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La caduta del NaNoWriMo

Chi mi conosce da un po’ sa quanto mi piaccia partecipare agli eventi di scrittura come il NaNoWriMO, per quanto io tenda a costruirmi da sola i gruppi di scrittura e faccia poco affidamento su forum e chat ufficiali. Ho sempre amato il senso di comunità che sono in grado di creare, il sostegno fra persone che scrivono e – nello specifico caso del National Novel Writing Month – la gratuità di ogni aspetto e il fatto che si tratti di un’iniziativa nata “dal basso”.

Eppure eccomi qui, a scrivere questo articolo per chi non ha idea di cosa sia successo negli ultimi anni, ovvero: la caduta del NaNoWriMO.

Attenzione alcune parti di questo articolo riportano dei trigger warning da non sottovalutare. Inoltre, avverto già da ora che userò molti “sembrerebbe” e “parrebbe” perché certe organizzazioni hanno la denuncia facile pure per articoli che leggiamo in tre.


Cos’è il NaNoWriMo?

Il National Novel Writing Month è un evento nato negli Stati Uniti nel 1999 che ha lo scopo di spronare chi scrive a completare la bozza di un romanzo (50000 parole) in un solo mese (novembre).

L’evento ha poi preso sempre più piede, si è allargato geograficamente e numericamente, è diventato un’organizzazione no-profit e ha raccolto sponsor (punto fondamentale) per mantenere ogni aspetto gratuito, compresa l’organizzazione di eventi dal vivo e online che coinvolgono persone di ogni età (altro punto fondamentale).

Non è mai servito nulla di speciale per partecipare, se non la voglia di mettersi alla prova e una certa resistenza all’ansia da prestazione. Spesso non si vince, ma si scrive più di quanto non si farebbe gli altri mesi dell’anno.

Inkitt (2022)

La prima scelta discutibile di chi organizza e gestisce il NaNoWriMo è stata la collaborazione con Inkitt (ad oggi a capo dell’app Galatea) sponsor fra gli altri dell’edizione del 2022. Ora, io non so nulla di Inkitt se non quello che ho raccolto per questo articolo e di cui farò un breve riassunto, quindi non ho esperienza di prima mano da riportare nonostante un paio di persone abbiano fatto proselitismo neanche fosse uno schema piramidale. Posso solo riportare l’opinione generale (e personalissima) di variə autorə secondo cui si tratterebbe di una piattaforma non proprio limpida.

Inkitt parrebbe essere un sito sullo stile di Wattpad su cui caricare e leggere storie e, se la questione si fermasse a questo, non ci sarebbe nulla di male (o, almeno, gli si potrebbero muovere le critiche che si muovono a Wattpad e basta). Il fatto è che per lungo tempo Inkitt si è pubblicizzato come “editore” (le virgolette sono d’obbligo). Vi si tenevano, infatti, dei contest di popolarità, e le storie che superavano una certa soglia di letture (solitamente grazie a uno spam selvaggio) vincevano l’opportunità di essere rappresentate da Inkitt, che avrebbe cercato loro una casa editrice. Quindi non solo “editore”, non solo sito di pubblicazione e lettura di storie, ma agente con un guadagno del 15% sulle royalties dell’opera pubblicata. Insomma, c’è confusione, come per tutte le piattaforme che vogliono traffico e guadagno sulle spalle dei creativi.

Visto che basta una mano per contare i vincitori pubblicati, Inkitt ha smesso di promettere la rappresentazione ed è passato a mettere in palio la pubblicazione tramite Amazon KDP (grazie a cui si fa editoria indipendente e su cui ho pubblicato anche io), cosa che però si può benissimo fare da soli, senza cedere percentuali o diritti di alcun tipo e, quindi, senza passare da Inkitt.

Non solo, ma questa “pubblicazione” (spero di non avere un numero finito di virgolette per questa porzione di articolo, perché temo ne abuserò) era sottoposta a molti cavilli contrattuali svantaggiosi per chi ha scritto l’opera e vantaggiosi per Inkitt, almeno al tempo in cui gli articoli che ho letto sono stati redatti (i più rilevanti li ho linkati alla fine). Non so quale sia il contratto che propongono nel 2024, ma questi sono in breve i motivi per cui moltə non hanno gradito che fosse sponsor del NaNoWriMO del 2022.

Alcunə partecipanti, infatti, hanno fanno presente sui forum di non supportare questa scelta e sono statə prontamente bannatə dai moderatori per aver “sparlato” di uno sponsor.

Quando la notizia si è diffusa, però, e le proteste hanno iniziato a farsi sentire, ecco che le persone bannate sono state reintegrate e sono state fatte scuse pubbliche e private per quanto accaduto. Sono anche state fatte promesse sul verificare l’integrità degli sponsor, sul migliorare la moderazione dei forum (punto fondamentale per ciò che accadrà dopo) e sull’evitare che situazioni del genere si ripresentino.

Sembra quindi che la situazione sponsor sia stata risolta e abbia rappresentato un momento di crescita, giusto?
Giusto?

Non proprio.
E tutto questo suonerà familiare molto presto.

Un predatore nei forum (2023-2024)

Trigger Warning: grooming, condivisione di materiale pornografico con minori, abusi e discriminazione. Consiglio di saltare questa parte se non si è nel giusto spazio mentale per leggere di questi temi.

Non voglio sottoporre me e chi capiterà su quest’articolo a dettagli raccapriccianti, ma penso sia importante trovare lo spazio per parlare di questo tema anche in un articolo che si concentrerà principalmente sul mondo della scrittura. Questa è infatti la questione più importante per cui il NaNoWriMo come organizzazione no-profit dovrebbe essere boicottato e chiuso, ed è la colpa più imperdonabile di chi organizzava e gestiva l’evento al tempo dei fatti.

Nel 2023, infatti, un gruppo di minorenni si è fatto avanti e ha condiviso la sua esperienza con uno specifico moderatore, l’unico che moderava la sezione “Christian Teens Together (CTT)” sul forum del NaNoWriMo.

Sembra che il moderatore gestisse un sito NSFW (Not Safe For Work, quindi con contenuti sensibili da non visionare in pubblico o vicino a bambini) a cui indirizzava i giovani dal forum perché interagissero con gli adulti del sito e, viceversa, permettesse accesso al forum del NaNoWriMo ai suddetti adulti con lo scopo di farli interagire proprio con i giovani partecipanti alle discussioni.

La situazione è stata segnalata nel maggio 2023 e – come spesso accade in questi casi, purtroppo – una fantomatica indagine interna dovrebbe aver avuto luogo senza che ci fossero comunicazioni all’esterno o con le persone direttamente colpite. Nel frattempo, il moderatore ha continuato la sua attività impunito (e sul sito incriminato è iniziata un’operazione di eliminazione di ogni elemento compromettente, segno che il moderatore fosse stato avvertito della questione).
Alla fine, la sua rimozione dal ruolo di moderatore è avvenuta per altre violazioni, ma gli è stato lasciato il profilo e la libertà di intervenire nelle discussioni sui forum. Insomma, il tutto si è risolto in un’alzata di spalle e in un “We didn’t see an issue with them being on the site. If we did, we would have acted.”
(Non abbiamo riscontrato problemi nella sua presenza sul sito. Se ne avessimo riscontrati, avremmo agito).

Adesso prenderò una tangente, perché c’è un grosso discorso (in inglese chiamato proprio “Discourse”, con la maiuscola) su internet in merito a temi come il nuovo puritanesimo dei giovani, i contenuti NSFW online e simili questioni (ad esempio l’apprezzare coppie tossiche nelle serie e nei libri). Sebbene questo sia un discorso sfaccettato e interessante, in nessun modo riguarda la condivisione di materiale sensibile con i minori di 18 anni. L’accesso a contenuti NSFW, di qualsiasi tipo, anche all’interno dei fandom, deve restare tra adulti ed essere vietato (il più possibile) ai minorenni. Se un minorenne si finge adulto per entrare in spazi che non gli competono, nonostante siano state prese tutte le precauzioni da parte degli adulti, sta di certo sbagliando, ma pecca della sconsideratezza propria dei giovani. Se un adulto rende accessibile materiale inappropriato a dei minorenni, sta infrangendo la legge, e non ci sono giustificazioni di sconsideratezza che tengano.
Su questo non credo sia necessario un dibattito, né la segnalazione di persone adulte che infrangono questa regola può essere ridotta a “puritanesimo”, checché ne dicano i sostenitori del moderatore (e dei moderatori coinvolti) in merito.

Tornando alla questione principale: l’ormai ex-moderatore ha iniziato poi una campagna di minacce su altre piattaforme, fomentato dall’aver avuto accesso a dati privati degli iscritti per anni e dall’aver supportato molti dei membri del consiglio del NaNoWriMo. Solo a seguito di queste minacce, è stato rimosso totalmente dagli spazi che aveva contribuito a rendere pericolosi per i minorenni.
La posizione ufficiale è rimasta: “The person was removed for several reasons though, and I wouldn’t characterize any of them as child abuse.”
(La persona è stata rimossa per diverse ragioni, però, e non categorizzerei nessuna di esse come abuso di minore).

Nel mentre, i forum sono diventati territorio da disinfettare: ogni riferimento ai fatti zittito, ogni post cancellato, vietato assolutamente parlarne. La scusa (che diventerà un grande classico) era che ogni protesta in merito fosse in realtà un atto di bullismo, che fomentava il vetriolo nei confronti degli organizzatori e che non creava un’atmosfera di dialogo produttivo (sto parafrasando).

Ovviamente, nel momento in cui le autorità sono state contattate e la questione è diventata di dominio pubblico (grazie soprattutto a dei tiktok virali), la direzione del NaNoWriMo ha cominciato a farsi sentire con diversi comunicati linkati in fondo (siamo al 7 novembre del 2023): ha sostenuto che a loro non fosse mai arrivato niente fino a quel momento, che i moderatori non avessero riportato le segnalazioni avvenute, e simili scuse che – fossero anche vere – rappresenterebbero comunque un grosso, grossissimo problema.
Sì, perché nel momento in cui un’organizzazione si interfaccia con minorenni, diventa suo compito tutelarli e creare spazi sicuri per loro. Questa questione non è oggetto di opinioni o dibattiti, è così e basta. Se qualsiasi parte della struttura fallisce in questo compito, l’intera organizzazione va chiusa e indagata.

Ma andiamo alle ripercussioni di quanto accaduto. A dicembre i forum vengono congelati, viene assunto un consulente e un’effettiva analisi interna viene avviata per capire quanto successo. L’organico si riduce pian piano a uno scheletro perché molti esponenti lasciano il loro ruolo nel direttivo.
A marzo del 2024 le regole si fanno ferree, soprattutto per i moderatori: controllo dei loro precedenti penali; forum, server e sito aperti solo ai maggiorenni e ai moderatori l’incarico di segnalare i minorenni che entrano come adulti in questi spazi; aumento generale delle responsabilità di chi accetta il contratto come moderatore. Molti lasciano il ruolo in massa, soprattutto quelli di forum e server regionali (fra cui quello italiano), perché reputano le nuove regole troppo invasive per un lavoro volontario che non è mai stato supportato a dovere dall’organizzazione centrale, e decidono di distaccarsi dall’evento ufficiale per continuare come comunità di scrittura generale.
Su questo punto ho dei dubbi personali: la situazione era estremamente seria e capisco perfettamente perché il direttivo abbia scelto di irrigidire le regole, dall’altra parte capisco anche che in regioni (come quella italiana) dove forum e server non hanno avuto problemi ci sia sentiti investiti di responsabilità (anche legali) di una certa pesantezza.
In ogni caso, nel maggio del 2024 esce un lungo articolo in cui si parla dei cambiamenti in atto. È interessante notare come la richiesta ai partecipanti attivi del NaNoWriMo sia di divertirsi, rilassarsi e donare soldi. Lo scopo è infatti quello di creare “positive, supportive, fun, writing-focused spaces” (spazi positivi, di supporto, divertenti e focalizzati sulla scrittura).
Sì, hanno stranamente dimenticato di dire “safe” (sicuri).

Infatti, questo è uno dei fatti più gravi avvenuti sui forum, ma non è l’unico. Episodi di razzismo, omofobia e discriminazione erano diffusi nel forum “Young Writers Program (YWP) – il programma del NaNoWriMo nato nel 2007 per spronare le persone giovani a scrivere – e trattati con estrema superficialità dai moderatori.
La situazione è passata così tanto sotto silenzio da parte dell’organizzazione ufficiale che vittime e testimoni di questi attacchi hanno creato un luogo – SPEAK OUT – in cui raccogliere le loro esperienze in merito (prima che gli fosse vietato interagire completamente con il NaNoWriMo, s’intende).

Intelligenza Artificiale Generativa (2024)

Veniamo all’ultima parte di questo articolo: la posizione del NaNoWriMo sull’intelligenza artificiale.

Anche se loro si sono guardati bene dal farlo (visto che li avvantaggia), io specifico “generativa” perché parlerò principalmente di quel tipo di intelligenza artificiale “che è in grado di generare testo, immagini, video, musica o altri media in risposta a delle richieste dette prompt” (Wikipedia).
Non parlo quindi di correttori di testo o di strumenti che possono essere utili a chi scrive senza sostituirne il lavoro e che utilizziamo più o meno consapevolmente tutti i giorni.
Lo dico perché a chiunque abbia scritto il post che adesso andrò ad analizzare fa comodo non distinguere le due, mentre la differenza è sostanziale: la seconda è effettivamente un uso della tecnologia come strumento di supporto, il primo ha le sue radici in pratiche per niente etiche o ecologiche, ed è un’arma di discriminazione. Avrebbero potuto spiegare questa distinzione, avrebbero potuto indirizzare la comunità verso strumenti etici che non siano stati allenati su materiale rubato, ma se ne sono guardati bene dal farlo e più avanti spiegherò, secondo me, perché.

Partiamo dall’inizio. Il 1° settembre 2024, l’organizzazione ha postato diversi articoli che dovrebbero rispondere a domande frequenti da parte della comunità.
Uno di questi articoli era intitolato What is NaNoWriMo’s position on Artificial Intelligence (AI)?” (Qual è la posizione del NaNoWriMo sull’Intelligenza Artificiale?) ed è ormai rimosso, motivo per il quale il link porta alla WayBackMachine. Nell’articolo si poteva leggere di come il NaNoWriMo non condannasse nessuno specifico approccio alla scrittura, compreso l’utilizzo di intelligenze artificiali.
Una posizione assurda per una sfida che dovrebbe spronare a scrivere tanto in trenta giorni, visto che con un’intelligenza artificiale generativa il problema neanche si pone. Eppure, se si fossero fermati a questo, è probabile che l’articolo non avrebbe ricevuto tutta l’attenzione che invece ha ottenuto.

Sì, perché il testo prosegue sostenendo che condannare l’uso dell’intelligenza artificiale per la stesura del romanzo sia classista, abilista e razzista.
Vediamo punto per punto la loro tesi:

  • Classista perché non tutte le persone che scrivono hanno il privilegio economico di assumere esseri umani per alcune fasi della scrittura. Per alcune persone che scrivono, l’uso di IA non è una scelta ideologica ma pratica.
  • Abilista perché non tutti i cervelli hanno le stesse abilità e non tutte le persone che scrivono hanno lo stesso livello di educazione e fluidità del linguaggio. Alcune persone richiedono supporto esterno per raggiungere i loro obiettivi ed è errata la convinzione che le persone debbano saper scrivere in modo indipendente o che tutti debbano vedere cosa non va nella loro scrittura in modo autonomo.
  • Relativo a problemi generali di accesso perché i precedenti punti esistono in un sistema in cui non tutte le persone che scrivono hanno lo stesso accesso alle risorse. Un esempio: alle persone razzializzate vengono offerti meno contratti editoriali e quindi vengono spesso relegate allo spazio indipendente, in cui i costi sono tutti a loro carico.

Ora veniamo all’assurdità di questa posizione, che vale per tutte le Intelligenze Artificiali Generative (le stesse giustificazioni le ho sentite usare spesso in ambito di arti figurative, per esempio).

Prima di tutto, mi sforzerei di chiedere alle diverse comunità il loro parere sulla questione. Moltissime persone disabili dalle esperienze più disparate hanno infatti sottolineato come in realtà sia abilista sostenere che non siano in grado di scrivere un romanzo senza utilizzare l’IA. Infatti, strumenti di supporto validissimi (come la dettatura, per fare un singolo esempio) sono molto diversi dall’IA generativa, e fingere che si stia parlando dei primi quando si parla della seconda è disonesto nel migliore dei casi, discriminatorio nel peggiore.

Molte persone razzializzate hanno poi sottolineato come le prime ad essere messe da parte in favore delle produzioni ottenute con l’IA saranno proprio loro, che già in certi spazi faticavano a entrare quando l’IA generativa non era cosa diffusa a causa del razzismo sistematico della nostra società.

A lungo termine, poi, l’IA sarà solo dannosa per queste comunità: le persone con meno risorse, oppure quelle che devono gestire il lavoro in modo diverso e con tempistiche diverse per le esigenze più disparate (e qui, in quanto persona ADHD, parlo anche per me), si troveranno porte chiuse in faccia perché ci sarà un IA che fa il lavoro più in fretta e senza necessità di accomodamenti. Non credo serva predire magicamente il futuro per arrivare a questa conclusione.

È inoltre disonesto parlare dei costi del lavoro umano quando proprio il NaNoWriMo ha sempre sostenuto una comunità di reciproco – e gratuito – supporto, per non parlare della pratica diffusissima di beta-reading (lettura pre-pubblicazione dei testi a titolo gratuito per dare un riscontro a chi li ha scritti).

Inoltre, e qui subentra un’esperienza che ci tengo a specificare essere personalissima e aneddotica, questo tipo di giustificazione (l’IA è buona perché accessibile e gratuita) l’ho sentita spesso utilizzare da persone abili, bianche e privilegiate economicamente. Un caso? Forse. O forse si utilizzano troppo spesso le persone disabili, razzializzate e dalle risorse economiche limitate come scudo per giustificare le proprie pratiche problematiche.

(Non tocchiamo poi la visione della pubblicazione indipendente come di una categoria di serie B in cui si viene spinti e costretti, invece che un percorso scelto, perché questo articolo è già fin troppo lungo.)

In attesa che le IA generative vengano regolamentate e le corporazioni smettano di spingercele giù per la gola per rientrare del loro investimento, veniamo alle conseguenze dell’articolo.
Subito dopo l’uscita, infatti, moltissimə autorə di spicco hanno abbandonato i loro ruoli all’interno del NaNoWriMo, che fossero nel Writers Board o che avessero supportato l’evento prestandosi alla sua promozione (Erin Morgenstern, per fare un solo nome). Perfino alcuni sponsor hanno abbandonato o hanno rilasciato dichiarazioni in aperto disaccordo con la posizione del NaNoWriMo (Ellipsus nel primo caso, Scrivener nel secondo). Sono iniziati a uscire video, articoli, analisi. Infine, colpo di grazia, anche i media tradizionali hanno iniziato a parlare dell’argomento.

Ovviamente, l’organizzazione è corsa ai ripari modificando, cancellando e pubblicano articoli nel tentativo di sfuggire all’ennesimo “scandalo” (non mi piace usare questa parola per questioni come quelle trattate nella parte precedente, ma immagino sia così che vengono visti questi eventi da chi gestisce il NaNoWriMo).
Il tutto con pochissimo successo.
Il 6 settembre è infatti uscito un nuovo articolo titolato “A Note to Our Community About our Comments on AI” (una lettera alla nostra comunità a proposito dei nostri commenti sull’IA) in cui non c’è traccia di scuse, ma si parla di come il dibattito in merito all’IA sia diventato deleterio, delle intimidazioni e degli abusi subiti da chi è a favore dell’IA, e di come gli spazi del NaNoWriMo non possono categoricamente essere usati per delegittimare chiunque scriva, in qualsiasi modo lo faccia. Una giustificazione fin troppo familiare, che sembrano utilizzare per ogni sbaglio che compiono e da cui si vogliono deresponsabilizzare: chi non è d’accordo sta bullizzando.

Personalmente, poi, credo che delegittimare chi utilizza l’IA generativa per scrivere o fare arte in generale sia necessario per arginare un fenomeno non etico e, come detto, discriminante.  E che non ci sia nessun bullismo nell’escludere chi NON scrive dagli spazi di chi scrive. Suonerò intransigente, ma se legittimiamo i contenuti generati, se apriamo le porte a dibattiti, abbiamo già perso contro le corporazioni che vogliono rubare il nostro lavoro passato e sostituirci per il lavoro futuro.

Ma veniamo alla vera ragione di tutto questo, che non è ideologica né pratica, ma puramente economica. Sì, perché la posizione precedente del NaNoWriMo era che “scrivere l’intero romanzo con ChatGPT andrebbe contro lo scopo della sfida”. Posizione logica, vista appunto la natura dell’evento.
Cosa potrebbe essere cambiato?

Che fra gli sponsor del NaNoWriMo compare ProWritingAid (un correttore di testo come potrebbe essere l’editor di Word), che ha lanciato AI Sparks, una funzione di scrittura generata da intelligenza artificiale. L’app promette non solo di cambiare il testo per renderlo più immersivo, ma di continuare le storie al posto dell’autorə con dialoghi, descrizioni e argomenti, di espandere un testo a partire da un elenco di punti, di cambiare punto di vista e tempo verbale. Insomma, sotto le spoglie di un correttore del testo si nasconde un’AI generativa che fa il lavoro per chi scrive.
Come sempre, c’è chi sosterrà che l’app può essere usata come strumento, che nelle mani sbagliate tutto diventa deleterio, che usare tali scorciatoie senza abusarne non è un problema.

Ma su cosa si allenano queste intelligenze artificiali per poter generare i loro testi? Ovviamente su testi presi senza permesso e spesso coperti da diritto d’autore (che viene quindi infranto), oppure sui testi scritti con software che nascondono fra i termini e le condizioni la cessione delle nostre creazioni per l’allenamento di IA. Perché la quantità di materiale necessario perché l’IA generativa sia efficace è enorme, e non potrebbe mai limitarsi a testi ceduti con il consenso (che comunque viene raramente chiesto esplicitamente, per ovvi motivi), né potrebbe mai essere paragonata al filtro umano di una persona che scrive e trae ispirazione da ciò che legge (altra scusa che ho sentito spesso).

L’ironia in tutto questo è il costo dell’iscrizione all’app, che prevede un pagamento mensile fra i 30 e i 36 euro, uno annuale che va dai 120 i 144 e uno vitalizio che va dai 400 ai 700 euro circa. Certo, si può sempre usare l’app come correttore di testo gratuito e accedere in modo limitato all’AI generativa, ma per un prodotto che dovrebbe venire incontro alle necessità anche di natura economica di chi non può assumere esseri umani, mi pare eccessivo. Soprattutto se si pensa che con la stessa cifra è possibilissimo scovare un editor o un correttore di bozze, se il nostro romanzo non è lunghissimo. Insomma, l’ennesima ipocrisia nel farsi paladini di accessibilità e disparità socioeconomica.

In ogni caso, ecco svelato il motivo di un cambiamento tanto radicale nella posizione del NaNoWriMo: ancora una volta è stato messo uno sponsor davanti alla comunità e, ancora una volta, chi si oppone a questa rotta è accusato di bullismo e zittito il più possibile.

Conclusioni

Il NaNoWriMo è ormai diventato l’ennesimo evento “nato dal basso” che è stato trasformato e mercificato fino a respingere proprio lo stesso tipo di creativi che lo hanno fatto nascere. Non una novità (guardo te, inktober), ma comunque qualcosa di triste da vedere e qualcosa di terribile per chi ha dovuto subire abusi, soprusi e minimizzazioni.

Penso che il prossimo o, con ottimismo, quello del 2025 sarà l’ultimo anno del NaNoWriMo, salvo cambiamenti miracolosi. Lo staff è ridotto al minimo e non può gestire l’intera organizzazione, la situazione economica non sembra la migliore da anni, e la fiducia da parte della comunità è ormai scomparsa per sempre. Spero che nascano altre iniziative e che la comunità di chi scrive resti il più possibile un posto sicuro e stimolante.

Grazie per aver letto fino a qui!

Spero che questo (enorme) articolo sia stato utile, puoi trovarmi sui miei social per opinioni e confronti!


Altri link utili

(All’interno di alcuni è possibile risalire a ulteriori link di approfondimento.)

Su Inkwit e il suo rapport con il NaNoWriMo:

Sulla situazione nei forum:

Sulla posizione del NaNoWriMo in merito alle IA generative:

Post e pareri generali in cui mi sono imbattuta:

“Ocean eyes” di Nicole Londino

Sono un po’ in ritardo nel parlare di questo romanzo (come per tutti i libri, arrivo sempre ere geologiche dopo) nonostante mi abbia tirato fuori da un blocco terribile che per buona parte dell’anno scorso mi ha fatto leggere poco e a fatica.  Il romanzo in questione è “Ocean eyes” di Nicole Londino, pubblicato in modo indipendente nel 2022.
Una storia su cosa significa essere adolescenti queer, che all’inizio inganna un po’ con le sue atmosfere spensierate, ma che ha finito per guidarmi lungo un viaggio difficile ed emozionante.

Trama:

Tra un giro allo skatepark e una maratona su Netflix con la sua migliore amica, le giornate di Linda passano tutte uguali. Avere sedici anni può essere facile – e anche un po’ noioso – se non t’importa di quello che gli altri pensano di te.
Un giorno però Carlotta, l’ape regina del suo liceo, le si siede accanto, sull’autobus. E le cose non sono più tanto facili, né noiose.
Perché a Linda importa, adesso. Di Carlotta, del tempo passato insieme, dei suoi occhi così profondi da non poter distinguere un’illusione dalla realtà. Le importa al punto da rischiare di lasciarsi affogare, in quegli occhi color oceano, per non riemergere mai più uguale a prima.


La storia è raccontata in prima persona da Linda, che ci catapulta subito nei suoi sedici anni con una voce fresca e diretta. All’inizio ci racconta di episodi comuni più o meno a tutti gli adolescenti del mondo: i compleanni, la scuola, le amicizie, la famiglia. Scopriamo così i rapporti tesi con la madre, il legame profondo con suo cugino Simone che le ha insegnato ad andare in skate, e la dinamica con la sua migliore amica Daria.

La Linda all’inizio di questa storia non è interessata a tutto il circo della popolarità e preferisce passare del tempo genuino con le persone a cui tiene davvero. Questa tranquillità verrà stravolta proprio da Carlotta, che viene dalla parte opposta del microcosmo scolastico, con la sua popolarità e la sua bellezza.

La libertà ha un odore. A volte anche un suono. Per me, questo odore è quello del mare; il suono è quello delle ruote che sfregano contro l’asfalto.

Penso ci sia stato un buon lavoro di stratificazione delle protagoniste per cui non sono ridotte al loro archetipo di “ragazza popolare” e “ragazza alternativa” ma vengono esplorate e mostrate a tuttotondo. Sono personagge rese ancora più interessanti dal modo in cui il loro vissuto condiziona l’approccio che hanno una verso l’altra e, in generale, verso gli altri personaggi.

Non sono sempre facili da digerire (Carlotta, guardo te), ma proprio per questo sono verosimili. Non esistono molti adolescenti “facilmente digeribili”, dopotutto, ed è giusto così (come sono vecchia). È un’età di scoperte e trasformazioni, per certi versi terribile da vivere, in cui ci si sente allo stesso tempo al centro del mondo e completamente abbandonati a se stessi.

In più punti ho proprio storto il naso all’atteggiamento di Linda che vede ogni cosa “da ragazze” come una perdita di tempo o all’umorismo fuori luogo in un paio di punti, ma è parte della crescita anche questo e non mi è mai davvero sembrato gratuito o immotivato (insomma, è imbarazzante, ma chi a sedici anni non ha avuto almeno un’uscita di slut-shaming?) Sono ragazze giovani, che avranno momenti di maturità e momenti di… beh, stupidaggine.

Però ho trovato l’arco di Linda davvero bello, se si può usare questo aggettivo nel descrivere un percorso così difficile.

Non me lo spiego, ma con Carlotta la concezione del tempo cambia: diventa sempre tardi troppo presto.

E, per restare in ambito di questioni difficili, i temi del romanzo non sono affatto presi alla leggera. Sì, perché se la storia si lascia leggere in fretta – un po’ grazie alla voce fresca di Linda, un po’ grazie allo stile diretto con cui è stato scritto – non per questo si attraversa con leggerezza. Si parla di depressione, di discriminazione, di scoperta di sé, di crescita. E, come sempre nei romanzi che finiscono per piacermi, si affrontano non solo relazioni di amicizia e romantiche, ma di famiglia, soprattutto per quanto riguarda il rapporto fra Linda e sua madre. C’è, poi, anche quell’indagine dell’adolescenza nelle sue gioie e nelle sue estreme crudeltà che ha sempre il potere di ricordarmi perché non tornerei mai indietro, ma che esercita su di me una certa fascinazione. La vulnerabilità di tutte le personagge è scavata a fondo, vivisezionata, anche in momenti all’apparenza più spensierati come la serata fuori con annesso makeover.

[…] io allo skatepark passavo dall’essere la cuginetta di Simo a Linda.
Linda e basta.

Detto questo, consiglio sempre di fare ricerche su eventuali trigger warning se ci sono argomenti verso cui si hanno particolari sensibilità, anche a costo di spoilerarsi un po’ le storie (qui non li metto proprio perché riguarderebbero principalmente la parte finale del romanzo).

E, parlando proprio del finale senza fare anticipazioni, l’ho trovato adattissimo sia all’arco dei personaggi (tutti, non solo la protagonista), sia per i temi di cui ho appena scritto. Vengono infatti introdotti fra le righe già dai primi capitoli, per diventare sempre più evidenti ed espliciti fino all’epilogo.

Insomma, l’ho trovata una storia che, dietro la sua apparenza fatti di colori pastello, rivela pian piano le sue oscurità.

«Simo, ho solo sedici anni» dico infine. «Ho tutta la vita davanti per organizzare questo viaggio. Però sarebbe bello affrontarlo insieme, non credi?»

Consigliata a chi ama i romanzi di formazione emotivi e intensi, raccontati con uno stile fresco e diretto che non rinuncia alle immagini evocative. Secondo me perfetta per lettorə giovani che vogliono immergersi in storie su scoperta di sé, rapporti complicati e queerness.

“You’ve lost a lot of blood” Eric LaRocca

Quest’estate, in un periodo di rifiuto totale della lettura, sono riuscita però a finire un piccolo libricino in inglese di cui sarà molto, molto complicato parlare. Si tratta di “You’ve lost a lot of blood” di Eric LaRocca, pubblicato in modo indipendente nel 2022.
Un viaggio stratificato e disturbante attraverso parti all’apparenza sconnesse fra loro, che mi ha lasciata con più domande che risposte.

Trama:

Each precious thing I show you in this book is a holy relic from the night we both perished-the night when I combed you from my hair and watered the moon with your blood.


Come evidente dall’inesistente quarta di copertina, è difficile parlare con precisione di questo libro. La descrizione più accurata che posso farne è “just vibes” e comunque mancherebbe qualcosa.
Questo romanzo breve è infatti travestito da una raccolta (o viceversa) composta da diverse parti: una novella dal titolo “You’ve lost a lot of blood” firmata Martyr Black, diari e poesie dello stesso autore e, infine, da delle trascrizioni di registrazioni audio in cui Martyr Black parla con il suo ragazzo, Ambrose Thorne. I due si sono macchiati di diversi omicidi e sono scomparsi al momento della fittizia compilazione della raccolta, o almeno così ci informa l’editore – Trent Pilcher – in quelle che possono essere considerate un’altra parte del libro: la prefazione e la postfazione.

I’d like to crawl outside of my head and look back at the horrible thing I’ve become, the soulless spirit residing inside my shell.

Prima di parlare di ognuna di queste parti, vorrei fermarmi a descrivere cosa intendo con “just vibes”. Per me uno dei punti più belli di questo bizzarro libretto è infatti il modo in cui è scritto e, di conseguenza, la sua atmosfera: è poetico, decadente, barocco, è ricco di metafore e arzigogoli, si sofferma spesso su piccoli dettagli, il tutto nella sua declinazione più inquietante e sanguinolenta. In tutte le parti si fa poi un uso spietato dell’anticipazione, che ho trovato davvero ben riuscito e che è stato uno degli elementi che mi ha portata avanti nella lettura anche davanti alle parti meno efficaci del romanzo.
A volte, infatti, tutti questi stratagemmi sono fini a loro stessi, oppure il ritmo non viene controllato a dovere – questo specialmente nella parte finale della novella “you’ve lost a lot of blood”, in cui invece che urgenza, le frasi brevi iniziano a trasmettere una certa ripetitività – ma leggere questo libro è stato, in generale, un’esperienza.

It’s a terrible story. There’s no point to it other than to disturb the listener.

Questo stile è strettamente connesso a Martyr come personaggio: egocentrico, saccente, tutto apparenza e poco sostanza. Già nella prefazione viene descritto dall’editore come uno studente pigro sebbene animato da una certa curiosità e, in generale, una persona eccessiva ma mediocre. Questo si riflette in tutti i punti in cui Martyr parla direttamente (le registrazioni e i diari) e, soprattutto, diventa evidente la sua differenza con Ambrose, che invece è davvero una mente inquisitiva e che ha l’unico difetto – almeno secondo l’editore – di essere accomodante nei confronti degli altri. Com’è evidente da quello che ho scritto, nonostante io abbia trovato entrambi fedeli alla loro caratterizzazione, ho grandemente preferito Ambrose e i suoi ragionamenti a Martyr, verso cui ho provato un crescente fastidio fino alla rivelazione finale, del tutto in linea proprio con questa mia sensazione.

The best games are like viruses you can’t cure. They change us. Stay with us long after we’ve finished playing them.

Ma veniamo alle parti che compongono la raccolta-romanzo breve. Prima di tutto, non sono successive ma si alternano man mano, creando così un certo vuoto di tensione nel mezzo della raccolta (forse stemperato solo dalla novella nella novella). Questo non toglie che la parte iniziale e quella finale io le abbia trovate interessanti e inquietanti il giusto, con momenti che mi hanno proprio fatto rabbrividire o che mi hanno nauseato (in senso buono e volontario).

Il punto debole fra le varie parti sono, a mio parere, le poesie. Sarà che io di poesia capisco poco o nulla, ma non le ho trovate poi così interessanti. A tratti riescono a essere disturbanti e scomode da leggere, certo, ma nessuna mi ha davvero colpito, devo ammetterlo.

Don’t you hate who you are just a little? I’d like to meet the completely self-aware person who’s enraptured with themselves, in love with their entire being. That person doesn’t exist. And if they do, they won’t be alive for long.  

Il punto forte, invece, è la novella che dà il titolo all’intero libro. “You’ve lost a lot of blood” parla di Tamsen e del suo (inquetantissimo) fratellino Presley, in viaggio verso la sede del nuovo lavoro di Tamsen come sviluppatrice di videogiochi.
È evidente da subito che qualcosa non è come dovrebbe essere e le avvisaglie in merito si fanno sempre più disturbanti più ci addentriamo nella storia. Gli sconosciuti lungo la strada, la villa del nuovo datore di lavoro Zimpago, i suoi dipendenti, i datori di lavoro stessi, tutto è inquientante e “fuori posto”, almeno fino al colpo di scena che spiega cosa è accaduto per tutto il tempo. Colpo di scena intuibile da subito, sia chiaro, ma a me prevedere dove finirà una storia non mi ha mai impedito di godermela.

Ci sono parti davvero, atmosferiche, in questa storia, insieme a parti che ho trovato terrificanti e che mi hanno fatto evitare il romanzo di sera e parti più umane in cui si esplora un poco il tema della perdita, della colpa e delle responsabilità.
Insomma questa novella poteva essere un libro a sé, secondo me, se approfondita a dovere. Tratta, in fondo, un tema che ne varrebbe la pena, oltre a quelli già citati, ossia il rapporto fra gioco e realtà. Peccato che lo spazio non sia sufficiente per esplorare il tutto a dovere o per lasciare che le vicende abbiano il giusto respiro.
Proprio per i suoi temi, però, vediamo come questa novella in qualche modo si collega alle vicende di chi l’ha firmata: Martyr Black.

He said it was about – changing. His games are the opposite of entertainment. They’re about what the user can do for the game. Not the other way around.

Veniamo quindi ai dialoghi registrati, con sovra-registrazioni da parte di Martyr in cui emergono i suoi pensieri più oscuri e morbosi. Qui vengono esposti i temi principali del romanzo: creatività e creazione, originalità e plagio, conditi da aneddoti macabri, il tutto in modi a volte vincenti altre volte un po’ scontati. Questi passaggi sono di certo rilevanti per capire cosa accomuna questa raccolta di scritti vari, ma in alcuni punti mi hanno lasciato l’impressione più di un autorə che volesse filosofeggiare sullo scrivere, che non di personaggi che stessero davvero dialogando fra loro.

I diari sono invece la parte più horror della raccolta, con descrizioni degli omicidi di Martyr o, meglio, dei suoi pensieri in merito agli omicidi. C’è body horror, c’è fastidio, ci sono molti temi a cui bisogna fare attenzione se si hanno dei trigger di qualsiasi tipo. Sono anche le parti stilisticamente più decadenti, proprio per la connessione fra la forma e la caratterizzazione di Martyr Black.

Someone could easily be sitting there – watching you – and you’d never know. That’s more frightening than seeing them there. The possibility of them being there – knowing that they can see you, but you can’t see them.

“You’ve lost a lot of blood” è stata una lettura che a tratti mi ha davvero intrigata e a tratti mi ha lasciata perplessa. Non sono sicura che sia un esperimento del tutto riuscito, ma di certo mi ha lasciato la curiosità di leggere altro di LaRocca. Apprezzo sempre le stranezze, le sperimentazioni e un po’ di sano e poetico gore, sono proprio le letture che preferisco (come evidente da quanto mi sia piaciuto “Fornace” di Llewellyn), però mi piace che esplorino i loro temi per bene, senza il bisogno però di esplicitarli, mentre qui forse questo mi è un po’ mancato. Mi sono chiesta in più momenti quale fosse il punto… e poi se un punto dovesse davvero esserci.

The wind murmurs all around Tamsen, carrying with it the sound of distant voices.

Insomma, un romanzo (credo) che consiglio a chi vuole leggere qualcosa di strano, macabro e iper-poetico, o a chi interessa un raccontino sui videogiochi fra l’horror e lo si-fi, o ancora a chi è incuriosito dalle elucubrazioni mentali di due assassini.
E a chi non ha paura di sentirsi un po’ confusə, un po’ disturbatə e un po’ affascinatə.

ALLENARE L’IMMAGINAZIONE: come passare da un’immagine alla trama

Ebbene sì, ritornano gli AppuntaVenti – discussioni e appunti di scrittura, il venti di ogni mese – per parlare dei meccanismi più o meno nascosti dietro alle storie che scriviamo.
In questo articolo ho provato a dissezionare il processo che solitamente mi porta da una singola immagine o scena a un’idea decisamente più approfondita per una storia.

Come ogni razionalizzazione di un processo che va per lo più a istinto (un istinto allenato da anni, certo, ma pur sempre tale), non è legge, non tratta di verità assolute e dogmi incrollabili. Né i suoi vari punti sono in ordine cronologico. Ogni persona che scrive è a sé, ha le sue specifiche esigenze e i suoi rituali. Si tratta più che altro di un’analisi del mio procedimento di brainstorming.

Lo scopo finale sarebbe, come da titolo, allenare l’immaginazione, arma principale nelle mani di chiunque voglia scrivere!

L’immagine

Quasi tutte le mie storie e quelle di moltə colleghə con cui ho la fortuna di parlare nascono da un piccolo dettaglio. A volte quest’idea è un concetto, una dinamica, un trope, ma molte altre è un’immagine. Un singolo fotogramma che ci arriva alla mente mentre stiamo andando al lavoro, pulendo casa, portando fuori il cane. O nel momento in cui chiudiamo gli occhi per dormire e abbiamo bisogno di una storia della buonanotte inventata da noi.

Tutte queste più-o-meno-tediose attività quotidiane sono perfette per sognare a occhi aperti e allenare l’immaginazione. È importante però che le idee che il nostro cervello mette insieme non restino chiuse nella nostra testa. Il consiglio è quindi quello di appuntarsi sempre l’immagine. Bastano poche parole salvate sui nostri onnipresenti telefoni o su uno degli innumerevoli quaderni che noi scribacchinə siamo solitə collezionare. Non deve avere troppo senso, non dev’essere già una trama, non ha bisogno di specifiche: si scrive quello che si vede al solo scopo di non perderlo via fra la lista della spesa e l’appuntamento dal dentista.

Ora, per me le storie partono dai personaggi. Però mi rendo conto che non tutte queste singole genesi arrivano alla mente già popolate. Quindi un ottimo primo passo potrebbe essere quello di abitarle con una coscienza. Dico così perché potrebbe essere una persona, sì, ma anche un fantasma nella piccola finestra del nostro castello gotico, un animale nel mezzo della nostra foresta, un mostro in una palude, qualsiasi cosa di senziente che possa avere una vita da personaggio.

Per la versione definitiva de “Il corpo che indosso” (dopo la sua genesi come giallo di cui non parleremo più, promesso) una delle prime immagini era quella di due adolescenti che parlavano su un balcone di notte, la luce calda che arrivava dalla posrta-finestra alle loro spalle. Tutto qui.

I dettagli

Non resta che dissezionare l’immagine, esplorandone ogni minimo dettaglio.
Per farlo basta continuare a porsi domande sull’immagine: chi sono le persone che la abitano? che emozione trasmette? come ne descriverei l’atmosfera? che colori posso vedere o che suoni posso sentire? che odori, che temperatura? che luogo è? che ragione hanno queste persone per trovarsi lì? cosa sta succedendo?

Lo so che suona molto banale, ma la natura di questo procedimento non è niente di fantascientifico: più si scava, più la nostra immaginazione se ne verrà fuori con altre idee, con collegamenti e motivazioni.
Di solito io non mi metto ad appuntare ogni singola parte di questo procedimento, perché questa fase è malleabile e fumosa, sempre soggetta ad aggiustamenti istintivi, ma le mappe mentali e le liste sono sempre uno strumento utile se sognare a occhi aperti non basta!

Per il mio libro, sapevo già che le due persone nell’immagine erano Gio ed Elia (al tempo con altri nomi), due personaggi di un’altra storia (sì, il giallo) che mi stavano tormentato per avere un romanzo tutto loro. Non erano gli adulti di quella prima versione, però, ma due adolescenti, quindi in un punto totalmente diverso delle loro vite. La luce alle loro spalle era “casa”, un luogo sicuro, ma loro erano fuori, nell’aria fresca della notte, immersi in un’atmosfera calma ma in qualche modo malinconica.
Due dettagli hanno poi fatto da base per scene future: i capelli di Elia e la sigaretta di Gio.

Le persone

Come ho scritto all’inizio, però, le mie storie nascono dai personaggi. E quindi gran parte della mia immaginazione finisce per concentrarsi su questo. Dall’immagine, infatti, si può intuire già molto di quello che finirà per caratterizzare le persone al centro delle nostre storie. Sappiamo vagamente come appaiono e chi sono perché abbiamo scavato nell’immagine, ma per dare loro spessore dobbiamo capire cosa vogliono, di cosa hanno bisogno, che ostacolo interiore dovranno affrontare, che “fatal flaw” hanno, eccetera.

Insomma, è il momento in cui gli strumenti della narratologia possono venire in nostro soccorso, sia che siano applicati istintivamente che razionalmente, in base alle nostre predisposizioni. Può essere un procedimento estremamente strutturato, con schede personaggio e simili, oppure un’esplorazione tutta interna in cui li conosceremo sempre meglio più indirizzeremo l’immaginazione a costruirli (QUI parlo più nello specifico di alcune idee per caratterizzare i personaggi).

È anche il momento di capire in che punto del loro arco si colloca la nostra immagine: sono all’inizio del loro cammino, sono nel momento più buio della loro storia, sono alla fine quando il cambiamento (salvo casi speciali) è già avvenuto?

Per “Il corpo che indosso” sono arrivata alla conclusione che quel momento sul balcone fosse un momento di transizione per entrambi i personaggi. Elia con le sue fragilità (sommate a quelle tipiche dell’adolescenza) che finalmente trova in sé un po’ di assertività, Gio con la sua paura dell’abbandono e la sua protettività verso Elia, costretto a mettere tutto da parte e ascoltarlo.
Mi sono chiesta da dove arrivassero, questi due, cosa li avesse resi chi erano, e dove potevano finire. Così sono nati tanti altri personaggi, come le loro famiglie e i loro amici. Così sono nate la nonna di Gio, Libera, e la sorella di Elia, Eleonora.

Il mondo

Per me questo è uno degli ultimi punti quando parto dalla mia immagine per arrivare a una storia, per altre persone probabilmente il primo, sta di fatto che i personaggi non aleggiano nel vuoto. La nostra immagine, come abbiamo già esplorato grazie all’analisi dei suoi dettagli, ci restituisce un’ambientazione.

Può essere fantastica o realistica, può essere un singolo luogo specifico in cui i nostri personaggi si troveranno o un intero mondo di cui stiamo vedendo uno scorcio. Ma, anche qui, continuare a esplorare l’immagine con la nostra mente può farci accumulare informazioni sull’ambientazione della nostra storia, ottimo punto di partenza sia che il nostro mondo sia enorme e necessiti di successiva costruzione e ricerca (penso al fantasy o alla fantascienza), sia che si tratti del mondo che viviamo e abitiamo tutti i giorni.

A volte, sono proprio i piccoli dettagli a rendere realistico un universo, e di dettagli da esplorare potrebbero essercene a decine nella nostra immagine di partenza. Avremo così idea di atmosfera, colori, architettura, arredamenti, flora, fauna, ecc.

“Il corpo che indosso” ha un’ambientazione molto, molto specifica. La finestra da cui esce la luce calda della mia immagine aveva qualcosa di rassicurante: “casa”, come ho detto. Mi sono chiesta di chi fosse, quanta importanza avesse per i personaggi, come fosse dentro, cosa rappresentasse, quali cambiamenti la aspettassero. È così che è nato l’Appartamento di Libera, il luogo dove si svolge l’interezza della storia di Elia e Gio, con tutta la sua simbologia emotiva.

Il conflitto e il cambiamento

Ma se i personaggi e il mondo sono punti fondamentali, le storie sono niente senza conflitti e cambiamenti.

La nostra immagine può ancora esserci utile, in questo senso: possiamo cercare il conflitto fra le persone che la popolano, o fra le persone e il loro mondo, fra elementi diversi dell’ambientazione che possiamo scorgere o grazie a dettagli in cui è possibile trovare della tensione. Possiamo, insomma, scavare sempre più a fondo, domanda dopo domanda, alla ricerca di un conflitto o di un potenziale cambiamento.
Lo scopo finale è, come sempre, riuscire ad andare da quest’idea a una storia.

C’è chi a questo punto è prontissimo a buttare giù le prime pagine (forse perfino prima) e chi ha bisogno di usare una struttura per “plottare” l’intera storia, chi scoprirà man mano gli eventi e chi è pronto ad appuntare ogni snodo fondamentale. L’importante è ricordarsi che ai nostri cervelli piace il cambiamento, che è il motivo per cui si insiste spesso sulla necessità di un’incidente scatenante che cambi la situazione di partenza della storia, di ostacoli che la rendano interessante e di punti di tensione che tengano il lettore immerso nelle vicende.

Anche qui, si tratta di capire più o meno quale metodo sia il più adatto alle nostre inclinazioni (un video che adoro è questo di Ellen Brock, perché credo abbia trovato una buona categorizzazione su cui è possibile costruire un metodo adatto a noi).

Io amo immaginare i conflitti fra personaggi. Sapevo già che la relazione fra i due della mia immagine aveva alcuni tratti della co-dipendenza, sapevo che erano cresciuti insieme, sapevo che le due personalità così diverse che stavo iniziando a esplorare erano destinate a non capirsi fino in fondo. Eppure, in qualche modo, sapevo anche che erano perfetti per stare insieme… poteva trattarsi solo della necessità di crescere, maturare, trovare un proprio equilibrio.

Per concludere…

Spero che questo articoletto possa essere lo spunto per fare un esercizio mentale a partire da un’immagine trovata su Pinterest, o venga usato per affinare una storia su cui magari siete bloccatə ripartendo dalla sua idea iniziale o che vi dia semplicemente una spintarella a pensare meglio un’idea con cui state giocando da un po’ nella vostra testa.

È stato interessante per me vivisezionare questo procedimento e vedere come a volte può funzionare la mia immaginazione.

E ora… buona scrittura!

“Come uscita da un sogno” di Giulia Peruzzi

“Come uscita da un sogno” è un racconto saffico che scalda il cuore come l’abbraccio di una vecchia amica. Si può leggere gratuitamente su Wattpad, ascoltando questa playlist scelta appositamente dall’autrice per accompagnarci nell’avventura di Francesca.

Trama:

È l’estate del 1999, Francesca ha 16 anni ed è costretta a trasferirsi da sua nonna per un mese in uno sperduto paesino della campagna in provincia di Verona. Quello che si preannuncia l’agosto più noioso di sempre si rivelerà invece per lei, grazie a uno zio che la farà sentire capita e a un pizzico di magia onirica, il mese più bello della sua vita e quello in cui incontrerà un amore che non conosce confini.


Questo racconto all’apparenza semplice – due ragazze che si incontrano e si piacciono – in realtà nasconde tantissimo di speciale. Non solo per il pizzico di magia dovuto a come le due ragazze si incontrano, ma anche per i temi che vengono trattati, per i personaggi secondari a dir poco fantastici, per il contesto, per l’ambientazione e per la cura dei dettagli.

Non ho un luogo dove andare: tutto è destinazione, e niente è destinazione.

Ma andiamo con ordine e partiamo dal primo elemento che mi ha catturata fin dalle prime righe: Francesca. La protagonista di questa storia ha una voce estremamente caratteristica. Il fatto che sia un’adolescente si percepisce da ogni parola, da ogni pensiero e da ogni azione. Mi ha ricordato sia i momenti difficili – capirsi, capire gli altri, accettare i cambiamenti – sia quelli belli – l’intensità delle emozioni positive, l’esaltazione della scoperta, le possibilità future – ed è stato in generale facilissimo entrare in connessione con lei e capirne le motivazioni e i desideri.

Ma Francesca non è l’unica personaggia a cui mi sono affezionata, anzi. Lavinia, la co-protagonista, è piena di sfaccettature: dalla sua apparenza sicura di sé ed energetica ai momenti d’ombra dovuti alla sua storia personale. Per non parlare della nonna di Francesca, così distante dalla nipote e dal suo mondo, ma allo stesso tempo capace di esserci nel modo più semplice possibile. E poi il mio personaggio preferito in assoluto, lo zio Leo, che fa da mentore e guida per Francesca, lasciandole però lo spazio per conoscersi e capirsi da sola. Tutti, in questa storia – anche i personaggi che ho mal sopportato, come gli altri zii – sono ben scritti, hanno il loro modo di esprimersi e muoversi, la loro visione del mondo, e si integrano alla perfezione al viaggio di Francesca.

«Sono tornata», dico all’erba e alla casetta in lontananza, e quando l’aria mi porta una risata la riconosco subito.
«Portami da lei», sussurro, e lascio che il vento mi trascini in avanti.  

Un aspetto su cui non mi stancherò mai di fare i complimenti a Giulia è il modo in cui le sue descrizioni prendono vita dalla pagina, rendendo vividi i luoghi, le persone e le situazioni. Questo racconto non fa eccezione, e in più punti mi sono trovata a sentire i fili d’erba fra le dita, a respirare i profumi della campagna, a vedere il prato, il lago e la casetta dei sogni. C’è qualcosa di essenziale e allo stesso tempo di incredibilmente efficace nel modo in cui le parole si trasformano in immagini, in questa storia.

Il lavoro di ricerca fatto è evidente (e non solo perché sono stata testimone in prima persona della stesura del racconto) e i dettagli reali della fine degli anni ’90 – luoghi, associazioni, riviste, programmi, musiche, piccoli rituali – rendono questa storia ancora più vivida. Per me che in quegli anni ero bambina è stato un tuffo nel passato che più volte mi ha strappato un sorriso (anche se non tornerei indietro per niente al mondo)!

Sembra avere la mia età e indossa una salopette di jeans corta e larga, che le scopre le gambe floride, sopra una maglietta a righe colorate. Mi squadra a labbra schiuse con un’attenzione tale da farmi arrossire. Mi sento scoperta, come se riuscisse a guardarmi dentro.

Come dico all’inizio, però, il racconto non è solo ciò che appare in superficie. È una storia romantica fra due adolescenti, sì, ma c’è molto di più. Prima di tutto la scoperta della propria sessualità, che è un po’ parte del viaggio dell’adolescenza, soprattutto se non si è eterosessuali. Qui il tema è toccato con una delicatezza e un realismo commuoventi, che avrei voluto leggere da giovane e che, adesso che sono adulta, mi ha intenerito davvero tanto. Non solo, però, perché si parla molto bene anche di famiglia, nei molti significati che la parola può avere – positivi e negativi che siano –, di amicizia, di perdite e del rapporto fra generazioni diverse. Forse è perché sono tutti argomenti di cui mi piace tantissimo leggere (e scrivere), ma ho davvero apprezzato quanto l’universo di Francesca fosse ricco e stratificato.

«Si chiamano sogni lucidi», mi spiega, e gli occhi le brillano in modo strano.

Insomma, una lettura perfetta per chi vuole una storia tenera e genuina, con un pizzico di magia vera e propria e un pizzico della magia che solo le belle storie sanno creare!

“Nel freddo e nella notte” di Silvia Torani

 “Nel freddo e nella notte” è un thriller soprannaturale con un’atmosfera da brivido (letteralmente, vista l’ambientazione nordica), personaggi incredibili ed elementi queer. Il romanzo è una pubblicazione indipendente uscita proprio questo ottobre 2022 che si può trovare su Amazon in cartaceo e per kindle e in ebook sui maggiori store online.

Trama:

Ci sono storie che non vogliono essere dimenticate.

La dodicenne Sidny Bjerke scompare nella notte polare e una creatura misteriosa si aggira affamata ai confini della valle. L’inverno a Longyearbyen, paese di duemila anime affacciato sull’Artico, è un lungo buio che dura quattro mesi. Se si vuole ritrovare Sidny ancora viva, bisogna agire subito e sapere come muoversi in un ambiente freddo e ostile. Nessuno però si aspetta che le indagini vengano affidate proprio alla detective Artemis Hansen, l’ultima arrivata sull’isola.

Alle Svalbard Artemis cerca una nuova casa dove vivere la propria identità di donna trans senza conflitti e sensi di colpa. Per gli abitanti di Longyearbyen è un’estranea, e non sarà facile ottenere la loro fiducia per ritrovare la bambina scomparsa. Il detective Martin Radlov si offrirà di aiutarla, ma un mistero vecchio di trent’anni lo perseguita: un’altra bambina scomparsa nel nulla il cui fantasma continua a tormentarlo.


Ho avuto la fortuna sfacciata di poter leggere questo romanzo in anteprima e devo confessare che l’ho divorato. Lo stile asciutto e diretto con cui la storia viene raccontata si sposa alla perfezione con i fatti crudi e il ritmo serrato degli eventi, ma non trascura una certa meraviglia sia davanti all’estremamente bello – come l’aurora boreale – sia davanti all’estremamente brutto – come i momenti orribili e cupi che accompagnano l’indagine della protagonista, Artemis.
E proprio attraverso gli occhi di Artemis scopriamo cosa vuol dire cambiare vita per trasferirsi in un luogo remoto e difficile come Longyearbyen, cosa significa essere la nuova arrivata e trovarsi per le mani un mistero complesso e delicato, cosa significa – anche – essere una donna trans e dover affrontare ulteriori sfide oltre quelle che la scomparsa di una bambina già comporta.

«Avevo bisogno di ritagliarmi degli spazi che fossero solo miei, di trovare un nuovo equilibrio. Sono fortunata, la maggior parte delle persone non può permettersi di farlo.»

Ma questa storia non è solo ciò che ci si aspetta, perché da buon thriller soprannaturale introduce da subito elementi inquietanti la cui spiegazione va oltre la realtà dei fatti nuda e cruda. E questo è forse l’aspetto che più ho amato nel leggere questo libro (secondo forse solo ai personaggi, di cui è incredibilmente facile innamorarsi). Ogni singolo elemento si sposa alla perfezione con gli altri, tutto si incastra al suo posto, i sospetti si moltiplicano e ogni pista potrebbe essere quella giusta. Insomma, si segue ogni scoperta di Artemis trattenendo il respiro, consapevoli che c’è molto di più dietro gli eventi a cui stiamo assistendo.
Non è facile far sì che tutto risulti credibile in un genere come questo, ma qui ogni singola scelta dei personaggi ha le sue ragioni d’essere, dal motivo per cui l’indagine viene affidata proprio ad Artemis a tutte le strade che verranno prese nel corso della storia; così come gli elementi soprannaturali sono legati ai luoghi, alle leggende e agli stessi eventi che compongono la storia, e non risultano mai fuori posto.

[…] ogni volta che di notte accadeva qualcosa di strano, ogni volta che si rompeva una finestra o un traliccio crollava, mia nonna diceva: “È la polarjenta che si vendica”.»

Ma, come ho detto, la parte che ho preferito sono proprio i personaggi. Io amo leggere storie in cui le interiorità vengono trasmesse dai piccoli dettagli, e il romanzo è pervaso da queste accortezze. Così i personaggi escono vividi dalle pagine per come parlano, per come si muovono, per come ragionano e per tante altre ben più piccole caratteristiche. E il loro passato recente e lontano li ha formati – un aspetto ricorrente nel corso della storia –, rendendoli le persone che ci troviamo a conoscere, sia in modi evidenti che fra le righe. Artemis prima fra tutti, ovviamente, ma anche personaggi come Maya, Martin, la governatrice Svestad…
Le interazioni, poi, non fanno altro che dare risalto a queste caratterizzazioni, di qualsiasi tipo esse siano. In più punti mi sono ritrovata a fare il tifo per una dinamica o un’altra, a maledire gente nella mia mente o a pensare “oh no, non tu!”.

«E tu? Hai mai pensato di lasciare le Svalbard?»
«Non potrei mai. Prima o poi sarò costretto ad andarmene, ovviamente, ma fino ad allora…»
«Perché?»
«Non c’è nessun altro posto al mondo come questo, non mi sentirei a casa da nessun’altra parte.»

Un’altra grande protagonista di questa storia, però, è l’ambientazione. Le descrizioni dei luoghi mi hanno fatto respirare l’aria gelida, mi hanno fatto alzare la testa verso il cielo illuminato dall’aurora boreale, mi hanno fatto sentire il buio perpetuo della notte polare, mi hanno fatto rabbrividire e meravigliare. Non solo, l’ambientazione è legata a doppio filo a ogni singolo aspetto della storia, da quelli più banali (non sono trascurati, per esempio, tutti i rituali che riguardano il vestirsi per un ambiente così ostile) a quelli più sottili che meritano di essere scoperti senza anticipazioni.
Quando un’ambientazione non fa solo da scenografia ma è parte integrante e vivida della storia, quando i luoghi si riflettono nelle caratterizzazioni dei personaggi e influenzano gli eventi in modo evidente, io mi dimentico di stare leggendo e inizio a vivere quello che viene raccontato.

Ora che la stanza è buia, lo spiraglio di cielo oltre le tende illumina i mobili con la luce flebile di un fantasma. Scosto la tenda. La bufera è passata. Nastri di luce verde e rosa danzano nel cielo sopra distese di ghiaccio e montagne come riflessi arcobaleno su un mare di petrolio.

Infine, voglio spendere due parole per i temi del romanzo. Ovviamente già dalla trama è possibile intuire che non ci si trova davanti a una storia facile. A tratti si è trattato proprio di un pugno nello stomaco e in più scene la storia va in posti emotivamente difficili. Tutto questo per me è un grosso punto a favore di “Nel freddo e nella notte”, perché quando leggo un romanzo di questo tipo voglio provare emozioni, e questa storia me ne ha fatte provare molte. Mi sono commossa, ho sorriso, ho provato tenerezza, paura, rabbia…
Non si può chiedere di meglio quando si apre un libro.
Come sempre, però, attenzione a eventuali temi che potrebbero turbare come la transfobia, la violenza e tutto ciò che può riguardare la scomparsa di una bambina.
Mi sento di sottolineare che nessuno dei temi del romanzo, neanche fra quelli più forti e difficili, è mai introdotto per puro dramma. Come ogni aspetto di questa storia, anche quelli più crudeli sono ben integrati e trattati con il giusto tatto. Non viene tolto nulla a quanto siano difficili, ma non vengono amplificati prendendosi spazi che li renderebbero un meccanismo narrativo.
Sono reali, e con questo senso di realtà arrivano dritti dritti a noi che leggiamo.

Ho sempre amato il buio.
Sono le dieci del mattino e il cielo è nero. Mi piacerà vivere a Longyearbyen, per lo meno d’inverno.

Consiglio “Nel freddo e nella notte” a chiunque voglia un thriller soprannaturale in grado di toccare punti sensibili del suo animo senza rinunciare a un ritmo serrato e a un mistero complesso, a chi apprezza che i suoi libri trattino anche tematiche queer, a chi vuole innamorarsi di personaggi estremamente reali e a chi vuole visitare le isole Svalbard e sorprendersi di fronte alle meraviglie della natura… e alle oscurità dell’animo umano.

Uno sfogo su “Seminario sui luoghi comuni” di Francesco Pacifico

Di rado mi esprimo sul contenuto di libri che non ho finito, ma in questo caso, a un centinaio di pagine o poco meno dalla fine, penso di aver bisogno di mettere da qualche parte i miei pensieri in modo da strapparli dalla mia mente come erbacce e non pensarci più. Premetto che quello che segue è un parere personalissimo e questo libro potrebbe fare al caso di altri. Io non sono in modo più assoluto il target di questo prodotto, e penso che il motivo emergerà leggendo quanto segue.

Trama:
Come si scrive un incipit? Di cos’è fatta la struttura di un romanzo? Come riuscire a dare un vero spessore a un personaggio letterario? Quali sono gli ingredienti di una scena madre che porti in visibilio il lettore senza trascinarlo nei territori della retorica? Da Gogol’ a Nabokov, da Camus a Tolstoj, da Gadda a Proust a Philip Roth, Seminario sui luoghi comuni è il più godibile ed efficace manuale di scrittura creativa che si possa immaginare perché composto proprio con «l’aiuto» dei grandi scrittori.
Con sagacia, ironia, profondità, Francesco Pacifico analizza 37 passi celebri di altrettanti giganti della letteratura attraverso i quali imparare a scrivere, ma prima ancora a entrare con più consapevolezza dentro i libri che hanno segnato il nostro immaginario. In questo modo, ad esempio, potremo prima leggere una celebre e godibilissima scena di Colazione da Tiffany, e subito dopo ci verrà chiesto di prestare attenzione a una serie di dettagli e meccanismi ai quali forse non avevamo mai fatto caso ma che costituiscono il «vero segreto» della scena in questione, il suo «dietro le quinte». Così facendo non solo familiarizzeremo come non credevamo di poter fare coi ferri del mestiere, ma proveremo un amore tutto nuovo per romanzi e racconti che ci eravamo illusi di conoscere fino in fondo.


L’esperimento è la ragione per cui ho deciso di acquistarlo: riscrivere passaggi di grandi nomi della letteratura per sviscerare su carta cosa potrebbe renderli tali. Ora, non è tanto la questione “grandi della letteratura” ad attrarmi, perché è un concetto che qui in Italia consideriamo sacro e io col sacro tendo ad avere rapporti difficili, soprattutto negli ultimi anni (smontare tutto quello che credevo sacro mi ha fatto crescere tantissimo). È più la questione di mettersi lì e riportare su carta un processo che spesso è tutto mentale, soprattutto per chi scrive, magari con la conoscenza tecnica necessaria a estrapolare e fare propri i meccanismi nascosti di un testo.

La rubrica si chiamava “Seminario sui luoghi comuni” a indicare come alla fine tutti scrivessero sempre delle stesse cose, di cose di tutti, di cose per lo più ovvie, come il denaro, la malattia, le faccende di una giornata impegnativa, i rapporti con gli altri.

Peccato che le conclusioni siano solo travestite da approfondimento. Vanno poco oltre la superficie, niente di più, tutte concentrate a sembrare brillanti più che a esserlo. E quello che si dovrebbe imparare dagli estratti riguarda più spesso i temi cari agli autori che non interessanti spunti sullo scrivere. Dimmi come quell’autore veicola i suoi temi, che armi usa per colpire proprio dove pensi volesse colpire, invece di dirmi cosa comunica, dai. Il cosa ha tanto del soggettivo, per quanto un autore si possa studiare in base ai suoi intenti e alla sua storia. Quella fra le pagine è l’interpretazione di Pacifico, con il suo retroscena culturale, la sua visione, i suoi valori, mentre la mia potrebbe essere ben diversa, così come quella di ogni singola persona che si approccia al testo. Tutte queste interpretazioni, di certo, lasciano il tempo che trovano, ma è un vizio di molti (uomini?) credere che il loro approccio sia l’Approccio, con un’universalità che fa il giro e diventa estremamente particolare, perché intere categorie di persone… just can’t relate, buddy.

Ho sperato si andasse oltre il cosa finché non ho realizzato che non sarebbe mai accaduto. E niente mi toglie dalla testa che questo approccio sia dovuto all’idea che, in fondo in fondo, la scrittura non si possa imparare ma sia un’arte mistica, che nasce in noi di suo o per volontà di un qualche dio (maschio) della parola. Nel primo capitolo quest’idea viene smentita con ironia, ma io non mi baso solo sulle intenzioni, perché le esecuzioni sono importanti.

Per concludere questa parte, a volte si intravede qualche barlume, ma non abbastanza perché questo libro valga il tempo che chiede.

Le parole sono importanti. Qualcosa ci dice che sono in rapporto troppo diretto con il nostro uso più comune e quotidiano delle cose, e quindi, anche nei più ispirati voli dell’immaginazione, il linguaggio deve avere una grammatica fondata nella realtà.

Vero motivo per cui ho interrotto la lettura, però, è la mentalità che emerge dalle scelte che vengono fatte.

Prima di tutto, donne non pervenute. C’è la Woolf, che pare venga letta senza però degnarsi di capirla (altrimenti qualche donna in più sarebbe sbucata fuori, secondo me) e basta. Una. Una sola su una quarantina.

Dalle scrittrici, dopotutto, cosa ci sarà mai da imparare? Niente, dico bene, litbros?

Eppure le donne non sono grandi assenti: sono l’oggetto (un oggetto?). Sono presenti in molti passaggi, scritte dal pugno di vari autori, in modi più o meno consoni al tempo del testo da cui i passaggi sono tratti (oggi, quindi, invecchiati non benissimo). Non che esempi virtuosi manchino in letteratura, anzi, ma qui le scelte sono ricadute su altro. Non si potevano selezionare passaggi diversi? No, meglio che agli autori venga continuamente insegnato, più o meno esplicitamente, a scrivere male le donne, e ai lettori a considerarlo normale.

Attenzione, ribadisco che non si tratta di un sessismo esplicito e ben riconoscibile quello di questo romanzo(per quanto valga fare questa distinzione), ma un sessismo nascosto appunto dietro le scelte: alla fine le autrici non ci sono e se si deve fare un esempio come il seguente, alle donne saranno attribuite doti in cucina, al resto delle persone soldi e proprietà.

Per estendere il discorso e fare un inventario di temi da romanzo, si può penare ai soldi o alla casa di proprietà dei nostri genitori; alle abilità di cuoca di nostra sorella o della nostra compagna/fidanzata/moglie; alla casa al mare di nostro cognato, da farci prestare l’estate prossima.

In più punti, poi, il disprezzo verso la letteratura di genere è evidente. Questione, questa, tutta italiana e ormai vecchissima, che puzza di intellettualoide che piange perché l’editoria va male senza rendersi conto che va male anche, in una certa parte, perché si glorifica e si pubblica in continuazione, da secoli, lo stesso libro: uomo bianco eterosessuale triste cerca se stesso e il suo ruolo nella società, storia spesso condita da uno o più interessi amorosi che riducono la donna a creatura angelica o a oggetto sessuale, di volta in volta.

Intere e vastissime categorie di romanzi, storie incredibili e autorə con capacità sbalorditive, il tutto ridotto a una distrazione solo per ignoranza.

Perciò, [Boccaccio] invece di essere il nostro vero autore nazionale, pare una sorta di scrittore di genere, una distrazione letteraria invece che la vera foce dell’immaginazione italiana, il vero esperto del nostro carattere nazionale, il tassonomo della doppia morale.

Infine, ma di non poca rilevanza, un uso nel migliore dei casi superficiale, nel peggiore ignobile, della parola. Non sottolineo quanto sia discordante in un libro del genere (e intanto lo sottolineo).

“Autistico” per descrivere qualcosa di “strano” (“vagabondaggi rigorosi, un po’ mistici, deliranti, autistici”), uno slur per parlare di un uomo gay (unico “marito” del passaggio, che quindi poteva essere benissimo definito “il marito”, invece che “il marito f****o”, ma qua bisogna essere frizzantini e irriverenti, no?).

Boh, sarò io, ma non è solo questione di offensivo – perché lo è, a discapito di quelli che piangono nel cuscino ogni notte perché “il politicamente corretto ha rovinato la mia libertà di insultare gli altri wee wee” –, ma di poco fantasioso, di poco abile, di poco attento. Fa schifo, non solo concettualmente, ma anche dal punto di vista letterario.

Siamo vecchi.

Siamo vecchi, quando parliamo di letteratura in Italia, e si sente. Gli concedo l’essere un libro che ormai ha dieci anni (quindi i contenuti ne hanno pure di più), ma invecchiare così male e così in fretta – senza contare che certe scelte facesse schifo leggerle pure dieci anni fa, anche se lo si diceva meno e a volume più basso – non è un buon segno, per un saggio che invita a imparare a scrivere (e a leggere) con i classici.

“Spellbound” di Allie Therin

“Spellbound” è il primo libro della serie “Magic in Manhattan” di Allie Therin, pubblicato per Carina Press nel 2019. Io l’ho ascoltato su Storytel (nella sua versione originale in inglese) all’inizio di quest’anno e, dovessi scegliere solo tre parole per descriverlo, userei le stesse che si trovano in copertina love, magic and prohibition.
Ma le mie osservazioni sui libri raramente si fermano a tre parole, quindi…

Trama:

Arthur Kenzie’s life’s work is protecting the world from the supernatural relics that could destroy it. When an amulet with the power to control the tides is shipped to New York, he must intercept it before it can be used to devastating effects. This time, in order to succeed, he needs a powerful psychometric…and the only one available has sworn off his abilities altogether.
Rory Brodigan’s gift comes with great risk. To protect himself, he’s become a recluse, redirecting his magic to find counterfeit antiques. But with the city’s fate hanging in the balance, he can’t force himself to say no.
Being with Arthur is dangerous, but Rory’s ever-growing attraction to him begins to make him brave. And as Arthur coaxes him out of seclusion, a magical and emotional bond begins to form. One that proves impossible to break—even when Arthur sacrifices himself to keep Rory safe and Rory must risk everything to save him.


Partiamo dalla prima delle tre parole che descrivono questo libro: love.
Sì, perché in primo piano c’è una storia d’amore, quella fra Arthur “Ace” Kenzie e Rory Brodigan. Due personaggi che non potrebbero essere più diversi – sia per il mondo da cui provengono che per la prospettiva che hanno – e i cui punti di vista seguiamo per tutta la storia.
Il primo ha i mezzi e il prestigio sociale per portare avanti la sua attività segreta: guidare un gruppo di “paranormali” (persone con una dote magica specifica) alla ricerca di reliquie intrise di magia che minacciano il mondo. Il secondo tenta di avere una vita normale nonostante abbia la dote della psicometria, ossia la capacità di toccare gli oggetti e rivivere eventi passati che li hanno coinvolti.

Arthur è il tipo di personaggio che spesso finisce per piacermi. Un protettore, la cui inclinazione a prendersi cura degli altri è dettata dalle sue esperienze passate e che nasconde tutte le sue fragilità dietro a una maschera di sicurezza in sé e controllo della situazione. Quelli come Rory, invece, di solito mi piacciono molto meno: immaturo, capriccioso e un po’ incosciente nel suo desiderio di autonomia. Anche in questo caso, però, ho apprezzato le motivazioni dietro questa caratterizzazione – la giovane età e la diffidenza dovuta al suo potere – e alcune sfaccettature del suo passato – il rapporto con la religione, per esempio, che è uno dei temi di cui mi interessa sempre leggere.
La solitudine che i due sentono è il primo punto di contatto e la loro relazione si snoda in modo realistico durante la storia, partendo dall’attrazione per finire in qualcosa di più profondo, il tutto condito da qualche scena intima in “fade to black” più focalizzata sulla carica emotiva del momento che non sulla descrizione delle azioni (scelta che ho apprezzato, in questo contesto).

“How did you break your specs?”
“Let’s see… how was it?” Rory tapped his lips thoughtfully. “Oh, right, none of your business.”
Arthur rolled his eyes. The cute ones were always little shits.

Veniamo alla parte paranormale di questo romanzo: magic.
La trama che riguarda la reliquia magica è molto lineare, cosa che non trovo per forza negativa in un contesto in cui il vero punto di forza sono la relazione romantica e i personaggi. Anche della magia, infatti, i risvolti che ho preferito non sono tanto quelli di trama “esterna” ma quelli interni, che pongono davanti a ostacoli e mettono alla prova convinzioni.
Rory, per esempio, corre il grosso rischio di perdere presa sulla realtà nel praticare la sua magia e il tema collaterale della salute mentale mi è piaciuto molto. Le scene di psicometria sono immersive e intense, forse fra quelle che ho preferito per il modo in cui hanno consentito di giocare con le descrizioni e con le sensazioni.

Ma Rory non è l’unico paranormale della vicenda, perché Arthur si è costruito attorno una vera e propria famiglia di persone dotate di poteri magici. Questi personaggi secondari li ho trovati ben scritti e ben inseriti nell’economia della storia, soprattutto per quanto riguarda quelli femminili – con le loro ambizioni, le loro vite, le loro proprie personalità. Di certo una menzione d’onore va alla zia acquisita di Rory, Miss Brodigan, e alla telecinetica Jade (la cui relazione romantica secondaria non mi è affatto dispiaciuta).
L’unico appunto, forse dovuto alle mie preferenze personali, è quanto tutti i secondari siano buoni, dicano la cosa giusta al momento giusto, non mostrino egoismi di alcun tipo. Non è un aspetto spinto all’estremo ed è comunque piacevole conoscerli, ma io mi affeziono sempre di più a personaggi che hanno qualche oscurità.

La minaccia finale, per tornare alla trama esterna, l’ho trovata adeguata. Come si dice: senza infamia e senza lode. Le motivazioni ci sono, soprattutto per quanto riguarda personaggi del vissuto di Arthur, e c’è anche una certa dose di struggimento quando si guardano le cose da un’altra prospettiva e si comprende l’impatto di certi eventi passati, ma non mi ha fatto arrivare lì con il fiato sospeso e il cuore a mille.

“I can hold onto you because you won’t let go?”
“You’re damn right I won’t.”

E finiamo con l’ultima delle tre parole: prohibition.
La storia, infatti, è ambientata nel 1925 a Manhattan, all’epoca quindi del proibizionismo.
Ora, io sono completamente ignorante in merito quindi non posso confermare che si tratti di un romanzo storicamente accurato, ma ho trovato l’ambientazione sullo sfondo immersiva e interessante. Non prende mai il sopravvento, ma dà colore a molte scene. Un esempio è il primo incontro fra i due protagonisti, che per gran parte si svolge nello speakeasy – un locale segreto che propone intrattenimento e vende alcolici illegalmente – di proprietà di Jade.

“You make me think I got a chance. I don’t want safe, Ace, I want you.”

Quindi, se volete leggere una storia confortante e senza troppe pretese su due persone che si innamorano, condita da magia e piani per salvare il mondo, o se amate i paranormal romance ma li volete più queer e più storici, questo libro potrebbe fare al caso vostro!

“Così si perde la guerra del tempo” di Amal El-Mohtar e Max Gladstone

 “Così si perde la guerra del tempo” di Amal El-Mohtar e Max Gladstone è stata la prima lettura che ho fatto quest’anno e vorrei dire che ha stabilito il precedente per tutte le altre letture, ma la verità è che poco altro di ciò che l’ha seguito mi ha lasciato la stessa impressione. Quindi oggi ve ne parlo, così potrete decidere se questo volumetto fantascientifico che di fantascientifico ha solo il contorno può fare al caso vostro!

Trama:
Tra le ceneri di un mondo in rovina, Rossa trova una lettera: “bruciare prima di leggere”. Inizia così la strana corrispondenza tra due agenti rivali, in una guerra che si dipana attraverso le vastità del tempo e dello spazio. Rossa è membro dell’Agenzia, una distopia tecnologica post singolarità. Blu appartiene al Giardino, un’unica ampia coscienza che risiede in tutta la materia organica. I loro passati sono pieni di sangue; i loro futuri si escludono l’un l’altro. Non hanno nulla in comune, se non il fatto che sono le migliori.  Sono sole. Ma quella che è iniziata come una serie di provocazioni e sfoggio di vittore, diventa presto un gioco pericoloso, che sia Rossa sia Blu son ben determinate a vincere. E così la sfida si trasforma in qualcosa di più. Qualcosa di epico. Qualcosa di romantico. Qualcosa che potrebbe cambiare il passato e il futuro… e che potrebbe farle uccidere. Perché in fine dei conti c’è pur sempre una guerra in corso. E qualcuno deve vincerla. Non è così che funziona?


“Così si perde la guerra del tempo” racconta la sua storia attraverso le narrazioni in terza persona che seguono le due protagoniste – Rossa e Blu – e le lettere che le due si scambiano per provocarsi prima e conoscersi poi. Il tutto con uno stile lirico, che non spreca tempo a prendere per mano il lettore per indicargli ogni singolo dettaglio del mondo creato, ma si preoccupa di trasmettergli delle atmosfere e delle impressioni.

Certi giorni Blu si chiede perché qualcuno si sia preso la briga di creare numeri così piccoli; altri giorni pensa che l’infinito deve pur cominciare da qualche parte.

Le protagoniste sono due donne post-umanità, parte di un tutto più grande di loro – rispettivamente l’Agenzia e il Giardino – che le adopera come potenti pedine in una guerra che si combatte risalendo le “ciocche” del tempo e infiltrandosi fra chi quegli eventi li ha vissuti.
Blu e Rossa sono di volta in volta persone o entità qualsiasi in eventi che possono essere storicamente rilevanti anche per noi o in eventi dall’apparenza insignificante ma importanti per far pendere il futuro in favore di una fazione o dell’altra.
Non sono mai descritte con sfoggio di dettagli, ma nelle lettere si raccontano nei loro meccanismi segreti, nei loro desideri profondi, anche quando quei desideri le mettono a rischio come parte del tutto per cui lavorano (ed esistono).
Da qui parte la loro storia, fra le provocazioni e le sfide, fino ad arrivare a confessioni profonde sul significato di esistere, di amare, di condividere, di avere “fame” di cibo, sì, ma anche di molto altro.
Di desiderare.

La fame, Rossa – saziare una fame o alimentarla, sentire la fame come una fornace, percorrerne i bordi coi denti – è una cosa che tu personalmente conosci? Hai mai avuto una fame che si acuiva con ciò di cui la nutrivi, crescendo in modo tanto acuto e vivo da aprirti in due e creare una cosa nuova?

C’è qualcosa di viscerale e magnifico nel modo in cui le lettere vengono scambiate fra le due protagoniste. Sì, perché si potrebbe pensare all’idea che noi abbiamo di “lettera”, ma in questo libro niente è come noi lo conosciamo. Non le due protagoniste, non il tempo e lo spazio, e non di certo il modo in cui le due comunicano. E allora eccole a mangiare bacche per cavarne frasi, leggere missive negli insetti, scoprire parole nelle foglie di tè e fare scorrere i nodi delle corde fra le dita per trarne messaggi segreti. Le lettere non vengono solo lette, ma mangiate, assorbite, riposte in punti nascosti delle loro “menti”.
Non sono sole, però: dal principio leggiamo di come una Cercatrice sia sulle loro tracce e assorba – in modi più o meno letterali – tutto quello che fanno, recuperando ogni impressione che le loro interazioni lasciano nel tempo e nello spazio.

La lettera comincia al centro. Gli anelli, alcuni più spessi e altri più sottili, formano simboli in un alfabeto sconosciuto a tutti tranne che a Rossa. Le parole sono piccole, qualcuna sbavata, ma ferme: dieci anni per riga di testo, e molte righe.
Dev’esserci voluto un secolo per formare il messaggio, mappando le radici, depositando o sottraendo nutrienti anno dopo anno.

Quando si parla di tempo – e di viaggi nel tempo – resto sempre affascinata dal modo in cui il tema viene di volta in volta approcciato. Qui il tempo è uno dei temi portanti, ma l’approccio è quasi onirico, ha una consistenza impalpabile, eppure finisce comunque per collegare punti della narrazione che credevamo messi lì per altri motivi. È un bel cerchio, un’eco di avvenimenti passati e futuri che lega Rossa e Blu in qualcosa di più profondo e decisamente bello da leggere.

Ma la fame che descrivi tu – quella lama che squarcia la pelle, il logorio simile a quello del fianco di una montagna battuto dalle intemperie, il vuoto – mi suona bellissima e familiare.

Ma la trama in sé non è il motivo per cui questo libro mi è rimasto dentro. L’ho amato per il viaggio, per i posti in cui le parole hanno saputo portarmi, per le pulsioni così vive fra le pagine, così individuali e assolute allo stesso tempo.
Sì, questo romanzo è una poesia d’amore verso l’essere umani, verso i corpi abitati, le connessioni scelte, le resistenze, l’anima.

Voglio raccontarti qualcosa di me. Qualcosa di vero, o niente.

Se volete che la vostra fantascienza vi racconti tutto, che comunichi il mondo in modo dettagliato e diretto, questo libro potrebbe frustrarvi.
Lo consiglio invece a chi vuole intraprendere un viaggio lirico nel tempo e nello spazio, attraverso storie e umanità, per seguire due donne post-umane che si innamorano nonostante guerra, doveri e distruzione, e che – nel farlo – ci raccontano proprio cosa significa essere umani!

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“Randagi” di Angela Longobardi

Ormai lo sappiamo, Angela Longobardi è una delle autrici che più mi piace leggere nella scena “underground” di scrittori indipendenti. Con “Randagi”, uscito questo giugno 2021, Angela si riconferma un’autrice abile e sensibile, in grado di raccontare i suoi personaggi in modo diretto, senza sconti e – a volte – senza pietà.

Trama:
Daniela è la figlia della sindaca ed è innamorata di Lorenzo, il figlio del boss. Gabriele è il cugino di Daniela e soffre di afasia. Ismael spesso dorme nella stazione abbandonata dove il loro gruppo si ritrova.
È lì che Greta li incontra per la prima volta e cerca di usarli come distrazione dalla sua depressione.
La narrazione si alterna tra il prima, quando hanno diciotto anni e una vita davanti, e il dopo, quando sono grandi e non sono più gli stessi. A cambiarli è stato l’omicidio che li ha separati e spinti in direzioni diverse.


“Randagi” è un romanzo breve, scritto in modo scorrevole, che alterna il passato – in cui i protagonisti sono degli adolescenti che si affacciano alla vita adulta – e il presente – in cui scopriamo che qualcosa li ha allontanati e li vediamo finalmente cresciuti. Il tutto sullo sfondo di una stazione abbandonata quanto loro, riflesso delle singole solitudini che solo fra le macerie e la polvere riescono a trovare casa.

Daniela si era chiesta spesso come avessero fatto a trovarsi, loro quattro. Se doveva essere sincera, lei si trovava in quella stazione abbandonata per colpa di Gabriele, perché aveva visto Ismael e Lorenzo avvicinarlo, qualche anno prima, e aveva voluto assicurarsi che non si cacciasse nei guai. Così si erano trovati nei guai in due.

Come per gli altri libri dell’autrice, i personaggi e le dinamiche fra loro sono di certo la parte più emozionante da leggere e vivere. Ci si affeziona in fretta a questo gruppo di randagi che si è trovato e che ha formato una famiglia un po’ disfunzionale, ma piena dell’amore che nelle loro vere famiglie è impossibile trovare.
Tutti sono caratterizzati bene e le loro azioni sono facilmente riconducibili a questa loro caratterizzazione, anche quando si vorrebbe scuoterli con forza per non fargli fare errori. E di errori se ne fanno tanti, in questa storia, di grandi e di piccoli, con conseguenze più o meno importanti.
Perché fa parte della crescita e perché fa parte della vita.

Daniela e Lorenzo sono cresciuti in realtà opposte, che però hanno comunque influito sulle loro scelte e sulla loro relazione; Ismael cerca di sopravvivere a una situazione difficile e ne esce con le difese altissime, che in pochi sanno superare; Gabriele convive con l’afasia e spesso deve lasciare che siano i gesti a comunicare i suoi sentimenti e le sue delicatezze (personaggio preferito, lo ammetto). E poi c’è Greta, che si intrufola nel gruppo proprio come fa il lettore e che combatte con la depressione giorno dopo giorno.

Greta aveva lasciato la stazione abbandonata con una brutta sensazione alla bocca dello stomaco. Non era riuscita a fare nemmeno una foto alla ferrovia abbandonata perché si era fatta distrarre dal bagliore del fuoco che aveva visto in una delle finestre e poi dalla musica che si diffondeva in tutto lo stabile e nelle immediate vicinanze.

Non mancano i temi che si possono trovare in tutti i romanzi contemporanei scritti dall’autrice: la crescita, com’è ovvio, ma anche le difficoltà in famiglia, la salute mentale, la ricerca dell’identità, le relazioni queer, il contrasto fra le aspettative delle persone e ciò che si vuole dalla propria vita. E, come sempre, niente è fuori posto, nessun messaggio viene imboccato al lettore, niente viene trattato senza la necessaria sensibilità e attenzione. I temi sono lì, ma fanno parte di un tutto ben orchestrato, perfino in meno di centocinquanta pagine.

«Coraggio» disse Lorenzo, guardandoli a uno a uno. «Era quello che sognavamo da ragazzi, no? Essere grandi

Una delle parti che ho trovato più reali e vivide è il modo in cui i personaggi cambiano in età adulta e, di conseguenza, come cambiano i loro valori e i loro obiettivi. Come questo, più degli eventi improvvisi e traumatici, finisca per modellare le loro relazioni e il modo in cui si cercano o si respingono. Restano loro, ma nel frattempo gli è successa la vita, e mi piace che sia possibile leggerlo fra le righe.

Era quello che aveva attirato Greta dal primo momento: la sensazione di unione, di quel tipo di amicizia che vedeva alla TV.

Consigliato a chi ama i romanzi di formazione, le storie queer e le famiglie scelte. A chi ama le atmosfere dolci-amare, le malinconie, i legami che nascono dalle difficoltà e si dimostrano a volte forti, a volte terribilmente fragili. A chi vuole farsi scaldare il cuore, ma anche a chi non ha paura di farsi strapazzare dall’autrice, per poi chiudere il libro e capire che ne è valsa la pena.

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