“Boy Erased. Vite cancellate” di Garrard Conley

Penso che la casa editrice Black Coffee non abbia bisogno di presentazioni: pubblica autori nordamericani contemporanei in edizioni compatte e curate dal punto di vista grafico. Non solo non credo ci sia altro che io possa aggiungere sulla casa editrice, ma il libro stesso è abbastanza conosciuto, anche grazie alla sua recente trasposizione cinematografica. Quindi oggi parleremo di “Boy Erased. Vite cancellate” di Garrard Conley, uscito nel 2018 per le edizioni Black Coffee.

Trama: A diciannove anni Garrard, figlio di un pastore battista e devoto membro della vita religiosa di una piccola città dell’Arkansas, è costretto a confessare ai genitori la propria omosessualità. La loro reazione lo mette di fronte a una scelta che gli cambierà la vita: perdere la famiglia, gli amici e il dio che ama sin dalla nascita oppure sottoporsi a una terapia di riorientamento sessuale, o terapia riparativa, per “curarsi” dall’omosessualità, un programma in dodici passi da cui dovrebbe riemergere eterosessuale, ex-gay, purificato dagli empi istinti che lo animano e ritemprato nella fede in Dio attraverso lo scampato pericolo del peccato.
Quello di Garrard è un viaggio lungo e doloroso grazie al quale, tuttavia, trova la forza e la consapevolezza necessarie per affermare la sua vera natura e conquistarsi il perdono di cui ha bisogno. Affrontando a viso aperto il suo passato sepolto e il peso di una vita vissuta nell’ombra, in questo memoir l’autore esamina il complesso rapporto che lega famiglia, religione e comunità. Straziante e insieme liberatorio, Boy Erased è un’ode all’amore che sopravvive nonostante tutto.


Partiamo da un’informazione personale che influirà sulle mie osservazioni: non amo particolarmente i memoir. Ecco, l’ho ammesso, ora possono volare le pietre.
Ho scelto di fare un’eccezione per questo libro perché il tema che tratta mi interessa particolarmente e perché vivo nel continuo tentativo di superare le deludenti esperienze avute in materia di memoir in precedenza.
Aggiungo un’altra premessa: parlare di un libro di questo genere non è semplice, perché non si sta leggendo una storia astratta e lontana, ma la vita di una persona, la sua esperienza.
In “Boy Erased”, in particolare, si racconta l’esperienza traumatizzante delle terapie riparative, del crescere in una famiglia estremamente religiosa, dell’omofobia interiorizzata, della violenza sessuale e di altre tematiche dure e difficili. Questo è il motivo per cui buona parte delle mie impressioni sarà molto personale, invece che basata su tecniche narrative e su questioni più oggettive (per quante possano essercene in una recensione, certo).

Trascorse un minuto di silenzio e poi, consapevole di non poterlo nascondere, scoppiai a piangere e le dissi che era vero, che ero gay.

Molti aspetti di questo libro mi sono piaciuti. Prima di tutto il modo in cui si parla della terapia riparativa, tema portante del memoir. Non ci sono scene estreme o torture violente, ma non per questo ciò che succede è meno orribile. Anzi: invece di drammatizzare quello che è avvenuto, l’autore ci mostra le piccole torture quotidiane, le regole assurde e la pressione psicologica, restituendoci alla perfezione la sensazione soffocante di trovarsi nella sua situazione.
Gli approcci adottati prendono in prestito tecniche dalla psicologia e le distorcono per ottenere obiettivi malsani: vengono considerati rilevanti i rapporti con il padre, i “peccati” tramandati in famiglia (come l’alcolismo) e se ne fa una spiegazione per l’omosessualità, che quindi avrebbe delle radici rilevabili e – possibilmente – una cura. Proprio come se fosse una malattia.
Ecco, questo nel libro è mostrato bene, secondo me, e si capisce come queste terapie influenzino i comportamenti sessuali tramite manipolazione psicologica, ma non possano (proprio perché impossibile) cambiare l’orientamento sessuale.

«La prima cosa da fare è capire come siete diventati dipendenti dal sesso, da pensieri che non giungono da Dio» disse Smid. Eravamo al Primo Passo dei dodici previsti dal programma di Love in Action, i cui principi equiparavano i peccati di infedeltà, zooerastia, pedofilia e omosessualità a dipendenze quali l’alcolismo e il gioco d’azzardo.

Un altro tema che ho trovato trattato particolarmente bene è quello della religione. L’autore vuole che la terapia funzioni, si sottopone a tutto questo nella speranza di non perdere l’intero mondo che conosce, la sua famiglia, il loro supporto economico, la sua comunità. La fede è stata una compagna di vita, presente tanto quanto i genitori, e lui non vuole deludere dio proprio come non vuole deludere sua madre e suo padre.
Credo che anche questo getti in qualche modo una luce più intensa sulla questione delle terapie riparative. Siamo portati a pensare a persone che vengono mandate lì con la forza, mentre la realtà a volte è molto più complessa. L’autore potrebbe perdere tutto e quindi è forzato a prendere parte alla terapia, ma ha in sé anche una contraddittoria speranza che la sua famiglia abbia ragione e che una cura esista.
Non viene privato di questa verosimile complessità anche il rapporto con i genitori. L’autore riesce a comprenderli, vuole loro bene, e non mancano momenti di genuina felicità nei suoi ricordi. È pronto a rinnegare se stesso per non perderli ed è interessante seguire il percorso che parte da tutte queste premesse per arrivare alla conclusione del momoir. Senza fare spoiler di alcun tipo, anche il finale è complesso e sfumato, degno della realtà di un’esperienza invece che di una narrazione romanzata.

«Voglio cambiare» dissi. «Sono stufo di sentirmi così».
«Col tempo diventa più facile. Potresti trasferirti altrove, in una città più grande».
«Non voglio scappare. Voglio bene ai miei». Frasi patetiche. Parole infantili. Ma non riuscivo a trattenermi, era la verità.

Un aspetto che non mi è piaciuto di questa lettura è la forma che l’autore ha deciso di adottare. Prima di tutto, i fatti non sono in ordine cronologico, ma non appaiono neanche in un ordine che il lettore può rilevare o che ha un significato più profondo. Tutto è collegato quasi per associazione mentale, saltando dal passato remoto (con aneddoti su genitori e nonni) a quello più recente, passando per i momenti della terapia fino ad arrivare al presente. Sono frammenti di ricordi, pezzetti di vita, che invece di enfatizzare un racconto emotivo, tendono a disperderne l’intensità, a mio parere. Poteva funzionare, ma non sono certa lo faccia.

A casa ero in grado di recitare un’elegante preghiera, dire la mia sulla grazia di Dio, citare le scritture al momento giusto, sfoggiare il mio sorriso migliore. Era un sollievo tornare in un mondo noto, indulgere in luoghi comuni, placare il mio animo.

La narrazione risente poi delle continue divagazioni che l’autore fa e che rubano molto spazio a ciò che davvero sorregge il memoir. A volte, queste divagazioni sembrano servire a mostrare lo stile evocativo e poetico dell’autore (stile che amo quando è messo al servizio della storia e non viceversa), altre volte non si comprende bene il motivo di certi aneddoti che non aggiungono all’esperienza di cui stiamo leggendo, né per associazione né per contrasto.

I campi di cotone si estendevano a perdita d’occhio. Brillavano come di luce intermittente nella semioscurità mentre il cielo si chiudeva piano, come il coperchio di ceramica di una delle pignatte della nonna. Sposando la mamma, poco meno di un anno dopo, mio padre avrebbe ereditato tutto quel ben di Dio, anche se ancora non lo sapeva.

In conclusione: il romanzo non mi ha convinta fino in fondo, ma ne consiglio comunque la lettura a chiunque voglia saperne di più sulle terapie riparative senza drammatizzazioni o sensazionalismi, attraverso una testimonianza vera che non fa sconti sulla complessità della realtà, ma che perde un po’ di efficacia emotiva a causa della forma in cui è scritta e organizzata.

“Aria e altri coccodrilli” di Silvia Pillin

La lettura e la recensione (o, meglio, gli appunti) di questo romanzo risalgono ormai all’anno scorso ma, come chi mi segue su Instagram sa, ho ripreso da poco a parlare delle mie letture. Non potevo riprendere a condividere senza parlare, quindi, di Aria e dei suoi coccodrilli.
Il romanzo, scritto da Silvia Pillin, è stato pubblicato da Augh! E si può trovare sul sito dell’editore, negli store online e, ovviamente, in libreria.

Trama: Aria ed Eva hanno diciotto anni, frequentano la stessa scuola e la stessa biblioteca, ma non si conoscono. Eppure hanno molto in comune: entrambe vorrebbero smettere di esistere.
Aria ha un quaderno in cui annota i luoghi, i libri, le frasi, i modi del morire, domandandosi se troverà mai il coraggio di passare dalla teoria alla pratica, e intanto cerca di racimolare i soldi per il corso di scrittura che potrebbe essere un motivo per vivere ancora un po’.
Eva si butta dalla finestra e basta, ma sopravvive a se stessa e dopo tutto è quasi peggio.
Quando le loro strade si incrociano, grazie a un biglietto non firmato e a un esercizio di scrittura, qualcosa inizia a cambiare. I loro coccodrilli, forse, possono ancora essere addomesticati.


Prima di parlare di quello che si trova dentro, vorrei spendere almeno una frase per parlare di quanto mi piaccia l’aspetto del libro. Non solo perché apprezzo la tendenza a utilizzare questo stile minimale e molto grafico, ma anche perché niente poteva rappresentare di più il contenuto del romanzo come l’illustrazione in copertina.
Ormai lo sappiamo tutti, un libro si giudica anche da questo.
La storia in sé non è da meno, però.
Dovessimo riassumere il tutto in una frase, diremmo “è un romanzo che parla di suicidio”, ma forse questa semplificazione toglierebbe alla storia una delle sue caratteristiche fondamentali. Il tema del suicidio c’è, infatti, ma non è drammatizzato o spettacolarizzato; né si tratta di una lettura che subito assoceremmo a questo tema, tutta fatta di dolorosa introspezione e cupezza. E credo che i motivi siano due: l’essere adatto al suo target – secondo me, è un libro principalmente rivolto a giovani adulti – e il modo in cui gli eventi sono raccontati – la forma, per farla semplice.
La scrittura, infatti, è scorrevole e diretta, priva delle esuberanze stilistiche che tanto mi piacciono ma che, in questo caso, avrebbero forse reso le vicende più melodrammatiche che intense. Un’economia di parole dritte al punto, una serie di pensieri lucidi nella loro distorsione, una capacità di modellarsi su personaggi e voci diverse.

Quel tipo di pensieri era come una corsa in discesa, come le ciliegie: uno tira l’altro. Erano potentissimi e inarrestabili, li sentiva farsi largo nella sua testa senza fatica, una palla di neve che diventa una valanga e trascina tutto con sé.

Non c’è la (purtroppo) frequente demonizzazione della terapia, non c’è la paura di chiamare una malattia con il suo nome, non ci sono solo gli aspetti di cui tanto funziona parlare quando si racconta di questi temi, a discapito del loro realismo. In questo, la seconda parte del romanzo è fondamentale.
Ecco, parlando di parti, conviene specificare con l’unico spoiler che mi concederò, e solo perché non è proprio tale: il libro è diviso in due parti, una su Aria e una su Eva, ma non ci sono sovrapposizioni temporali e la storia – tutta scandita dalle date – prosegue dalla prima parte alla seconda. Lo specifico perché le recensioni servono anche a decidere se un libro possa o meno fare al caso di chi capita a leggerle e alcune persone preferiscono i punti di vista fissi.
Non è il mio caso. Anzi, ho apprezzato questa scelta perché si intreccia perfettamente alla trama, ha un solido motivo per esistere e mette in luce le due protagoniste in modi diversi ma altrettanto efficaci.

Non sapeva nemmeno come si chiamasse. Non l’aveva mai chiesto perché si capiva che voleva stare da sola, che aveva paura di infettarti con la sua disperazione, sembrava aver creato una specie di bolla per proteggersi.

Con Aria, protagonista della prima parte, ho avuto quindi un rapporto un po’ tormentato. Non è un personaggio che mi è stato particolarmente simpatico, ma sono certa – proprio grazie al confronto con la seconda protagonista, Eva – che il suo obiettivo non fosse piacere a tutti i costi. Anzi, Aria mostra la depressione per la spirale di pensieri, fragilità e apatie che è, senza fare sconti in favore della simpatia del lettore. Ha momenti in cui si difende dal suo malessere sentendosi speciale (lei non è come sua sorella e le sue amiche, lei non è come i compagni di scuola) e momenti in cui la malattia prende il sopravvento e condiziona la visione di tutto, dalla sua possibilità di trovare lavoro a quella di essere presa per un corso di scrittura tenuto dal suo autore preferito. A un personaggio ben costruito, a un personaggio “reale”, non si può chiedere di essere privo di difetti.
Forse, l’unica nota che davvero mi sento di fare in relazione alla sua parte di romanzo, riguarda i “nemici esterni” (la famiglia e i compagni di scuola). Non sono solo percepiti come tali da Aria, la cui malattia distorce la realtà e la fa sentire un bersaglio, ma sono proprio cattivi con lei, nei dialoghi e nei fatti. Tutti quelli che la circondano la maltrattano, rendendo così un po’ troppo carico il contrasto fra Aria e il mondo. Insomma, i personaggi secondari della sua parte mi sono sembrati costruiti attorno alla protagonista per evidenziarne la solitudine e l’isolamento emotivo, più che persone tridimensionali di cui vediamo soltanto alcuni aspetti per pura necessità di punto di vista. È una differenza sottile, ma io l’ho sentita e ne volevo parlare.

Sembravano non avere un problema al mondo. Aria provò prima una fitta d’invidia: quanto avrebbe voluto non avere niente di meglio a cui pensare che al cantante del momento! Poi si sentì afferrare da una solitudine angosciante: non aveva nulla in comune con Ilenia e Francesca, niente da spartire con le sue coetanee, con le sue compagne di classe, con nessuno.

Se il romanzo fosse stato composto solo dalla sua parte, quindi, il mio parere ne sarebbe uscito positivo, ma con delle piccole riserve.
Ma la parte di Eva c’è ed è quella che ho trovato più matura all’interno del romanzo. Quella in cui non ci sono nemici esterni, ma “solo” una malattia che – trascurata – ha il potere di distruggere una persona; quella in cui i rapporti familiari non sono facili, ma in cui i genitori sono esseri umani con pochi strumenti e non semplici carnefici; quella in cui si parla di terapia, si costruiscono rapporti, si è depressi ma si è anche persone.

Certe volte quei cinquanta minuti sembravano infiniti. Quando ne usciva si sentiva svuotata, e non nel senso buono, ma come eviscerata, come se qualcuno le avesse tolto da dentro degli organi vitali.

Un tema che ho amato, sia per la sua semplice esistenza nel romanzo sia per come viene sfruttato, è quello della scrittura. Anche qui, niente banalizzazioni o drammatizzazioni: la scrittura è fatta di un insieme di insicurezze, esaltazioni e motivazioni. Proprio come per la depressione, si rimbalza, ci si ingarbuglia, si vuole di più ma si ha paura di meritare molto meno. Questo romanzo ha la dote di raccontare le cose come stanno, senza… beh, romanzarle.
Il ruolo che la scrittura ricopre nella storia è importante perché Aria e Eva non condividono solo il desiderio di morire (o di non esistere), ma anche quello di comunicarsi attraverso la narrazione. Basta la citazione di un autore morto suicida, e la scrittura diventa punto di contatto fra le due.
Se però c’è un punto davvero forte, oltre allo stile secco ed efficace, è la costruzione della trama. Il ritmo della storia è ciò che davvero mi ha spinta a divorare il libro in pochissimo tempo. Pende, su Aria e sul lettore, una promessa di morte evidente fin dalle prime pagine ed è su questa aspettativa instillata nel lettore che l’autrice costruisce gli eventi.

La speranza è quella di guarire, di avere abbastanza pazienza per aspettare il momento in cui le cose ricominceranno ad avere senso.

Per concludere, un romanzo che mi ha emozionata, che mi ha tenuta incollata alle pagine, che mi ha fatto “sentire” (tristezza, rabbia, rassegnazione, gioia, speranza…) e che sono contenta di consigliare a chi ama le storie introspettive, a chi vuole leggere di depressione in modo diretto e concreto, a chi preferisce gli stili asciutti ed efficaci che arrivano dritti dritti alla testa e al cuore.

“Mani di mandarino. La coscienza di un carusu” di Marco Antonio d’Aiutolo

Con un nuovo banner per le recensioni, vi parlo di un’interessante lettura estiva, ossia La coscienza di un carusu, primo romanzo della serie Mani di Mandarino scritta da Marco Antonio d’Aiutolo e pubblicata per Milena Edizioni (lo potete trovare sul sito della casa editrice, negli store online e, ovviamente, in libreria).

Trama: Nella Catania fascista degli anni ’30, Gabriele inizia a confrontarsi con gli altri ragazzi e a mettere in discussione quell’identità da maschio siciliano che il mondo vorrebbe imporgli. La sua lotta interiore ha origine dalla scoperta di una sessualità diversa, da una segreta attrazione per i “masculi” e da un amore taciuto, nato tra i banchi del liceo. Solo quando conoscerà Calogero, nella sua coscienza ci sarà una svolta reale. Sullo sfondo, intanto, scorre una molteplicità di storie: gli incontri clandestini degli arrusi, pederasta passivi, a piazza Alcalà, le amicizie e gli amori proibiti, gli scandali famigliari e la condizione delle “fimmine”. Quando la grande Storia irromperà nelle giornate di Gabriele, inasprendo le leggi contro gli arrusi, quei masculi che sembravano così forti si mostreranno impotenti. Sarà la forza delle “fimmine” sicule a determinare, nel bene e nel male, il destino di tutti.


Dura solo una manciata d’anni, l’adolescenza, ma è da quell’esperienza tormentata e difficile che usciamo noi adulti. Più o meno indenni. Ecco perché i romanzi di formazione hanno un fascino tutto loro, che permette di rivivere le scoperte della vita se siamo ormai grandi e di sentirci compresi se siamo adolescenti.

È il caso di questo romanzo ambientato fra l’autunno del 1933 e l’estate del 1934, in pieno periodo fascista. Gabriele Di Mauro, da buon esponente di una famiglia sicula per bene, dopo il ginnasio viene mandato a studiare a Catania per volere del padre. È proprio fra l’anno scolastico in città e l’estate nel piccolo paese di Giarre che viviamo la sua storia. Una storia che alterna i due grandi momenti – l’anno scolastico e le vacanze estive, appunto – in un susseguirsi frammentato di esplorazioni, delusioni e piccole vittorie che non hanno mancato di emozionarmi in più punti, tutte legate dai pensieri di Gabriele e dalle considerazioni su quanto gli accade.

Se c’è una nota formale che può essere fatta, riguarda il punto di vista: seguiamo Gabriele per la maggior parte del romanzo tranne in qualche paragrafo, in cui la prospettiva si sposta e il narratore si focalizza su altri personaggi. Troppo pochi, questi momenti, perché il narratore mi sia sembrato onnisciente, ma comunque abbastanza da essere notati e risultare un po’ strani dopo che il narratore si concentra su Gabriele per pagine e pagine. Questa scelta funziona molto bene in alcuni contesti, però (nel prologo, per esempio), e il romanzo è in generale così ben scritto da non infastidire con questi piccoli cambiamenti.
La scrittura, infatti, è maneggiata sapientemente: la forma si adatta al contenuto ed evita sia inutili abbellimenti sia uno stile esageratamente banale. Il linguaggio utilizzato è fortemente intriso di siciliano, ma veniamo aiutati dall’equilibrato uso delle note a piè di pagina, che accorrono in soccorso solo dove strettamente necessario, senza essere invadenti nelle parti in cui il significato di una parola è comprensibile dal contesto.

Niente sapeva degli arrusi, Gabriele Di Mauro, quando, nel settembre del 1933, si trasferì a Catania: nenti di nenti, se non lo sparuliari della gente.

Gabriele è il protagonista, quindi, ed è una creatura “altra” rispetto ai maschi che lo circondano. Non solo i “masculi” adulti, che incarnano l’ideale da cui lui è attratto e respinto allo stesso tempo – perché non lo sente come parte di sé ma come parte dei suoi desideri –, ma è anche diverso dai suoi stessi coetanei, che già vestono i pantaloni lunghi tipici della vita adulta. Lui infatti, pallido, creatura del mare, fatto di una bellezza innegabile ma delicata e così diversa da quella dei “veri uomini”, veste ancora i pantaloni corti. Questo è uno dei tanti simboli che mi ha colpita, una delle tante immagini del romanzo che rimandano alle sue grandi tematiche. Un’altra, per fare un esempio, è quella delle ciliegie usate come orecchini nei giochi d’infanzia che Gabriele condivide con Catena – la sua migliore amica – in cui i due mimano le gestualità delle donne del paese. E, ancora, le “mani di mandarino” che danno il nome alla saga, tratte dal ricordo del profumo che i mandarini lasciavano su Gabriele quando era piccolo.
Attraverso queste immagini, quindi, i temi: la crescita, la scoperta di se stessi e della propria identità, l’interiorità in contrasto con il mondo fuori dal sé, l’idea di un universo femminile e di uno maschile come due poli opposti, con niente nel mezzo, che non riguardano solo il genere ma anche la sessualità (un’idea che alcuni personaggi rinnegano anche solo esistendo).

Ma, in cuor suo, Gabriele aveva sempre saputo di non essere come gli altri coetanei. Sentiva di non essere, come dire, masculo masculo.

Gabriele sperimenta la vita circondato poi da una moltitudine di piccoli e grandi personaggi. Nessuno è immune a un ruolo, nel romanzo, che sia rendere l’idea del contesto o interagire con il protagonista per cambiarne la visione del mondo (e, di conseguenza, influire sull’andamento della trama). Nessuno è superfluo e nessuno è superficiale, soprattutto per quanto riguarda i personaggi femminili. Sono madri, amiche, zie, ma sono prima di tutto persone; aderiscono agli archetipi di riferimento solo nella misura in cui è necessario per l’ambientazione della storia, dopo di ché diventano complessi, fatti di sfumature, ribelli nelle possibilità che l’epoca concede. Un esempio è zia Gilda, la parente che ospita Gabriele durante l’anno scolastico, con le sue vedute più ampie rispetto alla comunità che la circonda.

Proprio grazie alla zia, Gabriele entrerà in contatto con un mondo che in qualche misura aveva già sperimentato, ma mai con la consapevolezza di questo momento della sua vita. Gli omosessuali che prima erano una creatura mitologica, distante, fatta di tentacoli e tentazioni, acquistano consistenza solo quando Gabriele incontra Calogero, l’assistente del sarto della zia. A Calogero basta uno sguardo più attento per scovare qualcosa nel ragazzo e per invitarlo agli Archi della Marina, di notte popolati da uomini alla ricerca di altri uomini, da uomini vestiti da donne, da tutte quelle creature “altre” rigettate dalla società.
Questo invito tormenta Gabriele fin dalle prime pagine del romanzo ma è solo alla fine che scopriamo quale sia la decisione di Gabriele in merito, segno di una storia che incuriosisce, che sprona a proseguire per svelarne i misteri.

Gabriele scorse in lui qualcosa di diverso (e simile), di estraneo (ma familiare), come se anche lui appartenesse a un mondo altro, al mondo degli abissi.

Le rivelazioni giocano un ruolo importante in questo romanzo. Non solo quelle che il lettore vuole avere, ma anche quelle interne, nate dal contrasto fra i segreti dei personaggi che popolano il romanzo e la maschera che la società impone di mantenere. Un contrasto ben rappresentato dal padre di Gabriele, impaurito non solo dalla consapevolezza che il figlio posso essere diverso ma soprattutto dalla possibilità che gli altri colgano e sottolineino questa diversità.
Questa contrapposizione scorre poi in una delle sotto-trame più rilevanti, quella legata a un piccolo scandalo che coinvolgerà una vecchia conoscenza di Gabriele e che permetterà al lettore di scoprire eventi passati a cui Gabriele accenna per buona parte del libro, stuzzicando la curiosità. Un ruolo chiave nel riparare allo scandalo lo avrà proprio il padre di Gabriele, che nel romanzo diventa così, a tutti gli effetti, il protettore delle apparenze.

Gabriele pensò anche al patri ed emersero in lui emozioni contrastanti: timore e venerazione, ansia e passione, sottomissione e rispetto.

Dinamiche di questo tipo non sono proprie solo di Giarre, però. Catania, pur essendo una grande città, non risparmia a Gabriele la scelta di un ruolo sociale. E con questa scelta, fatta il primo giorno di scuola, scopriamo un lato di Gabriele più in ombra, manipolatore, accattivante e… davvero interessante. Sì, perché a questo tipo di malizia – che nasce più da un istinto che da vera intenzione –, si contrappone un’innocenza che emergerà soprattutto d’estate, quando Gabriele si rapporterà con un uomo più grande di lui trasferitosi nelle vicinanze della sua residenza.
Le sfaccettature rendono Gabriele un personaggio tridimensionale, di cui importa seguire l’evoluzione, ma danno anche spessore alla trama legata alla sua crescita, alla sua consapevolezza di sé.

L’accettazione di Gabriele dipendeva anche dalle sue qualità. Aveva, infatti, la capacità di attrarre la simpatia e conquistare la benevolenza.

Tornando all’anno scolastico, anche qui l’autore non ci risparmia una schiera di personaggi ben scritti che credo si avrà modo di esplorare più a fondo nei prossimi libri: i Finocchiaro con il resto dei compagni di scuola, e l’amato Pietro, a cui Gabriele pensa sin dall’inizio romanzo. Fra i coetanei si creano dinamiche complesse e, grazie a loro, si esplorano i temi tipici dell’adolescenza: dal cambiamento dei corpi alle relazioni con le ragazze, fino ai ruoli di potere nel microcosmo sociale che i ragazzi creano.
Pietro non sarà però l’unico a ritagliarsi un posto nel cuore e nei desideri di Gabriele, e in questo emerge un buon ritratto del suo essere un adolescente in esplorazione di se stesso.

Ma poi, come d’incanto, senza preannunciarsi e senza poterselo spiegare, ecco ritornargli in mente il volto del suo bel Pietro Spaduzza e, con lui, macari quello di Tano, lì, sul davanzale delle vecchie scuderie di palazzo Torrisi.

Per concludere, un romanzo che intrattiene senza rinunciare alla profondità, con le radici salde nel territorio e nella storia, ma con i temi proiettati verso l’universale umano, che riesce a incuriosire sulle vite dei suoi personaggi fino all’ultima pagina (e oltre).

“I segreti tra di noi” di Angela Longobardi

Mentre sul canale mi limito a consigli di lettura, raccontando perché un romanzo di uno scrittore emergente potrebbe piacere tanto quanto è piaciuto a me, qui vi presento delle recensioni vere e proprie (per quanto possa renderle tali la mia esperienza di lettrice). Mi sembra solo naturale iniziare con “I segreti tra di noi”, romanzo d’esordio di Angela Longobardi, uscito il 14 luglio su  Amazon, sia per kindle che in cartaceo.
Ho avuto, infatti, la fortuna di poter leggere il romanzo in anteprima e voglio decisamente averlo fra le fila delle recensioni del mio nuovo blog.
Questa recensione contiene alcuni piccoli SPOILER (se volete un parere veloce e del tutto privo di spoiler, potete sempre guardare il video sul mio canale).


Trama: In un qualunque paesino in un punto imprecisato dell’Italia, una ragazza scompare senza lasciare tracce. Le persone in paese dicono che sia morta e durante la notte di Halloween cinque ragazzi tentano di contattarla tramite una seduta spiritica. Non si aspettano che risponda, ma invece lo fa, costringendoli ad affrontare le conseguenze del loro gesto e, nel mentre, confessare tutti i segreti tra di loro.


Come evidente dalla presentazione, il romanzo potrebbe essere definito di genere sovrannaturale. In realtà, l’autrice riesce ad annodare alla perfezione le caratteristiche del romanzo di formazione – la crescita, il cambiamento, l’accettazione di sé, l’introduzione nel mondo degli adulti – agli aspetti più misteriosi e spettrali della storia.

I giovani protagonisti sono adolescenti come molti altri, in cui è facile riconoscersi. Come la piccola Irene, che apre la storia con le sue ansie per il primo giorno di liceo, ma che presto dovrà affrontare questioni ben più difficili; Levi e Marco, amici inseparabili che rafforzano la loro unione grazie all’amore “non corrisposto” verso i loro interessi romantici; Guadalupe e la sua lotta interiore che la spinge a fuggire, nascondendosi per mesi dai suoi amici; Rebecca e lo sforzo di accettarsi, fatto in passato, e di provare a farsi accettare dagli altri nel presente. Si tratta di personaggi ben dipinti dalla scrittura immediata e scorrevole dell’autrice, con cui si entra presto in connessione, con cui si soffre e si sorride.

Allo stesso tempo, però, seguirli ci immerge in una storia speciale, che alterna ritmi intensi a scene di confronto più diluite, che intreccia presto i problemi del mondo reale all’idea delle questioni irrisolte che rischiano di restare tali per sempre, che racconta di fantasmi veri e di fantasmi dell’anima, quei segreti che non si riescono a esorcizzare perché troppo grandi e troppo importanti.
Non mancano le scene inquietanti, perfettamente filtrate attraverso le paure di Irene, che con il fantasma evocato dai ragazzi instaurerà da subito un rapporto speciale. Né vengono trascurati gli aspetti più romantici della storia, per niente scontati, tratteggiati con la delicatezza che va riservata ai primi amori, con un accento privilegiato al dialogo e al confronto fra i personaggi, che riescono così a sviscerare i loro segreti e a rendere il lettore parte di uno scambio intimo. Le note romantiche, però, non oscurano una delle tematiche più spesso bistrattate da generi come il romance e il sovrannaturale: quella dell’amicizia. Le relazioni che legano i personaggi sono prima di tutto fatte di affetto sincero, di quell’assoluta accettazione che si prova quando si è adolescenti. Né manca l’importante partecipazione della famiglia alla vita di questi ragazzi (famiglie troppo spesso invisibili fra le pagine dei romanzi diretti ai giovani adulti).

Due dei grandi temi del romanzo – e degli aspetti che lo rendono una piccola gemma nel panorama YA, a mio parere – sono quello della sessualità e del genere. Questi due pilastri non definiscono mai il personaggio, non lo esauriscono, ma vengono affrontati con il giusto approccio e non vengono trascurati dall’autrice. Le tematiche LGBT+ (o LGBTQA+ se preferite) sono intrecciate a doppio filo alla trama, perché fanno parte della crescita e, spesso, dei segreti che i personaggi nascondono gli uni dagli altri. Uno dei momenti esemplificativi di queste tematiche è il coming out di Irene, aiutata dall’intervento del fratello Levi, che avviene davanti ad una famiglia che non capisce da subito, ma che non per questo demonizza fino al punto di rottura. Un approccio realistico, che resta però positivo, verso un’esperienza carica di tensioni e di dubbi, descritta in modo molto efficace.

I colpi di scena non mancano e annientano ogni certezza che il lettore si costruisce attraverso le pagine. Non solo per i “piccoli” segreti dei protagonisti, ma anche per quanto riguarda il grande motivo per cui il fantasma entra in profonda connessione con Irene. L’identità dello spirito, che appare quasi scontata per molte pagine, finisce per essere una delle grandi rivelazioni del romanzo. Quando crolla ogni maschera, i ragazzi scoprono che non sono gli unici ad affrontare dubbi e paure, scoprono che alcune debolezze sono umane, scoprono che la loro lotta personale non è l’unica lotta. E crescono anche grazie a queste scoperte.



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