singola volta.
Ma all’interno non si trova horror immediato come la copertina suggerirebbe, né racconti che è facile descrivere e circoscrivere. Leggere “Fornace” è leggere un weird erotico, fisico, disturbante.

C’è un certo modo in cui un frutto comincia a raggrinzire e appassire, collassa su se stesso attorno ai bordi di un’ammaccatura comparsa improvvisamente, emanando l’aroma dolciastro e nauseante della decomposizione e della morte, che sempre attrae affamate creature striscianti.

L’autrice sperimenta con forme e stili in ogni racconto, senza mai abbandonare una certa liricità da cui sono stata subito rapita e che trovo il punto forte della raccolta. Il più ardito in questo senso è “E l’amore non avrà alcun dominio”, mentre il più squisitamente decadente è “Fornace” (il mio preferito, anche se è una dura lotta).
Il linguaggio che Llewellyn utilizza si semplifica dove necessario, si fa abrasivo e volgare quando vuole colpire alla pancia, poi quasi oscuro se l’intento è inquietare, per diventare estremamente evocativo quando il singolo racconto lo richiede. Così leggere “Fornace” è stato come essere vittima di un esperimento il cui scopo era comprendere quanto potere hanno le parole. Potere di suscitare emozioni vivide e immagini concrete. Potere di inquietare. Potere di disgustare.

Cieli kodocromatici trapunti di stelle sussurrano emissioni radio tra strizzatine d’occhio attraverso le terre verde velluto.

E, per restare in tema di disgusto, quando leggo una raccolta di racconti mi piace scovare il filo conduttore, i temi su cui chi scrive ritorna e che – forse – sono un po’ le note distintive della sua voce. Qui i racconti sono collegati fra loro da un erotismo disturbante e corporeo, che spesso mi ha chiuso lo stomaco. Il primo racconto, “Panopticon” è forse quello più estremo sotto questo punto di vista, quasi messo lì per scoraggiare le persone facilmente impressionabili quando si tratta di sesso, perversione e fisicità.

Piccole venature blu e nere si diffondono dai margini dei morsi, una rete che si allarga sotto il suo sguardo, impercettibilmente lenta ma costante. Attorno alle linee, la carne fiorisce in un tenue grigio pallido.

Ma un altro fondamento è la donna, posta al centro di tutti i racconti, che non è una donna sminuita anche quando è vittima dell’orrore, non è ridotta alla bidimensionalità anche quando i racconti sono brevi e pregni di accadimenti, non resta mai negli spazi che la società o la morale o la visione maschile vogliono imporle. È una donna sì sessuale, ma non sessualizzata.
Sono protagoniste mosse prevalentemente dalla loro curiosità (“Cinereo” o “Alla corte di re Cupressaceae, 1982”, per fare due esempi evidenti), o dalla necessità di liberarsi di una realtà opprimente e ripetitiva per ottenere ciò che desiderano (“Alloctono” o “Signore della caccia”) o sono protagoniste che si rifiutano di subire un destino che trovano ingiusto (“I misteri” ma anche “L’ultima pulita, luminosa estate” con la sua chiusa finale da brividi).
L’unico racconto che – da questo punto di vista – perde un po’ questa forza è “L’irraggiungibile”, che non mi ha convinta e che risente di problematicità forse meno consapevoli di tutte le altre presenti nella raccolta. Un peccato, insomma, chiudere con il racconto che ho trovato meno efficace, ma un piacere arrivare fino a lì e godermi il viaggio.

«Sono tenuto ad avvertirla: il suo corpo cambierà. La sua mente cambierà. E sarà doloroso.»
«Sono una donna. È sempre doloroso.»

Ma non è solo erotismo disturbante, quello che mi sono trovata per le mani. I tratti weird, da quello che posso intuire con la mia scarsa esperienza del genere, sono tutti presenti. Semplicemente vengono declinati e piegati alle esigenze delle singole storie e dei singoli personaggi. I significati, se esistono, sono nascosti o molteplici, le interpretazioni tutte a carico di chi legge, il senso di smarrimento una costante a cui il lettore è sapientemente sottoposto. Per una persona come me, sempre abituata a trovare il senso in quello che leggo, questo libro ha richiesto uno sforzo consapevole per riadattare la mia forma mentale.

E la vita non ha ruotato abbastanza attorno a cose fuori dai suoi desideri, attorno ai desideri di altri e al prezzo che pagano perché lei li avveri?

Insomma, una raccolta di racconti che non è per tutti e che va approcciata con attenzione, ma che può trasportarvi in un viaggio incredibile, se finisce per fare al caso vostro com’è capitato a me!

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“Ipnagogica” di Christian Sartirana

Ho già avuto modo di parlare della casa editrice Acheron Books nella mia recensione di Nightbird, quindi oggi voglio raccontare di un altro loro titolo, preso sempre nella stessa occasione del precedente (ricordate, quando le fiere del libro esistevano e potevamo girare per gli stand? ecco). Si tratta di “Ipnagogica” di Christian Sartirana, una raccolta di racconti pubblicata nel 2017 che potrete acquistare in ebook sul sito dell’editore e sugli store online, visto che il cartaceo sembra esaurito un po’ ovunque (ma dovrebbe tornare disponibile).

Trama:
Cinque racconti horror che vi condurranno lungo le strade perdute del Piemonte da incubo di Christian Sartirana, dove si incrociano fantasmi di vecchi carri funebri, bambini con gli occhi cuciti, porte che si aprono su luoghi sbagliati, e mani deformi dotate di vita propria…


Iniziamo dalla mia storia con il genere. Verso l’horror non ho una particolare opinione: non è il mio genere preferito e i libri dell’orrore che mi restano dentro sono spesso quelli molto umani e molto viscerali; però amo profondamente le raccolte di racconti e sono uno dei formati che ad oggi preferisco leggere in assoluto.
Quindi “Ipnagogica” parte avvantaggiata, ma viene anche aiutata dalla copertina (credo di poter dichiarare che la Acheron centri sempre il bersaglio, da questo punto di vista). Nonostante il soggetto principale riguardi uno dei racconti che meno mi ha colpito della raccolta, la copertina richiama i temi delle storie alla perfezione ed è “tutta da scoprire”, con piccole scritte che richiamano luoghi e nomi dei racconti.

Enzo avanzò a tastoni sul pavimento chiazzato di ombre. L’oscurità si condensava sotto i mobili, ondeggiando come qualcosa di liquido.

Ma veniamo a ciò che conta davvero: il contenuto.
Ipnagogica è scritto in modo semplice e scorrevole, senza abbellimenti ed escursioni stilistiche. Forse, qua e là, è una scrittura un po’ troppo asciutta per i miei gusti, ma arriva dritta al punto e non si risparmia di creare immagini intense e atmosfere cupe, anche grazie alla descrizione dei luoghi e alla trasposizione delle sensazioni provate dai personaggi.

Tutti i volti avevano la medesima faccia. Vale a dire nessuna.
Superfici lisce, solcate soltanto da ombre di vuoto e incapaci di qualunque piega emotiva.

I cinque racconti della raccolta sono molto variegati e toccano un po’ tutte le atmosfere dell’horror, dalle metamorfosi ai fantasmi, dalla stregoneria al weird. Il vero punto di forza, la vera originalità, l’ho però riscontrata nell’ultimo racconto, “La memoria della polvere”. Fortemente legato al territorio di Casale Monferrato e alla sua storia, in questo racconto l’atmosfera si fa malinconica in modo quasi opprimente e il senso di sconforto e rassegnazione è palpabile. Non mi ha inquietata come hanno fatto, per esempio, “La porta” o “Una collezione di cattiverie” (il più efficace, secondo me, sotto questo punto di vista), ma è quello che mi ha lasciato dentro di più e che dà la giusta chiusa alle tematiche che si susseguono nei diversi racconti.

«C’è un’atmosfera pesante, non dirmi che non l’hai sentita anche tu. L’aria puzza come in una soffitta. Mi sembra di respirare la polvere.»

Come per tutte le raccolte, infatti, è possibile trovare un certo filo conduttore. Non è per forza lampante, spesso è frutto dei temi cari agli autori, ma c’è sempre qualcosa che lega le diverse storie. Qui, per esempio, è la mentalità ristretta che si associa tradizionalmente alle piccole cittadine, è il pettegolezzo, è il giudizio nei confronti degli altri, è l’apparenza da famigliola perfetta che si disgrega rivelando gli orrori che si nascondono dietro le facciate provinciali.

Ho sentito che si è ammazzata.
Chi te l’ha detto.
Il solito…
Palle! Sul giornale c’è scritto che è stato un incidente…
Risata.

E per dar luce (o, meglio, ombra) a questo tema portante, i personaggi dovrebbero avere un ruolo chiave. Ecco, vista la mia preferenza per le esplorazioni (eviscerazioni?) umane, ho sentito un po’ la mancanza di una caratterizzazione più intima degli esseri umani messi al centro di queste storie. È forse l’unico punto che considererei davvero debole di questa raccolta: si dedica dello spazio al vissuto delle famiglie, alle motivazioni di un trasferimento, ai fatti nudi e crudi che hanno preceduto il momento della narrazione, e poco a tratteggiare in modo efficace “chi siano” questi personaggi. Si tratta sempre di racconti, però, e a volte non è semplice riuscire a rimandare una personalità in uno spazio così ridotto, soprattutto se – come in questo caso – si predilige l’azione, l’atmosfera e la descrizione di luoghi, immagini e sensazioni.

«C’era sui giornali. Genitori abbandonano la figlia che muore soffocata nella culla…»
«Soffocata?»
«Sì, con un lenzuolo in bocca. Se l’è ingoiato per la fame, credo».

Quindi, ciò che a me non ha convinto del tutto potrebbe essere proprio ciò che appassiona un amante dell’horror, che troverà in questa raccolta esattamente quello che sta cercando. Se vi piacciono i racconti inquietanti e atmosferici, scritti in modo scorrevole, in cui le situazioni e gli avvenimenti sono il fulcro dell’orrore, allora questa raccolta potrebbe proprio fare al caso vostro!

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“Boy Erased. Vite cancellate” di Garrard Conley

Penso che la casa editrice Black Coffee non abbia bisogno di presentazioni: pubblica autori nordamericani contemporanei in edizioni compatte e curate dal punto di vista grafico. Non solo non credo ci sia altro che io possa aggiungere sulla casa editrice, ma il libro stesso è abbastanza conosciuto, anche grazie alla sua recente trasposizione cinematografica. Quindi oggi parleremo di “Boy Erased. Vite cancellate” di Garrard Conley, uscito nel 2018 per le edizioni Black Coffee.

Trama: A diciannove anni Garrard, figlio di un pastore battista e devoto membro della vita religiosa di una piccola città dell’Arkansas, è costretto a confessare ai genitori la propria omosessualità. La loro reazione lo mette di fronte a una scelta che gli cambierà la vita: perdere la famiglia, gli amici e il dio che ama sin dalla nascita oppure sottoporsi a una terapia di riorientamento sessuale, o terapia riparativa, per “curarsi” dall’omosessualità, un programma in dodici passi da cui dovrebbe riemergere eterosessuale, ex-gay, purificato dagli empi istinti che lo animano e ritemprato nella fede in Dio attraverso lo scampato pericolo del peccato.
Quello di Garrard è un viaggio lungo e doloroso grazie al quale, tuttavia, trova la forza e la consapevolezza necessarie per affermare la sua vera natura e conquistarsi il perdono di cui ha bisogno. Affrontando a viso aperto il suo passato sepolto e il peso di una vita vissuta nell’ombra, in questo memoir l’autore esamina il complesso rapporto che lega famiglia, religione e comunità. Straziante e insieme liberatorio, Boy Erased è un’ode all’amore che sopravvive nonostante tutto.


Partiamo da un’informazione personale che influirà sulle mie osservazioni: non amo particolarmente i memoir. Ecco, l’ho ammesso, ora possono volare le pietre.
Ho scelto di fare un’eccezione per questo libro perché il tema che tratta mi interessa particolarmente e perché vivo nel continuo tentativo di superare le deludenti esperienze avute in materia di memoir in precedenza.
Aggiungo un’altra premessa: parlare di un libro di questo genere non è semplice, perché non si sta leggendo una storia astratta e lontana, ma la vita di una persona, la sua esperienza.
In “Boy Erased”, in particolare, si racconta l’esperienza traumatizzante delle terapie riparative, del crescere in una famiglia estremamente religiosa, dell’omofobia interiorizzata, della violenza sessuale e di altre tematiche dure e difficili. Questo è il motivo per cui buona parte delle mie impressioni sarà molto personale, invece che basata su tecniche narrative e su questioni più oggettive (per quante possano essercene in una recensione, certo).

Trascorse un minuto di silenzio e poi, consapevole di non poterlo nascondere, scoppiai a piangere e le dissi che era vero, che ero gay.

Molti aspetti di questo libro mi sono piaciuti. Prima di tutto il modo in cui si parla della terapia riparativa, tema portante del memoir. Non ci sono scene estreme o torture violente, ma non per questo ciò che succede è meno orribile. Anzi: invece di drammatizzare quello che è avvenuto, l’autore ci mostra le piccole torture quotidiane, le regole assurde e la pressione psicologica, restituendoci alla perfezione la sensazione soffocante di trovarsi nella sua situazione.
Gli approcci adottati prendono in prestito tecniche dalla psicologia e le distorcono per ottenere obiettivi malsani: vengono considerati rilevanti i rapporti con il padre, i “peccati” tramandati in famiglia (come l’alcolismo) e se ne fa una spiegazione per l’omosessualità, che quindi avrebbe delle radici rilevabili e – possibilmente – una cura. Proprio come se fosse una malattia.
Ecco, questo nel libro è mostrato bene, secondo me, e si capisce come queste terapie influenzino i comportamenti sessuali tramite manipolazione psicologica, ma non possano (proprio perché impossibile) cambiare l’orientamento sessuale.

«La prima cosa da fare è capire come siete diventati dipendenti dal sesso, da pensieri che non giungono da Dio» disse Smid. Eravamo al Primo Passo dei dodici previsti dal programma di Love in Action, i cui principi equiparavano i peccati di infedeltà, zooerastia, pedofilia e omosessualità a dipendenze quali l’alcolismo e il gioco d’azzardo.

Un altro tema che ho trovato trattato particolarmente bene è quello della religione. L’autore vuole che la terapia funzioni, si sottopone a tutto questo nella speranza di non perdere l’intero mondo che conosce, la sua famiglia, il loro supporto economico, la sua comunità. La fede è stata una compagna di vita, presente tanto quanto i genitori, e lui non vuole deludere dio proprio come non vuole deludere sua madre e suo padre.
Credo che anche questo getti in qualche modo una luce più intensa sulla questione delle terapie riparative. Siamo portati a pensare a persone che vengono mandate lì con la forza, mentre la realtà a volte è molto più complessa. L’autore potrebbe perdere tutto e quindi è forzato a prendere parte alla terapia, ma ha in sé anche una contraddittoria speranza che la sua famiglia abbia ragione e che una cura esista.
Non viene privato di questa verosimile complessità anche il rapporto con i genitori. L’autore riesce a comprenderli, vuole loro bene, e non mancano momenti di genuina felicità nei suoi ricordi. È pronto a rinnegare se stesso per non perderli ed è interessante seguire il percorso che parte da tutte queste premesse per arrivare alla conclusione del momoir. Senza fare spoiler di alcun tipo, anche il finale è complesso e sfumato, degno della realtà di un’esperienza invece che di una narrazione romanzata.

«Voglio cambiare» dissi. «Sono stufo di sentirmi così».
«Col tempo diventa più facile. Potresti trasferirti altrove, in una città più grande».
«Non voglio scappare. Voglio bene ai miei». Frasi patetiche. Parole infantili. Ma non riuscivo a trattenermi, era la verità.

Un aspetto che non mi è piaciuto di questa lettura è la forma che l’autore ha deciso di adottare. Prima di tutto, i fatti non sono in ordine cronologico, ma non appaiono neanche in un ordine che il lettore può rilevare o che ha un significato più profondo. Tutto è collegato quasi per associazione mentale, saltando dal passato remoto (con aneddoti su genitori e nonni) a quello più recente, passando per i momenti della terapia fino ad arrivare al presente. Sono frammenti di ricordi, pezzetti di vita, che invece di enfatizzare un racconto emotivo, tendono a disperderne l’intensità, a mio parere. Poteva funzionare, ma non sono certa lo faccia.

A casa ero in grado di recitare un’elegante preghiera, dire la mia sulla grazia di Dio, citare le scritture al momento giusto, sfoggiare il mio sorriso migliore. Era un sollievo tornare in un mondo noto, indulgere in luoghi comuni, placare il mio animo.

La narrazione risente poi delle continue divagazioni che l’autore fa e che rubano molto spazio a ciò che davvero sorregge il memoir. A volte, queste divagazioni sembrano servire a mostrare lo stile evocativo e poetico dell’autore (stile che amo quando è messo al servizio della storia e non viceversa), altre volte non si comprende bene il motivo di certi aneddoti che non aggiungono all’esperienza di cui stiamo leggendo, né per associazione né per contrasto.

I campi di cotone si estendevano a perdita d’occhio. Brillavano come di luce intermittente nella semioscurità mentre il cielo si chiudeva piano, come il coperchio di ceramica di una delle pignatte della nonna. Sposando la mamma, poco meno di un anno dopo, mio padre avrebbe ereditato tutto quel ben di Dio, anche se ancora non lo sapeva.

In conclusione: il romanzo non mi ha convinta fino in fondo, ma ne consiglio comunque la lettura a chiunque voglia saperne di più sulle terapie riparative senza drammatizzazioni o sensazionalismi, attraverso una testimonianza vera che non fa sconti sulla complessità della realtà, ma che perde un po’ di efficacia emotiva a causa della forma in cui è scritta e organizzata.

L’OUTSIDER A TUTTI I COSTI: quando essere speciali diventa banale

In un mondo ideale, tutti i protagonisti dovrebbero essere interessanti da leggere per qualche motivo. Nell’appuntaventi di oggi, parleremo di quando quel motivo è la loro personalità “diversa” o “particolare”, e di come non scrivere un personaggio fastidioso che il lettore farà fatica a digerire.

Sì, perché il rischio con un protagonista che ha un carattere, una visione del mondo e una filosofia di vita da “outsider” è quello di scrivere un personaggio che si dice speciale, che viene indicato come speciale, ma che non lo è affatto. E il lettore, invece di reagire connettendo con lui, finirà per irritarsi per la discrepanza fra ciò che viene mostrato e ciò che viene raccontato.

Spero che le mie riflessioni in questo appuntaventi possano essere utili, ma ci tengo a precisare che io stessa non sono esule dal rischio di scrivere personaggi “diversi a tutti i costi”!

“Diversi per la società” vs “diversi a tutti i costi”

Partiamo da un’esclusione: non mi riferisco a personaggi percepiti come diversi dalla società – e quindi emarginati – per la loro sessualità, per la loro etnia, per il genere, per il neurotipo, per credo religioso, o per malattie mentali oppure fisiche; ma a personaggi che incarnano il trope del “diverso” o “outsider” per caratteristiche di personalità o di pensiero.

Trovo che sia una specifica da fare, perché i personaggi che vengono etichettati come diversi dalla società trovano ostacoli esterni posti dal mondo che li circonda, e spesso vorrebbero che la diversità non venisse percepita come distanza ma come varietà… un po’ il contrario del personaggio di cui parleremo, che della sua diversità si fa a volte scudo, a volte vanto.

“Personaggi volutamente fastidiosi” vs “personaggi diversi a tutti i costi”

Vorrei sottolineare due principali ragioni per cui fare attenzione quando scriviamo questo tipo di personaggio:

  • Il personaggio si dice diverso e indica tutti gli altri come banali o stupidi per modi di pensare, comportarsi, agire… fra cui, potenzialmente, il lettore.
  • Il personaggio si dice diverso e poi è come decine e decine di persone che conosciamo, noi compresi. Invece di farci connettere con lui per le somiglianze (come un personaggio ben scritto potrebbe fare), il suo dirsi continuamente “diverso” ci appare fastidioso e immotivato.

C’è una differenza fra un personaggio che vuole risultare antipatico (molto difficile da scrivere bene al punto che il lettore voglia continuare la lettura) e un personaggio involontariamente fastidioso.
Attraverso diversi accorgimenti, una storia può comunicare esattamente quello che lo scrittore vuole, sfumature d’interpretazione a parte. Quindi la consapevolezza dell’autore sulla costruzione del personaggio gioca un ruolo fondamentale e arriverà al pubblico, che sarà più incline ad apprezzare il primo tipo di personaggio e a rifiutare il secondo.
Ricordiamoci che i lettori non sono stupidi e colgono dalla pagina anche i sottotesti e, di conseguenza, le involontarietà.

Siamo davvero così speciali? Una riflessione personale

Parentesi personalissima: tutti crediamo di essere speciali, ma pochi di noi lo sono davvero. E il bello è anche questo: abbracciare che siamo umani, che abbiamo le nostre particolarità, certo, ma che questo non ci rende unici sulla faccia della terra. Va bene così. Chi ci amerà o ammirerà lo farà per come ci comportiamo e per ciò in cui crediamo, non per le nostre particolarità e basta.
Anzi, credere di essere ammirabili solo perché speciali tende a produrre individui con grossi difetti di carattere, che per di più si rifiutano di migliorare (non la ricetta perfetta per un personaggio, insomma).

Idealmente, vogliamo che il lettore ami il nostro personaggio per chi è, per cosa fa e per ciò in cui crede, non solo perché “diverso dagli altri”. I personaggi eccentrici, i “diversi a tutti i costi”, gli incompresi che sono i primi a non volersi far comprendere tendono a stancare in fretta e, se scritti senza consapevolezza di ciò che si sta facendo, a risultare abbastanza bidimensionali.

Dieci suggerimenti per evitare questo tipo di personaggio

Come evitare il “diverso” che crede di esserlo ma non lo è, e come scrivere personaggi diversi che siano interessanti da leggere, quindi?
Ecco alcuni punti che sono stati utili a me, in passato (quando quello che scrivevo era popolato da questi irritanti individui):

  1. Non rendere tutti i personaggi secondari delle macchiette che esistono solo per calcare la differenza fra il protagonista e il mondo.
    Se popolate il mondo di cartonati, ovviamente il protagonista risulterà diverso (e migliore) degli altri, ma i lettori più attenti si accorgeranno del trucco! Questo capita soprattutto con antagonisti di vario livello: bulli dalla personalità di cartongesso, familiari ostili che sanno solo ringhiare e dire che il protagonista è brutto e cattivo, ecc.
  2. Non creare personaggi secondari che continuano a sottolineare quanto il protaognista sia unico (magari dicendosi anche loro unici, così che si possa essere unici in due).
    Interessi amorosi, amici e amiche, persone vicine di qualsiasi tipo che esistono al solo scopo di dire al personaggio principale “ma quanto sei diverso e speciale”. Sono interessanti da leggere? No. Diamogli una personalità o poniamo fine alle loro esistenze inutili.
  3. Se la protagonista è una ragazza o è di genere femminile in generale, state alla larga dal caratterizzarla come “not like other girls”.
    Leggere invece di truccarsi non è rivoluzionario e, pensate un po’, è pure possibile fare entrambe le cose. Non interessarsi alla moda, non essere estroverse, non essere atletiche, non essere magre, non essere sessualmente attive non sono tratti unici. L’universo femminile è composto da persone; sì, proprio persone fatte e finite, varie, tridimensionali!
    Se proprio si vuole fare della critica sociale, che la si faccia consapevolmente e che si identifichi il vero colpevole di certi stereotipi. Il problema non sono le altre donne in generale o le donne che rientrano in certi canoni!
    Come evitare quindi di cadere in questa trappola sessista? Beh, per esempio inserendo altri personaggi femminili ben sviluppati e tridimensionali, oltre a rendere tridimensionale la protagonista prima di tutto.
    (Questo punto meriterebbe un discorso lunghissimo a parte, che forse un giorno farò).
  4. Non calcare la mano sulla diversità caratteriale del protagonista.
    Se è davvero diverso, il lettore lo percepirà e non ci sarà un bisogno continuo di farlo dire e pensare al personaggio, o farlo ribadire dagli altri riga dopo riga, capitolo dopo capitolo.
    Ma il problema di questi personaggi sta proprio qui: tolte le parole, siamo sicuri che ci sia qualcosa di speciale da mostrare?
  5. Non caratterizzare la sua personalità solo in base alle sue passioni e ai suoi passatempi “particolari”.
    Uno le virgolette (di cui abuso, lo so, lo so), perché spesso le passioni di questi personaggi vorrebbero essere speciali, ma sono molto diffuse: la passione per la lettura, l’essere geek, disegnare sconosciuti, band musicali e film di nicchia, immaginare le vite dei passanti e così via. Anche solo a scrivere questa lista mi sono venute in mente manciate di personaggi che fanno queste cose.
    Insomma, ci dev’essere altro nel vostro protagonista oltre a un hobby frizzantino (che non è sbagliato in sé, ma è sbagliato quando viene indicato come ciò che rende il protagonista diverso dagli altri).
  6. Stratificare.
    L’essere umano è fatto di contraddizioni (purtroppo per noi?) A volte un personaggio che si distanzia dal mondo è solo un personaggio che dal mondo è stato rifiutato, ma vorrebbe disperatamente farne parte. Un personaggio che se ne frega di quello che pensano gli altri può essere un personaggio che in realtà ha bisogno di attenzione, anche quando è negativa. Un personaggio cinico usa spesso questo approccio alla vita per celare un idealismo ferito.
    Insomma, se proprio volete scrivere questo “outsider”, quantomeno che sia tridimensionale, abbia dietro una costruzione solida, sia fatto di sfumature.
  7. Far evolvere.
    A volte un personaggio che si dice speciale, che fa cose speciali e pensa cose speciali può essere digeribile se ha un arco di evoluzione per cui capisce di essere come molti altri, e che questo non lo rende meno valido o meno interessante. Oppure può rendersi conto che è causa del suo stesso male e decidere di lavorare su se stesso. Oppure la risoluzione di un problema (il superamento di un ostacolo) può cambiare la sua prospettiva sul mondo.
    Insomma, la premessa è chiara, questo personaggio è specialissimo, d’accordo… e poi cosa gli succede? Di opzioni ce ne sono a dozzine, basta pensarci!
  8. Non romanticizzare malattie mentali o fisiche.
    Non inserirle solo perché “interessanti” e poi fermarsi lì. C’è il rischio di raccontarle con superficialità, ingenuità o disinformazione, e questo approccio arriverà al lettore, soprattutto se quel lettore sta vivendo sulla sua pelle quello di cui scrivete (ricordatevi che il vostro pubblico è idealmente vario).
    Come evitarlo, quindi? Informandosi, chiedendo a chi vive quotidianamente certe esperienze o ai professionisti che le hanno studiate.
    E, se raccontate di una vostra malattia o di un vostro disagio, fate attenzione al rischio di farne uno strumento (per giustificare oppure incolpare il protagonista in tutto quello che fa) o di idealizzarlo. Ma questi sono rischi del self-insertion in generale, di cui parlerò alla fine di questo elenco.
  9. Non raccontare il personaggio solo attraverso ciò che non è.
    “Non è popolare, non è come gli altri, non è estroverso, non è affascinante”. Se usata con moderazione, la comparazione può essere utile a descrivere qualcuno, ma abusata rende il personaggio vuoto.
    Anche perché il mondo non è fatto solo di opposti, e il fatto che alla vostra protagonista non piaccia andare in discoteca come a sua cugina, non significa che lei passi tutto il suo tempo sola e non le piaccia, per esempio, andare al pub con gli amici per una birra.
  10. Non aver paura di scrivere un personaggio “noioso” a cui però accadono cose speciali. Alla fine ne uscirà cambiato e il suo essere speciale sarà stato visto dal lettore, invece che spiegato.

Self-insertion, una delle cause principali del personaggio “diverso a tutti i costi”

Chiudiamo con la parte più scomoda di quest’analisi: il self-insertion.
Ebbene sì, buona parte dei personaggi “diversi” che ho descritto sono frutto di questa tecnica: lo scrittore si inserisce in modi più o meno sottili in un personaggio del suo libro, spesso con le sembianze del protagonista. Non sto parlando, ovviamente, di un’autobiografia esplicita, né di come tutto ciò che scriviamo ci riflette, in qualche modo; sto parlando di una vera e propria proiezione di sé nel protagonista.
Ora, a prescindere dalla mia personale avversione per questa pratica – preferisco di gran lunga che l’autore sia sparso in giro per la storia e per i personaggi; che si trovi fra le righe, insomma – non è un crimine in sé. Quanti scrittori alcolisti con il blocco ha scritto Stephen King? Abbastanza. Le storie piacciono lo stesso? Sì.

Il problema nasce dal fatto che non siamo oggettivi con noi stessi e non potremo mai esserlo, quindi non lo saremo mai fino in fondo con ciò che facciamo fare e dire al protagonista. L’immedesimazione può essere un bene, ma non a scapito di uno sguardo d’insieme, di un punto di vista esterno, soprattutto quando quel personaggio lo strutturiamo e studiamo, che sia in corso d’opera o in fase di pianificazione.

Insomma, il self-insertion va fatto responsabilmente, ma è molto difficile farlo in questo modo, proprio per il nostro legame con il personaggio. Chi si vede davvero tutti i difetti? E tutti i pregi? Chi riesce a non giustificare mai quello che fa? O a non accusarsi in modo esagerato?
E sì, tutte queste cose si possono immaginare, ma siamo sicuri di riuscire ad attribuirci la giusta quantità di caratteristiche positive e negative? Non lo so, io non ne sono sicura, ma aspetto i pareri di chi leggerà questo appuntaventi!

Conclusione

Ci sono tanti modi per rendere interessante un protagonista, ma – come per le persone vere – sono gli altri (in questo caso, i lettori) a trarre questa conclusione. Se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, concorderanno con noi nel trovare il protagonista interessante; se dobbiamo imboccargli quest’idea a forza, probabilmente non siamo sicuri che il messaggio sia in grado di arrivare da sé e, di conseguenza, è possibile che il nostro lavoro non sia stato fatto per benino.

Quante volte alziamo gli occhi al cielo quando sentiamo qualcuno dire “eh, ma io sono stran*” o “faccio questa cosa perché sono particolare” e frasi simili? Ecco, immaginiamoci il lettore farlo ogni volta che abbiamo la tentazione di dire o sottolineare che il nostro personaggio è diverso dagli altri.

Forse, con quest’immagine a tormentarci, riusciremo a creare un personaggio che sia davvero speciale!

“Nightbird” Lucia Patrizi

Capita che, scoperto un editore italiano, io decida di dargli una possibilità alla cieca. Non leggo recensioni, non conosco il catalogo, non ho idea di come lavori. Di solito succede alle fiere e tanto lo fa il modo in cui si viene approcciati allo stand.
La Acheron Books pubblica libri fantasy, fantascientifici e horror (e sottogeneri affini) tutti ambientati in Italia e, arrivata davanti al suo stand, la passione per quello che fa mi è stata evidente da subito.
Ma il libro che ha catturato più di tutti la mia attenzione è “Nightbird” di Lucia Patrizi (che si può acquistare sul sito dell’editore, nei vari store e in libreria) ed è di questa lettura incredibile che vorrei parlare oggi!

Trama: Irene e Giada sono acchiappafantasmi professioniste. Ma il loro metodo di lavoro è un po’ particolare: Irene disinfesta i luoghi appositamente infestati da Giada al fine di procacciarsi nuovi, danarosi clienti. I quali credono di avere a che fare con lo spettro infuriato del proprio trisavolo, e non sospettano trattarsi invece di una messinscena ben orchestrata.
Sì, perché Giada è realmente un fantasma. Le sue sono vere infestazioni, seppur abusive. Ma questo non impedisce alle due ghostbusters di mantenere “vivo” il profondo, contrastato legame che le unisce, messo a dura prova dal terribile evento che ha segnato per sempre le loro esistenze: la morte di Giada.
Questo precario equilibrio si infrange quando, in una villa abbandonata sul lago di Bracciano, Irene e Giada si trovano di fronte a un’infestazione precedente alla loro. Una forza perversa, antica e brutale, si è risvegliata e minaccia di annientare tutto ciò che incontra.
È tempo allora di fare le acchiappafantasmi sul serio, anche se questo significa affrontare la più devastante minaccia sovrannaturale per Roma (e per il mondo intero) e fare i conti una volta per tutte con il passato.
E con la bicicletta chiamata Nightbird.


Se conoscete anche solo un poco i miei gusti, sapete già cos’ha catturato la mia attenzione in “Nightbird”. Sì, se c’è una storia lgbt+ in un libro di genere, tendo a comprarlo a occhi chiusi. Spesso questa mia tendenza mi ha lasciato con l’amaro in bocca, ma capita di incontrare poi libri come questo, in grado di far dimenticare tutte le delusioni passate.
“Nightbird”, infatti, è bello dentro e fuori.

Come sempre, partiamo dalle apparenze, perché chi dice che un libro non si giudica dalla copertina mente. Qui, l’illustrazione che ci presenta la storia è del bravissimo Giulio Rincione (Batawp) e oserei dire che alla Acheron gli piace vincere facile. L’immagine non solo evoca quello che troveremo all’interno, ma diventa ancora più significativa una volta letto il libro e conosciuta la storia. Scelta approvata, insomma, e che dimostra cura per dettagli che poi dettagli non sono.

Passando al contenuto delle pagine, descriverei “Nightbird” come un horror molto umano. I veri punti di forza non sono l’atmosfera tesa o le scene truculente – che pure ci sono e funzionano alla perfezione – ma gli esseri umani che portano avanti gli eventi.
La protagonista, Irene, è quello che vorrei sempre trovarmi davanti quando leggo un libro, specialmente se il libro in questione ha una protagonista donna. Irene è tosta, temprata da ciò che le è accaduto, ma non è invincibile, non è inspiegabilmente intoccabile, anzi. È una donna piena di fragilità, tenuta insieme dalla necessità di andare avanti e sopravvivere – all’infestazione di turno, certo, ma anche alla perdita e ai rimpianti.
Leggerla ed entrare nella sua testa – perché è questo che succede con un romanzo in prima persona – è stato un piacere, complice la fantastica introspezione della penna, nonostante le atrocità spaventose a cui veniamo sottoposti. Se dovessi identificare la caratteristica che più me l’ha fatta amare, direi che sono le sue contraddizioni. Sì, perché spesso mi ritrovo a leggere di personaggi coerenti con se stessi e con gli altri dall’inizio alla fine di un romanzo, e l’effetto non è altro che irrealtà, mentre qui Irene è tridimensionale e – come ho già detto – molto umana: è cinica, ma ha un suo codice morale; è distante, ma solo perché ha provato troppo ed è rimasta ferita; è coraggiosa perché ha imparato dalla sua codardia; era una ragazza giovane e insicura, insomma, che è stata trasformata dal trauma della perdita.

Di telepatia ne so qualcosa. Il mio cervello, per ragioni incomprensibili, riesce a entrare in contatto con i residui di chi è morto e a sentire le vibrazioni che ancora trasmette al mondo.

Irene è il fulcro e da lei si diramano tante tematiche che ho apprezzato. Primo fra tutte, com’è evidente dalla trama, il tema della perdita e dell’elaborazione del lutto. Giada, la co-protagonista, è una presenza fissa nella vita di Irene e un’infestazione nella sua mente e nel suo cuore. I loro scambi e la loro storia sono emozionanti, realistici, profondi, strazianti e tanti altri aggettivi che vorrei usare per descrivere tutto quello che mi hanno fatto provare, ma che vi risparmio per bontà d’animo.
La dinamica fra questi due personaggi si divide su due linee temporali – il passato e il presente – e obbliga a divorare pagine su pagine per capire cosa sia successo e come ci ritroviamo con Giada ridotta a un fantasma.
Così viene introdotto un altro tema del romanzo: la memoria. I ricordi sono parti preziose di Irene e riviverli non solo permette a noi di scoprire il passato, ma ha un peso all’interno della storia stessa. Un viaggio emozionante – a tratti struggente, perché condizionato dai rimpianti – che ci interessa sia per scoprire cos’è accaduto, sia per l’importanza che ricordare ha per Irene.
Non aspettatevi una storia d’amore drammatizzata, però, nonostante l’evidente morte di Giada: perfino questa dinamica è realistica e umana, fatta di incomprensioni grandi e piccole, di paure e di ostacoli, non solo di sentimenti profondi.

Ma mentre ero con Giada tornavo a essere intera, potevo dare spazio al fagotto terrorizzato che ero stata, non dovevo vergognarmi che esistesse, perché nessuno poteva farle male.

Aiuta di certo la scrittura dell’autrice, che dimostra tutta la sua efficacia in due punti in particolare: i dialoghi e le descrizioni. Non che manchi qualcosa a tutto il resto – la narrazione scorre fluida, le figure retoriche sono dosate e incisive, le introspezioni perfette e mai pesanti –, ma dialoghi e descrizioni rendono il tutto vivido e reale.
Sui dialoghi non spenderò troppe parole, perché sono parte dell’ottima caratterizzazione di tutti i personaggi, dalle protagoniste ai secondari. Ognuno ha una sua voce e questa voce è adatta alla sua personalità.
Ma le descrizioni meritano un approfondimento. Come ho detto, la Acheron Books si occupa di romanzi con ambientazione italiana e “Nightbird” si snoda con Roma sullo sfondo. Non una città distante e scenografica, ma una presenza che diventa quasi un altro personaggio. La esploriamo grazie al ruolo fondamentale che ha l’andare in bici per le protagoniste, che si conoscono proprio per una bicicletta e che si avvicinano grazie alla trasmissione di questa passione da Giada a Irene. Niente descrizioni lunghe e particolareggiate, ma scampoli di visioni, connotazioni emotive, piccoli dettagli intrecciati al tessuto della storia.
Mentre Irene pedala sentiamo il vento in faccia, l’odore della città, la fatica dei muscoli… e io in bici non ci so neanche andare!

Ho bisogno di sentire le vibrazioni dell’asfalto che dal manubrio mi salgono lungo le braccia e il formicolio all’altezza del gomito.
Mi serve il sudore lungo la spina dorsale, la fatica della salita, la gioia delle discese, la liberazione dei muscoli quando posso spingere con tutte le mie forze sui tratti pianeggianti.
È tutto così facile e naturale. È tutto come deve essere.

Difficile dimenticare, però, che “Nightbird” è un horror e che da quel punto di vista non fa sconti.
Le minacce esterne sono una costante pressione sul lettore, che si domanda come riuscirà Irene ad affrontarle uscendone indenne e, dovesse farcela, a quale costo. L’autrice inserisce tensione e paura, momenti evocativi molto lovecraftiani a vere e proprie scene splatter, azione ed emozione. I luoghi sono inquietanti e inquietante è ciò che si nasconde fra quelle mura… o sotto i letti.

Dietro di me, anche la belva ansimava. Una zaffata del suo fiato caldo mi ha spostato i capelli. Un odore nauseabondo, di polvere vecchia secoli, mi ha fatto salire un conato di vomito.

Consiglio questo romanzo a chi ama l’horror nelle sue declinazioni più umane, a chi cerca una lettura che superi le barriere del genere per esplorare l’interiorità dei personaggi nei suoi lati luminosi e in quelli più bui, a chi vuole una storia d’amore fatta di bellezze e brutture, a chi ama andare in bici e sfrecciare per Roma e a chi, come me, non lo farà mai ma vuole viverlo lo stesso.

“Aria e altri coccodrilli” di Silvia Pillin

La lettura e la recensione (o, meglio, gli appunti) di questo romanzo risalgono ormai all’anno scorso ma, come chi mi segue su Instagram sa, ho ripreso da poco a parlare delle mie letture. Non potevo riprendere a condividere senza parlare, quindi, di Aria e dei suoi coccodrilli.
Il romanzo, scritto da Silvia Pillin, è stato pubblicato da Augh! E si può trovare sul sito dell’editore, negli store online e, ovviamente, in libreria.

Trama: Aria ed Eva hanno diciotto anni, frequentano la stessa scuola e la stessa biblioteca, ma non si conoscono. Eppure hanno molto in comune: entrambe vorrebbero smettere di esistere.
Aria ha un quaderno in cui annota i luoghi, i libri, le frasi, i modi del morire, domandandosi se troverà mai il coraggio di passare dalla teoria alla pratica, e intanto cerca di racimolare i soldi per il corso di scrittura che potrebbe essere un motivo per vivere ancora un po’.
Eva si butta dalla finestra e basta, ma sopravvive a se stessa e dopo tutto è quasi peggio.
Quando le loro strade si incrociano, grazie a un biglietto non firmato e a un esercizio di scrittura, qualcosa inizia a cambiare. I loro coccodrilli, forse, possono ancora essere addomesticati.


Prima di parlare di quello che si trova dentro, vorrei spendere almeno una frase per parlare di quanto mi piaccia l’aspetto del libro. Non solo perché apprezzo la tendenza a utilizzare questo stile minimale e molto grafico, ma anche perché niente poteva rappresentare di più il contenuto del romanzo come l’illustrazione in copertina.
Ormai lo sappiamo tutti, un libro si giudica anche da questo.
La storia in sé non è da meno, però.
Dovessimo riassumere il tutto in una frase, diremmo “è un romanzo che parla di suicidio”, ma forse questa semplificazione toglierebbe alla storia una delle sue caratteristiche fondamentali. Il tema del suicidio c’è, infatti, ma non è drammatizzato o spettacolarizzato; né si tratta di una lettura che subito assoceremmo a questo tema, tutta fatta di dolorosa introspezione e cupezza. E credo che i motivi siano due: l’essere adatto al suo target – secondo me, è un libro principalmente rivolto a giovani adulti – e il modo in cui gli eventi sono raccontati – la forma, per farla semplice.
La scrittura, infatti, è scorrevole e diretta, priva delle esuberanze stilistiche che tanto mi piacciono ma che, in questo caso, avrebbero forse reso le vicende più melodrammatiche che intense. Un’economia di parole dritte al punto, una serie di pensieri lucidi nella loro distorsione, una capacità di modellarsi su personaggi e voci diverse.

Quel tipo di pensieri era come una corsa in discesa, come le ciliegie: uno tira l’altro. Erano potentissimi e inarrestabili, li sentiva farsi largo nella sua testa senza fatica, una palla di neve che diventa una valanga e trascina tutto con sé.

Non c’è la (purtroppo) frequente demonizzazione della terapia, non c’è la paura di chiamare una malattia con il suo nome, non ci sono solo gli aspetti di cui tanto funziona parlare quando si racconta di questi temi, a discapito del loro realismo. In questo, la seconda parte del romanzo è fondamentale.
Ecco, parlando di parti, conviene specificare con l’unico spoiler che mi concederò, e solo perché non è proprio tale: il libro è diviso in due parti, una su Aria e una su Eva, ma non ci sono sovrapposizioni temporali e la storia – tutta scandita dalle date – prosegue dalla prima parte alla seconda. Lo specifico perché le recensioni servono anche a decidere se un libro possa o meno fare al caso di chi capita a leggerle e alcune persone preferiscono i punti di vista fissi.
Non è il mio caso. Anzi, ho apprezzato questa scelta perché si intreccia perfettamente alla trama, ha un solido motivo per esistere e mette in luce le due protagoniste in modi diversi ma altrettanto efficaci.

Non sapeva nemmeno come si chiamasse. Non l’aveva mai chiesto perché si capiva che voleva stare da sola, che aveva paura di infettarti con la sua disperazione, sembrava aver creato una specie di bolla per proteggersi.

Con Aria, protagonista della prima parte, ho avuto quindi un rapporto un po’ tormentato. Non è un personaggio che mi è stato particolarmente simpatico, ma sono certa – proprio grazie al confronto con la seconda protagonista, Eva – che il suo obiettivo non fosse piacere a tutti i costi. Anzi, Aria mostra la depressione per la spirale di pensieri, fragilità e apatie che è, senza fare sconti in favore della simpatia del lettore. Ha momenti in cui si difende dal suo malessere sentendosi speciale (lei non è come sua sorella e le sue amiche, lei non è come i compagni di scuola) e momenti in cui la malattia prende il sopravvento e condiziona la visione di tutto, dalla sua possibilità di trovare lavoro a quella di essere presa per un corso di scrittura tenuto dal suo autore preferito. A un personaggio ben costruito, a un personaggio “reale”, non si può chiedere di essere privo di difetti.
Forse, l’unica nota che davvero mi sento di fare in relazione alla sua parte di romanzo, riguarda i “nemici esterni” (la famiglia e i compagni di scuola). Non sono solo percepiti come tali da Aria, la cui malattia distorce la realtà e la fa sentire un bersaglio, ma sono proprio cattivi con lei, nei dialoghi e nei fatti. Tutti quelli che la circondano la maltrattano, rendendo così un po’ troppo carico il contrasto fra Aria e il mondo. Insomma, i personaggi secondari della sua parte mi sono sembrati costruiti attorno alla protagonista per evidenziarne la solitudine e l’isolamento emotivo, più che persone tridimensionali di cui vediamo soltanto alcuni aspetti per pura necessità di punto di vista. È una differenza sottile, ma io l’ho sentita e ne volevo parlare.

Sembravano non avere un problema al mondo. Aria provò prima una fitta d’invidia: quanto avrebbe voluto non avere niente di meglio a cui pensare che al cantante del momento! Poi si sentì afferrare da una solitudine angosciante: non aveva nulla in comune con Ilenia e Francesca, niente da spartire con le sue coetanee, con le sue compagne di classe, con nessuno.

Se il romanzo fosse stato composto solo dalla sua parte, quindi, il mio parere ne sarebbe uscito positivo, ma con delle piccole riserve.
Ma la parte di Eva c’è ed è quella che ho trovato più matura all’interno del romanzo. Quella in cui non ci sono nemici esterni, ma “solo” una malattia che – trascurata – ha il potere di distruggere una persona; quella in cui i rapporti familiari non sono facili, ma in cui i genitori sono esseri umani con pochi strumenti e non semplici carnefici; quella in cui si parla di terapia, si costruiscono rapporti, si è depressi ma si è anche persone.

Certe volte quei cinquanta minuti sembravano infiniti. Quando ne usciva si sentiva svuotata, e non nel senso buono, ma come eviscerata, come se qualcuno le avesse tolto da dentro degli organi vitali.

Un tema che ho amato, sia per la sua semplice esistenza nel romanzo sia per come viene sfruttato, è quello della scrittura. Anche qui, niente banalizzazioni o drammatizzazioni: la scrittura è fatta di un insieme di insicurezze, esaltazioni e motivazioni. Proprio come per la depressione, si rimbalza, ci si ingarbuglia, si vuole di più ma si ha paura di meritare molto meno. Questo romanzo ha la dote di raccontare le cose come stanno, senza… beh, romanzarle.
Il ruolo che la scrittura ricopre nella storia è importante perché Aria e Eva non condividono solo il desiderio di morire (o di non esistere), ma anche quello di comunicarsi attraverso la narrazione. Basta la citazione di un autore morto suicida, e la scrittura diventa punto di contatto fra le due.
Se però c’è un punto davvero forte, oltre allo stile secco ed efficace, è la costruzione della trama. Il ritmo della storia è ciò che davvero mi ha spinta a divorare il libro in pochissimo tempo. Pende, su Aria e sul lettore, una promessa di morte evidente fin dalle prime pagine ed è su questa aspettativa instillata nel lettore che l’autrice costruisce gli eventi.

La speranza è quella di guarire, di avere abbastanza pazienza per aspettare il momento in cui le cose ricominceranno ad avere senso.

Per concludere, un romanzo che mi ha emozionata, che mi ha tenuta incollata alle pagine, che mi ha fatto “sentire” (tristezza, rabbia, rassegnazione, gioia, speranza…) e che sono contenta di consigliare a chi ama le storie introspettive, a chi vuole leggere di depressione in modo diretto e concreto, a chi preferisce gli stili asciutti ed efficaci che arrivano dritti dritti alla testa e al cuore.

SALONE DELLA CULTURA 2020

Gennaio sta durando un intero decennio, ma io non mi faccio scoraggiare dalle temperature o dal letargo. Sono ormai quattro anni che si tiene il Salone della Cultura (quello che ancora, in amicizia, chiamo “fiera del libro usato”) e sono quattro anni che non me lo faccio scappare. La nostra è ormai una relazione stabile e posso dire di aver visto l’evento crescere sotto i miei occhi. Ricordo ancora i tempi in cui un posto chic come il Superstudio Più ce lo potevamo solo sognare!

Anche quest’anno un biglietto di cinque euro per l’ingresso di una giornata, cifra perfetta non solo perché quello che si trova all’interno la vale, ma per la selezione di visitatori che un evento a pagamento comporta. Non so come la pensino davvero i venditori, ma le persone che passeggiano fra gli stand sono quelle più interessate (forse più propense a comprare?) e si riesce a camminare senza essere inghiottiti dalle folle dei primi anni, quando l’evento era gratuito e preso d’assalto.

La scelta di mettere i micro e piccoli editori nella parte iniziale si dimostra ancora una volta la migliore. In questo modo avranno davvero la possibilità di farsi vedere e saranno invogliati a partecipare, arricchendo la fiera di una realtà che a volte viene un po’ trascurata. Nella sala laterale in cui venivano relegati gli editori un tempo, oggi si trovano gli stand dei librai antiquari (non solo italiani), e perfino chi non ha alcun interesse a spendere una fortuna per un tomo di araldica vecchio di secoli resterà a bocca aperta davanti a tanta bellezza.

Nella parte più grande, dedicata ai libri usati, tantissimi stand con prezzi vantaggiosi e occasioni. È facile spenderci un intero stipendio senza rendersene conto, per farla breve. Ma sono riuscita a rispettare la promessa fatta a me stessa di non accumulare libri senza freni, un po’ grazie alla riscoperta della biblioteca vicino casa (ora che l’hanno rimessa a nuovo dopo un incendio), un po’ perché abbiamo effettivamente una casa tutta nostra e un po’ perché la mia lista di libri da leggere ha già proporzioni mastodontiche senza bisogno della mia compulsione a comprare libri.
Per sbirciare il mio unico acquisto, mi trovate su instagram.

Se vi trovate dalle parti di Milano, la fiera è aperta anche oggi (domenica 19 gennaio 2020) e vale la pena visitarla!

Perché scrivi? Domande e risposte sull’atto sovversivo di creare (e sopravvivere)

Questo AppuntaVenti non parte da una tesi, ma da una lettura. Durante questo novembre dedicato alla scrittura sto leggendo “In punta di penna. Riflessioni sull’arte della narrativa” curato da Blythe. Nella raccolta, alcuni autori americani si raccontano rispondendo alla domanda “Perché scrivi?”, di volta in volta in modo analitico o nostalgico, personale o tecnico.

Leggere questo libretto edito dalla Minimum Fax, la cui edizione originale risale al finire degli anni ’90, mi ha fatto riflettere sul motivo per cui le persone scrivono e poi, più a fondo, sul motivo per cui io lo faccio.

La prima risposta, la più banale e istintiva anche se non meno vera, è: perché non posso farne a meno. Quando si cerca di farlo sul serio, scrivere non è facile, e per continuare serve un’ostinazione tutta speciale. Lo stesso motivo per cui ci svegliamo, respiriamo, mangiamo. Non possiamo farne a meno e ci siamo intestarditi sull’idea di vivere. Ecco, scrivere, per me, funziona proprio così: tutt’attorno il mondo mi spinge a non farlo e io, banalmente, devo.

Questo non mi rende speciale. Non c’è del genio scapigliato in me, niente di così romantico. Ogni scrittore, da quanto ne so, funziona con questo stesso meccanismo alla base. Ecco, se c’è un aspetto interessante in questa raccolta, sono le connessioni fra autori diversissimi fra loro e il modo in cui queste connessioni hanno risuonato in me mentre leggevo. Sembra quasi esista una motivazione prima, originaria, per cui tutti noi raccontiamo storie. Oltre all’egocentrismo, ovviamente.
Scriviamo per vivere.

A questa base si aggiungono le motivazioni personali, quelle di cui non siamo del tutto consapevoli o lo siamo solo a posteriori. Per me, per esempio, scrivere esorcizza la violenza, la paura del dolore – emotivo e fisico –, il timore dell’abbandono e quello molto più umano della morte. Raccontare storie ha sempre avuto quest’effetto su di me, fin da bambina. Le mie bambole si lanciavano nel vuoto dall’armadio, venivano trovate in vicoli abbandonati dietro il letto, con gli arti contorti e i capelli spettinati; litigavano, urlavano, si amavano e si lasciavano con un abbandono degno di una soap opera.

Ed è dopo quest’istinto di sopravvivenza che arriva il lavoro manuale, la parte artigianale in cui ci si sporca le mani – o la mente – e che mi rende ogni parola un piccolo inferno su misura. Con tutti gli strumenti che ho costruito nel tempo e che continuerò a costruire, scavo e spolvero e scalfisco per arrivare a trasmettere una specifica emozione per cui esiste una specifica stringa di parole. Un tempo, quando ancora non avevo vivisezionato altri autori e iniziato a studiare per bene, era tutto più facile: potevo scrivere migliaia di parole in una serata e rileggere dopo mesi per ritrovare le stesse grezze emozioni. Ora è più complesso. Emozionare resta fondamentale, per me, ma c’è dell’altro. Mi ossessiona l’idea che il prodotto finale sia stratificato, che possa risucchiare a fondo. Che infesti il lettore mentre legge e, nei miei sogni più ambiziosi, anche dopo. Come se gli tenessi la testa e lo costringessi a guardare qualcosa di macabro e ripugnante.
“Guarda cosa siamo in grado di fare” gli dico.
Non so se ci sono ancora arrivata. Né so se sia possibile arrivare da qualche parte per davvero. So solo che voglio essere soddisfatta di quello che scrivo e le mie pretese aumentano più mi informo, leggo, conosco.

Durante la stesura, però, non penso a una moltitudine di facce chinate sulle pagine del libro che sto scrivendo. Un po’ perché pensare a un pubblico è irrealistico, vista la quantità di offerta che popola il mondo dei libri; un po’ perché tutte le mie energie sono rivolte a lavorare sodo sulla storia, e pensare al futuro di quello che sto facendo rischia di paralizzarmi. Se penso a qualcuno, è me stessa. Io sono il lettore della storia che scrivo, io la sto scoprendo, io sto conoscendo i personaggi e mi sto costringendo a guardare come si sabotano, come le loro relazioni si sfilacciano e si spezzano.
Perché scrivo?
Perché voglio leggere la storia che sto scrivendo.

Ed è stata una vera sorpresa scoprire che esistono persone, là fuori, con il mio stesso morboso interesse.

La verità è che le storie mi hanno salvata. Un’altra banalità. Se non avessi immaginato di essere altrove, di essere qualcun altro, forse sarei comunque viva ma non sarei io. Non sarei lucida e funzionale, non sarei tutta intera nonostante le ammaccature. Ho iniziato a farlo leggendo, poi non mi è più bastato. Dovevo inventare storie su misura, costruirmele addosso come un’armatura e lasciare che mi proteggessero.

Non serve ricevere chissà quali colpi dalla vita perché l’immaginazione ci salvi, però.
Serve una sensibilità. Serve essere così esposti da sentire in profondità perfino quello che ci sfiora. A volte tutto questo arriva dai traumi, senza dubbio, altre volte si è stimolati fin da piccoli o sarà un dono innato legato all’intelligenza e all’apertura mentale, alla capacità di accogliere gli altri dentro di sé, all’empatia. Però è questo “qualcosa” che permette di creare le storie che mi piacciono, quelle che leggo fino a incastrarmele dentro per riparare chi sono.
Quelle che provo a scrivere.
Ora, nel mio caso specifico, non posso giudicare la qualità delle storie che produco. Non funziona così, non ci si può guardare da dentro e da fuori allo stesso tempo. So solo quando sono soddisfatta di quello che scrivo e quando no, e questo è quanto. E sono soddisfatta quando scavo e scavo, strato dopo strato, fino a costringermi a fissare cosa si nasconde sul fondo. Fino a quando posso dirmi “guarda cosa siamo in grado di fare”.

Fino a qui, sembra quasi che io subisca quello che scrivo invece di controllarlo, ma è un gioco di ruolo. Il controllo è mio, lo spazio in cui esercito la violenza, la distruzione e la morte è uno spazio protetto, posso dire “basta” quando voglio, chiudere il file, prendermi una pausa. Un altro dei motivi per cui scrivo è che, per quanto possa fare male quando scava troppo a fondo, scrivere è sicuro. Posso perfino decidere la distanza da cui guardare, usare una persona o un tempo verbale che mettano me da una parte e tutto quello che succede dall’altra.
Scrivo perché quando scrivo sono in controllo.

La verità è che si tratta di una domanda complessa.
Perché scriviamo?
È una domanda esistenziale se la si guarda sotto una luce, oppure è un quesito pratico se si analizza da un’altra prospettiva. Le risposte sono tante quante le persone che scrivono o forse una sola. A volte la risposta dipende da chi siamo stati e da chi vogliamo essere, altre volte è legata al potere dell’immaginazione e all’atto sovversivo di creare in un mondo in cui tutto cambia ma nulla può essere davvero creato o distrutto. Un mondo, il nostro, che dà valore al materiale e al pratico, ma che è pieno di persone che hanno bisogno di creare per sopravvivere.

Io scrivo perché niente mi fa sentire come scrivere – viva, protetta, e orribilmente vicino all’oscurità umana senza il rischio di esserne travolta.

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